LA CHIESA ALL’INCASSO
Una fitta rete di scambi, favori, cortesie, ‘battaglie morali’ e ‘pagamenti in contanti’ ha riversato negli ultimi anni un vero e proprio fiume di denaro ‘extra’ nelle casse della Chiesa cattolica, grazie a una miriade di provvedimenti ad hoc, molti dei quali passati completamente sotto silenzio. Vediamo come (e quanto).
Da Micromega n 7/2005
«La Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità
civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente
acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità
della sua testimonianza» (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes). Ma ve lo
immaginate voi l’illustrissimo cardinal Ruini che rinunci anche ad un solo
centesimo di quello che lo Stato dà alla Chiesa cattolica per fugare qualunque
dubbio sulla «sincerità della sua testimonianza»? La realtà è che la Chiesa
i soldi pubblici se li tiene ben stretti. E lo Stato non fa nulla per farle
allentare la presa. Anzi gli ultimi anni – quelli del governo Berlusconi in
modo clamoroso, ma anche quelli del centro-sinistra non sono stati avari –
sono stati caratterizzati da un massiccio trasferimento di soldi pubblici –
sia in forma diretta, sia in forma indiretta – nelle casse della Chiesa
cattolica. Ci riferiamo a denaro extra rispetto ai già cospicui finanziamenti
ordinari di cui usufruisce la Chiesa cattolica in Italia: un vero e proprio
fiume di denaro convogliato verso enti ed istituti ecclesiastici tramite una
miriade di provvedimenti ad hoc, molti dei quali passati completamente sotto
silenzio. Tentiamo qui di ricostruire questa fitta rete di scambi, favori,
cortesie, «battaglie morali», e «pagamenti in contanti».
Acque sante
L’articolo 6 dei Patti lateranensi assicura l’approvvigionamento idrico
completamente gratuito al Vaticano. Sul numero del 2-11-2000 il settimanale
L’Espresso commentava che «la Santa Sede non ha mai pagato una lira per il
consumo annuo di circa 5 milioni di metri cubi di acqua. Una quantità
sufficiente per dissetare 60 mila persone, ma utilizzata in gran parte per
innaffiare i lussureggianti giardini vaticani». Ai tempi dell’accordo fra
Mussolini e il cardinal Gasparri non si poneva però il problema
dell’eliminazione delle acque di scarico, che fino agli anni Settanta
confluivano nel Tevere senza alcun trattamento preliminare. Successivamente
furono costruite le vasche di depurazione e nonostante la Santa Sede abbia
continuato ad avvalersi di questo servizio, il comune di Roma non ha mai
ricevuto il pagamento corrispondente ai costi del servizio stesso, che nel 1999
hanno raggiunto la somma di 44 miliardi di lire. Quando l’azienda
municipalizzata di Roma, l’Acea, è stata quotata in Borsa, gli azionisti
hanno reclamato il pagamento delle «bollette arretrate». A quel punto il
ministero dell’Economia si è assunto l’onere di saldare il debito della
Santa Sede, ottenendo in cambio la garanzia – per il futuro – del pagamento
regolare da parte del Vaticano del servizio di smaltimento delle acque di
scarico, il cui costo è attualmente di circa 2 milioni di euro l’anno
(Adista, 22-11-2003).
In ogni caso, grazie ad un emendamento alla legge finanziaria 2004 proposto dal
senatore di Forza Italia Mario Ferrara, anche questi residui oneri decadono.
L’emendamento (inserito nella Finanziaria come comma 13 dell’art. 3) prevede
infatti lo stanziamento di «25 milioni di euro per l’anno 2004 e di 4 milioni
di euro a decorrere dall’anno 2005» per dotare il Vaticano di un sistema di
acque proprio.
Cinquanta milioni di euro sono invece stati stornati dal fondo speciale per il
disinquinamento delle acque di Venezia e versati direttamente nelle casse della
curia patriarcale. La decisione è stata presa nel febbraio del 2004 dal
presidente della regione Veneto Giancarlo Galan (Forza Italia) dopo che già
l’anno precedente la proposta – avanzata dal segretario regionale
all’Ambiente Roberto Casarin – era passata all’unanimità nella riunione a
palazzo Chigi del cosiddetto comitatone (il comitato per la gestione dei fondi
finalizzati alla salvaguardia di Venezia e della laguna composto dai vertici di
vari organismi nazionali e locali e presieduto dal capo del governo) (Adista,
21-2-2004).
A beneficiare della nuova destinazione dei fondi sono stati il palazzo
patriarcale di piazzetta dei Leoncini, la basilica della Salute ed il seminario
patriarcale alla Salute. Quest’ultimo è la sede dello Studium marcianum, il
grande polo di formazione della curia patriarcale costituito, fra l’altro,
dallo Studio teologico, «istituzione accademica che ha come finalità la
formazione teologica dei candidati al presbiterato della diocesi lagunare, nonché
dei fedeli laici» (www.marcianum.it/teologia) e dalla fondazione Giovanni Paolo
I, che comprende ogni ordine di scuola – dall’asilo al liceo classico – ed
il cui progetto educativo è «la formazione integrale dell’uomo, che ha in
Cristo il suo modello ideale, secondo quanto insegna la Chiesa: “Chi segue
Cristo, uomo perfetto, diventa lui pure più uomo”» (www.marcianum.it/fondazionegipi/accoglienza1.htm).
Dalla Croce rossa al crocifisso
L’11 maggio del 2000 l’assessore alla Sanità della regione Sicilia,
Giuseppe Provenzano (Forza Italia), ed il presidente della Conferenza episcopale
siciliana, cardinal Salvatore De Giorgi, firmano uno schema di intesa per
l’assistenza religiosa negli ospedali pubblici. Intese analoghe saranno
firmate successivamente dai presidenti delle regioni: Umbria (centro-sinistra)
il 19-11-2001, Puglia (centro-destra) il 30-1-2002, Toscana (centro-sinistra) il
24-1-2005. L’ultimo protocollo di intesa in ordine cronologico è quello
firmato dal presidente della regione Lombardia, Roberto Formigoni (Forza
Italia), e dal presidente della Conferenza episcopale lombarda, cardinal Dionigi
Tettamanzi. L’accordo «ha lo scopo di favorire l’esercizio della libertà
religiosa, l’adempimento delle pratiche di culto, ed il soddisfacimento delle
esigenze spirituali proprie delle persone inferme di confessione cattolica e dei
loro famigliari, nonché di quanti operano a qualsiasi titolo nelle medesime
strutture, compatibilmente con l’assolvimento dei propri obblighi di servizio»
(comma 2, art. 3). A tale fine, per ogni ente gestore (con questo termine si
intendono le «aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere e, in generale,
tutte le altre strutture sanitarie pubbliche e private accreditate») «deve
essere previsto almeno un assistente religioso». In strutture con più di 300
posti letto gli «assistenti religiosi» saranno due. Oltre i 700 posti letto
saranno uno ogni 350. Quanto alla copertura degli oneri finanziari del servizio,
l’articolo 7 comma 2 dell’Intesa afferma esplicitamente che «gli assistenti
religiosi sono assunti dall’ente gestore, su designazione dell’ordinario
diocesano, con contratto di natura indeterminata, a tempo pieno o parziale. Ai
fini dell’assunzione si tiene conto dei requisiti previsti dalla normativa e
dai contratti collettivi nazionali vigenti». Inoltre l’ente gestore deve
assicurare «spazi idonei per le funzioni di culto (chiesa o cappella e
sacrestia), per l’attività religiosa relativa ai servizi mortuari, ad uso
ufficio, per gli assistenti religiosi ed i loro collaboratori, con relativi
arredi, attrezzature ed accessori», e mettere a disposizione degli assistenti
religiosi «un alloggio, adeguatamente arredato, di regola ubicato all’interno
della struttura di ricovero o comunque comunicante con la stessa»
(rispettivamente commi 1 e 2, art. 10). Infine, «le usuali spese di culto,
nonché quelle di conservazione degli arredi, suppellettili e attrezzature
occorrenti per il funzionamento del servizio, la manutenzione ordinaria e
straordinaria degli spazi in uso, le pulizie (escluse quelle dell’alloggio, se
esterno alla struttura), nonché le spese di illuminazione e riscaldamento di
tutti i locali adibiti al servizio di assistenza religiosa, sono a carico
dell’ente gestore» (comma 4, art. 10).
Scuole private (ossia, cattoliche)
È una storia lunga e complicata quella del rapporto tra lo Stato italiano e la
scuola privata. In Italia dire scuola privata significa dire scuola cattolica.
La stragrande maggioranza delle scuole private italiane, infatti, o è
direttamente gestita da un qualche ordine religioso o si ispira comunque
all’educazione cattolica. Parlare dunque dell’atteggiamento dello Stato nei
confronti della scuola privata significa parlare del rapporto tra Stato e
Chiesa. Ed è un rapporto che nel tempo si è fatto sempre più stretto e
amichevole. L’articolo 33 della nostra Costituzione (il famoso «senza oneri
per lo Stato») è praticamente sparito dalla legislazione italiana e parlare di
finanziamenti, contributi, sussidi alle scuole private non provoca ormai neanche
più imbarazzo.
Alla scuola privata italiana arrivano fiumi di denaro appartenente ai
contribuenti attraverso mille rigagnoli il cui percorso è arduo seguire:
contributi statali, finanziamenti a singoli progetti, buoni scuola alle
famiglie, sussidi regionali e di altri enti locali.
Proviamo a fare un po’ di ordine.
A livello statale sono due i principali canali attraverso cui le scuole «non
statali», così parla la normativa, ricevono denaro pubblico: sussidi diretti
alle scuole sotto forma di contributi per la gestione delle scuole
(dell’infanzia e primarie) e di finanziamenti di progetti «finalizzati
all’elevazione di qualità ed efficacia delle offerte formative» (per le
scuole medie e superiori) e contributi alle famiglie (i cosiddetti buoni scuola)
per le scuole di ogni ordine e grado.
Finanziamenti (più o meno) diretti alle scuole private. Il «la» ai
finanziamenti pubblici alla scuola privata è stato dato, ahinoi!, dal governo
di centro-sinistra. L’allora ministro della Pubblica istruzione, Luigi
Berlinguer, ha emanato due decreti (dm 261/98 e dm 279/99) poi coordinati in un
unico testo che ha per esplicito oggetto la «concessione di contributi alle
scuole secondarie legalmente riconosciute e pareggiate». Sono stati questi due
provvedimenti la base per la concessione di finanziamenti sistematici e regolari
alle scuole private.
L’approvazione della legge sulla parità scolastica, la n. 62 del 2000 (siamo
ancora nel D’Alema bis), ha poi messo la ciliegina sulla grande torta
dell’istruzione cattolica. Le scuole private entrano a far parte a pieno
titolo del sistema di istruzione nazionale e pertanto da questo momento in poi
devono essere trattate «alla pari», anche sul piano economico. La legge
prevede l’applicazione alle scuole paritarie del trattamento fiscale
riconosciuto agli enti senza fini di lucro e istituisce di fatto i buoni scuola
statali, per i quali stanzia 300 miliardi annui di vecchie lire a decorrere dal
2001. Aumenta di 60 miliardi di lire i contributi per il mantenimento di scuole
elementari parificate e di 280 quelli per spese di partecipazione alla
realizzazione del sistema prescolastico integrato. Ed infine è di 7 miliardi il
fondo per le scuole che accolgono disabili. Onere complessivo: 347 miliardi di
lire all’anno.
I due decreti prima citati sono poi stati sostituiti da un decreto voluto dal
ministro Moratti (dm 27/2005) che ha apportato delle piccole ma significative
modifiche. Il decreto della Moratti, per esempio, non parla più – come i suoi
antecedenti – di «concessione di contributi» ma esplicitamente di «partecipazione
alle spese delle scuole secondarie paritarie». Sono stati leggermente abbassati
i criteri per l’accesso ai contributi (classi con almeno otto alunni invece
che dieci) e innalzati i livelli massimi dei contributi:12 mila euro per una
scuola media e 18 mila per una superiore. Le scuole possono anche presentare
progetti «in rete», finanziabili fino ad un massimo di 100 mila euro.
Per il 2005 i «contributi alle scuole non statali» (circolare ministeriale n.
38 del 22 marzo 2005) ammontano complessivamente a poco meno di 500 milioni e
500 mila euro. Di questi più di 86 milioni sono destinati a sussidi di gestione
alle scuole dell’infanzia; circa 270 milioni a finanziare il sistema
prescolastico integrato; più di 150 milioni vanno alle scuole primarie; 10
milioni sono i contributi alle scuole non statali che accolgono disabili ed
infine 13 milioni e 600 mila euro è il fondo per finanziare i progetti
formativi delle scuole medie e superiori secondarie. Questo fondo è più che
raddoppiato rispetto al 2004, anno in cui ammontava a poco meno di 6 milioni di
euro. Sono più di 700 i progetti finanziati. Come se non bastasse quest’anno
saranno finanziati con un milione di euro progetti di «formazione del personale
preposto alla direzione delle scuole paritarie» (circolare n. 77 del 14 ottobre
2005). Probabilmente poi il 2006 sarà un anno d’oro per le scuole private:
oltre agli stanziamenti nei relativi capitoli di spesa del ministero (il cui
importo è ancora da definire) pare siano previsti altri 150 milioni di euro
prelevati dal «Fondo famiglia e solidarietà», la cui destinazione di uso non
è ancora stata precisata al momento in cui scriviamo (art. 44 del disegno di
legge 3613, legge finanziaria 2006).
Buoni scuola. I cosiddetti buoni scuola sono dei contributi destinati
alle famiglie a parziale o totale copertura delle spese di iscrizione dei figli
alle scuole. Il mondo dei buoni scuola è, se possibile, ancora più complicato
di quello dei finanziamenti diretti. I buoni scuola sono un’invenzione di
alcune regioni e con la legge sulla parità del 2000 (che, lo ricordiamo ad
abundantiam, è stata approvata dal governo di centro-sinistra) sono stati
istituzionalizzati anche a livello nazionale. Il comma 9 dell’articolo unico
della legge 62/2000 recita: «Al fine di rendere effettivo il diritto allo
studio e all’istruzione a tutti gli alunni delle scuole statali e paritarie
[…] lo Stato adotta un piano straordinario di finanziamento alle regioni e
alle province autonome di Trento e Bolzano da utilizzare a sostegno della spesa
sostenuta e documentata dalle famiglie». Piano straordinario al quale, per
quanto riguarda le sole scuole private, provvede la legge 289 del 2002: 30
milioni di euro è il tetto di spesa per gli anni 2003, 2004, 2005. Ma quali
sono i criteri di assegnazione dei buoni scuola statali? «Anche quest’anno»,
recita orgogliosa una nota del ministero dello scorso maggio, «per accedere
alla richiesta non sono imposti limiti di reddito». Anche chi ha tanti soldi,
dunque, può fare domanda. Certo, c’è il limite di spesa imposto dalla legge,
che per il 2005 però è stato aumentato a 50 milioni di euro grazie ad un
ulteriore finanziamento di 20 milioni di euro previsto dalla finanziaria 2004.
Finanche l’Azione cattolica, in riferimento al decreto interministeriale del
28 agosto 2003 attuativo della legge 289/2002, ha espresso «preoccupazione per
l’assenza nel decreto di un limite di reddito al di sopra del quale non sia
possibile accedere al contributo, assenza che rischia di trasformare il
provvedimento, da strumento necessario per assicurare a tutti un pieno diritto
all’istruzione nel sistema pubblico integrato, in particolare ai ragazzi delle
famiglie più deboli, in una ulteriore discriminazione a danno di chi è
economicamente svantaggiato» (Ansa, 9 settembre 2003). Il buono scuola statale
per il 2005 è di 353 euro per l’iscrizione alle scuole primarie paritarie non
parificate, 420 euro per l’iscrizione alle scuole medie paritarie e di 564 per
l’iscrizione al primo anno delle scuole superiori paritarie.
Poiché la legge sulla parità non fa alcun cenno all’eventuale incompatibilità
dei buoni scuola statali con quelli regionali, si è creato un sistema a doppio
regime: nelle regioni che lo prevedono, le famiglie possono ricevere sia il
buono scuola nazionale che quello regionale. È il caso, per esempio, del
Veneto, regione antesignana in fatto di buoni scuola. Con la legge regionale n.
1 del 2001 il Veneto ha istituito i buoni scuola da destinare alle famiglie
degli studenti iscritti alle scuole statali e paritarie. La regione stabilisce
però che «il contributo può essere concesso solo qualora la spesa sostenuta
sia uguale o superiore a euro 200». Poiché le tasse di iscrizione alle scuole
statali non superano di solito quella cifra, l’intero ammontare del fondo
messo a disposizione dalla regione va di fatto nelle tasche delle famiglie che
decidono di iscrivere i propri figli alle scuole private, che riceveranno,
stavolta a seconda del reddito e del tipo di scuola, dai 310 ai 1.300 euro
cumulabili con il buono statale. Le regioni che, oltre al già citato Veneto,
prevedono i buoni scuola – con leggere variazioni tra l’una e l’altra –
sono tante: Emilia Romagna, Friuli, Lombardia, Liguria, Toscana, Sicilia,
Piemonte. Ma gli epigoni si moltiplicano a vista d’occhio.
Tutti questi provvedimenti, è vero, sono rivolti alle scuole private in
generale. Ma, come abbiamo già sottolineato, la stragrande maggioranza delle
scuole private in Italia è gestita dalla Chiesa cattolica. Non è un caso che
sia proprio il fronte cattolico quello più agguerrito in fatto di parità e
finanziamenti pubblici alle private. E non è un caso che Enzo Meloni,
presidente dell’Associazione genitori cattolici, si sia sentito in diritto di
«sollecitare» il ministro Moratti «in merito ai tempi di erogazione del
contributo alle famiglie degli alunni delle scuole paritarie» e che il ministro
si sia sentito in dovere di rispondergli assicurandogli che l’erogazione dei
contributi per l’anno 2004 sarebbe avvenuta «entro maggio» 2005 (lettera del
ministro Letizia Moratti al presidente dell’Agesc Enzo Meloni del 4 febbraio
2005, prot. n. 15370, disponibile sul sito dell’Agesc al link
http://www.agesc.it/politiche/parita/BuonoSS9.html)
Philosophia ancilla theologiae
Come se tutto questo non bastasse, un paio di anni fa, esattamente nell’agosto
del 2003, il governo – con l’appoggio di Margherita e Udeur – ha approvato
una legge per l’immissione in ruolo degli insegnanti di religione.
L’insegnamento della religione cattolica è nel nostro paese facoltativa.
Pertanto potrebbe capitare che in una classe o addirittura in un’intera scuola
non sia necessario nessun insegnante di religione. Per di più l’idoneità
all’insegnamento della religione cattolica non viene data – per palese
incompetenza – dallo Stato ma dal vescovo. Stanti queste premesse, fino
all’anno scorso lo Stato assumeva gli insegnanti di religione con contratti
annuali a seconda della richiesta. Chiaro che ne derivasse una situazione di
precarietà per gli insegnanti in questione. E allora ecco il tempestivo
intervento del governo che – dimenticando completamente le masse di precari «storici»
che da anni, se non da decenni, aspettano l’immissione in ruolo (che non
arriva non per mancanza di posti ma per asserita mancanza di fondi) – con un
colpo di bacchetta magica trasforma docenti di una materia facoltativa
autorizzati all’insegnamento da un’autorità ecclesiastica in dipendenti
statali a tutti gli effetti. Ne derivano stato giuridico e trattamento economico
equivalente ai colleghi che insegnano discipline curriculari, ma soprattutto il
diritto alla mobilità. Che significa? Poniamo che ad un insegnante di religione
venga ritirata l’idoneità da parte del vescovo (cosa in cui lo Stato continua
a non poter mettere becco) e poniamo che il nostro insegnante avesse in gioventù
preso l’abilitazione all’insegnamento di una materia curriculare. Non
potendo più insegnare religione potrebbe essere trasferito ad occupare
un’altra cattedra e, essendo già in ruolo, scavalcherebbe tutti i precari
nelle graduatorie per quella cattedra. L’operazione potrebbe essere fatta
anche senza l’atto vescovile di revoca dell’idoneità. Poniamo infatti che
il nostro insegnante si sia stufato di insegnare religione e, ricordandosi di
una vecchia abilitazione in filosofia, chieda il passaggio di cattedra. Anche in
questo caso scavalcherebbe tutti i colleghi nelle graduatorie relative a quella
cattedra. Infine, nel caso in cui a questi insegnanti venga revocata l’idoneità
da parte del vescovo e non siano in possesso di altra abilitazione
all’insegnamento, lo Stato dovrà comunque provvedere a trovare loro una
sistemazione lavorativa, trasferendoli magari nelle segreterie delle scuole.
Saranno più di 15 mila complessivamente gli insegnanti di religione che saranno
immessi in ruolo entro il prossimo anno scolastico.
Fuori i baroni… dentro i cardinali
Anche le università cattoliche non hanno da lamentarsi. Con la Finanziaria 2004
il governo ha stanziato 20 milioni di euro per l’anno 2004 e 30 milioni per il
2005 da destinare all’Università Campus Bio-Medico per la realizzazionone di
un policlinico universitario, «al fine di potenziare la ricerca biomedica in
Italia». A quale visione della ricerca scientifica si ispiri il Campus è però
perfettamente chiarito dall’articolo 7 della sua Carta delle finalità: «L’Università
intende operare in piena fedeltà al Magistero della Chiesa Cattolica, che è
garante del valido fondamento del sapere umano, poiché l’autentico progresso
scientifico non può mai entrare in opposizione con la Fede, giacché la ragione
(che ha la capacità di riconoscere la verità) e la fede hanno origine nello
stesso Dio, fonte di ogni verità». Del resto l’ateneo si definisce
esplicitamente «un’opera apostolica della Prelatura dell’Opus Dei», cui è
affidata «la formazione dottrinale e l’assistenza spirituale». Molto
significativi anche i seguenti articoli della già citata Carta delle finalità:
«Art. 10. Il personale docente e non docente, gli studenti e i frequentatori
dell’Università si impegnano a rispettare la vita dell’essere umano dal
momento iniziale del concepimento fino alla morte naturale. Essi considerano
l’aborto procurato e la cosiddetta eutanasia come crimini in base alla legge
naturale; per tale motivo si avvarranno del diritto di obiezione di coscienza
previsto dall’art. 9 della legge 22 maggio 1978 n. 194. Si ritiene inoltre
inaccettabile l’uso della diagnostica prenatale con fini di interruzione della
gravidanza ed ogni pratica, ricerca o sperimentazione che implichi la
produzione, manipolazione o distruzione di embrioni. Art. 11. Il personale
docente e non docente, gli studenti e i frequentatori dell’Università
riconoscono che la procreazione umana dipende da leggi iscritte dal Creatore
nell’essere stesso dell’uomo e della donna, ed è sempre degna della più
alta considerazione. I criteri morali che devono guidare l’atto medico in
questo campo si deducono dalla dignità della persona, dal significato e dalle
finalità della sessualità umana. Tutti considerano, pertanto, inaccettabili
interventi quali la sterilizzazione diretta e la fecondazione artificiale».
La Finanziaria del 2005 prevede inoltre un finanziamento di 15 milioni di euro
per il Centro San Raffaele del Monte Tabor di don Luigi Verzè «in
considerazione del rilievo nazionale ed internazionale nella sperimentazione
sanitaria di elevata specializzazione e nella cura delle più rilevanti
patologie».
Nel 2004 il governo istituisce varie università non statali in aggiunta a
quelle esistenti. Fra i nuovi atenei legalmente riconosciuti dal Comitato
nazionale per la valutazione del sistema universitario (nel documento sullo «Sviluppo
e programmazione del sistema universitario per il triennio 2004-2006»,
reperibile al sito www.cnvsu.org/_library/downloadfile.asp?id=11228) vi è
l’Università europea di Roma dei Legionari di Cristo, che potrà quindi
usufruire dei fondi stanziati dal governo per le università private. Tale
riconoscimento è effettuato contro il parere del Comitato regionale di
coordinamento delle università del Lazio. Fra le motivazioni addotte nel
documento del ministero dell’Istruzione (che sotto la direzione di Letizia
Moratti ha più volte ignorato il parere dei rettori dando riconoscimenti
ufficiali a poli universitari «pittoreschi» tipo l’Università europea degli
studi Franco Ranieri, fondata in una palazzina di Messina dal signor Ranieri e
dal figlio) vi è un significativo apprezzamento sui percorsi didattici
proposti: «Caratteristica innovativa del percorso formativo», si legge a
pagina 25 del documento ministeriale, «è quella di prevedere per ogni corso di
studio un primo anno in comune e poi dal secondo anno due curricula
differenziati e specifici; particolarmente interessante l’articolazione nel
curriculum Storico-religioso e Storico-politico del corso di laurea in Scienze
storiche e Filosofico-teoretico e Filosofico-bioetico del corso di laurea in
Filosofia». Alla cerimonia per l’inaugurazione dell’università – il 14
ottobre 2004 – hanno partecipato sia il sottosegretario alla presidenza del
Consiglio Gianni Letta, sia il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio.
Con la legge n. 293 del 23 ottobre 2003, inoltre, il parlamento conferisce
riconoscimento legislativo all’Istituto di studi politici San Pio V e ne
approva il finanziamento per una cifra pari a 1,5 milioni di euro annui.
L’istituto ha sede a Roma in piazza Navona ed ha promosso la creazione della
Libera università degli studi San Pio V (via delle Sette Chiese, 139),
controllata, insieme all’Ateneo pontificio Regina Apostolorum, dalla
Congregazione dei Legionari di Cristo (Adista, 22-11-2003). Interessante
l’apologia del «grande inquisitore» fatta durante la discussione in aula
della legge dal leghista Federico Bricolo, esponente del Carroccio molto vicino
alla confraternita San Pio X fondata da Marcel Lefebvre (il 4/7/2003, in
un’intervista al Corriere del Veneto, difende lo spiritualismo
ultratradizionalista dei lefebvriani ed afferma: «Dopo il Concilio una larga
parte della Chiesa si è voluta adeguare alle tesi progressiste e ai tempi
moderni. Assorbendo alcune idee illuministiche che portano al relativismo
religioso»). L’onorevole Bricolo dichiara alla Camera che Pio V «si batté
contro l’islam e indisse la Crociata contro i turchi, che vennero sconfitti
nella più grande battaglia navale della storia a Lepanto il 7 ottobre 1571,
consacrando quel giorno, da allora in poi, alla Madonna del Rosario alla cui
intercessione attribuì la vittoria»; «il Papa combatté per difendere la
nostra civiltà» sia contro i turchi sia contro l’eresia protestante di
Lutero, decretando e rendendo «perenne la messa in latino in rito romano antico»,
fino a quando, con Paolo VI, «si “protestantizzò” la liturgia» e «si aprì
la strada per un processo di riforma liturgica che ora permette a sacerdoti
sempre più disorientati di celebrare messe con rappresentanti di altre
religioni, di celebrare messe con la bandiera della pace sull’altare, di
introdurre tamburi, chitarre, ballerini nelle chiese, di servire la comunione
non più in ginocchio in segno di riverenza ma in piedi o addirittura nelle
mani, di fare confessioni comuni, cambiando talvolta il significato stesso della
Messa da sacrificio redentivo a banchetto conviviale» (Adista, 22-11-2003).
Spirito santo e polvere di stelle
Nella finanziaria 2005 al comma 206 spunta un finanziamento di 1 milione di euro
«allo scopo di promuovere il potenziamento della strumentazione tecnologica e
l’aggiornamento della tecnologia impiegata nel settore della radiofonia».
Rispetto ai soggetti che possono usufruire del contributo si rimanda al comma
190 della Finanziaria dell’anno precedente. Qui la formula si mantiene
piuttosto sul vago, riferendosi ad «emittenti radiofoniche nazionali a
carattere comunitario». Le uniche due emittenti che, guarda caso, rispondono a
questo identikit sono però Radio Padania Libera, la radio della Lega Nord, e
Radio Maria. Il sito Internet di quest’ultima illustra molto chiaramente il
progetto editoriale alla base della programmazione dell’emittente: «Diffondere
il messaggio evangelico in comunione con la dottrina e le indicazioni pastorali
della Chiesa Cattolica e nella fedeltà al Santo Padre, usando tutte le
potenzialità del mezzo radiofonico. […] La continua espansione della radio è
finalizzata a portare il suo annuncio di conversione in tutto il mondo».
Mantenendoci nel settore delle comunicazioni non si può certo dire che il
servizio pubblico abbia lesinato attenzione e risorse al mondo cattolico in
occasione della scomparsa di Giovanni Paolo II. Trascuriamo qui i contenuti di
un approccio giornalistico perennemente appiattito sull’agiografia del
personaggio, senza mai uno spazio dove si potesse affrontare una discussione
seria, approfondita e plurale su una figura storica così importante – e
controversa – come Karol Wojtyl´a. Al di là del fatto che non si è quasi
mai sentito un riferimento da parte dei commentatori televisivi in merito a
questioni come la repressione della teologia della liberazione, la morale
sessuale, la democrazia interna alla Chiesa, il protagonismo mediatico della
figura del pontefice, e molto altro ancora, frequenti sono stati i momenti dove
si è oggettivamente toccato il ridicolo (volendo fare un esempio potremmo
citare la fantasmagorica discussione sul bilancio del pontificato sulla
trasmissione L’Italia sul Due, su Rai2: ospiti in studio Camila Raznovich,
conturbante conduttrice di Mtv, e Andrea Roncato, ex membro del duo comico Gigi
e Andrea attualmente attore nella fiction di Canale 5 Carabinieri).
Trascurando tutto questo e facendo parlare solo le crude cifre, è possibile
certificare esattamente quanto siano costate al servizio pubblico le lunghe ed
ininterrotte dirette (spesso a reti unificate) da piazza San Pietro, e le
innumerevoli trasmissioni di «approfondimento» legate alla morte di Giovanni
Paolo II e alla nomina di Benedetto XVI. È infatti sufficiente contabilizzare
il costo in termini di mancati introiti pubblicitari che le variazioni di
palinsesto effettuate in occasione di quell’evento hanno comportato. La cifra,
resa nota dalla Sipra (la concessionaria di pubblicità della Rai) è di 9
milioni e 200 mila euro (la Repubblica 17-10-2005).
Otto per mille: Chiesa pigliatutto (anche ciò che non le spetta)
Consistenti trasferimenti di denaro ad enti ed associazioni che fanno capo, più
o meno direttamente, alla Chiesa cattolica sono stati effettuati anche con
l’ultima ripartizione della quota «statale» dell’8 per mille. Eviteremo in
questa sede di addentrarci nell’analisi di un sistema discutibile come quello
dell’8 per mille, (molto contestata è, ad esempio, la ripartizione con metodo
proporzionale – quindi pro Chiesa cattolica – della quota corrispondente ai
contribuenti che non hanno espresso alcuna preferenza. Sull’argomento è
uscita un’inchiesta di Attilio sul Venerdì di Repubblica del 1-7-2005).
La novità introdotta dal governo rispetto alle «distorsioni strutturali» che
già caratterizzano il sistema dell’8 per mille (che nell’ultimo anno ha
fruttato alla Chiesa cattolica 984 milioni di euro, di cui solo 195 sono
destinati ad interventi caritativi, Ansa, 31-5-2005) consiste nell’utilizzo di
una parte cospicua dei fondi assegnati dai cittadini allo Stato per finanziare
opere di restauro di beni: circa 10 milioni di euro, il 10 per cento dei 100
milioni complessivi di quota statale (Adista, 20-11-2004). Nel decreto del
presidente del Consiglio apparso sulla Gazzetta Ufficiale il 26 gennaio 2005 è
possibile leggere l’elenco preciso delle singole voci di spesa. Di seguito
alcuni esempi: Pontificia università Gregoriana di Roma (370 mila euro); curia
generalizia Casa di Santa Brigida, Roma (400 mila euro, soldi che serviranno al
risanamento conservativo ed alla manutenzione straordinaria dell’eremo del SS.
Salvatore di Napoli, utilizzato dalle religiose come «casa di accoglienza» e
precedentemente acquistato con i fondi statali per il Giubileo del 2000);
seminario vescovile di Fiesole (200 mila euro); venerabile confraternita Santa
Maria della Purità, Gallipoli, Lecce (300 mila euro); Opera preservazione della
fede, Ventimiglia, Imperia (420 mila euro); Opera Pia Casa Regina Coeli, Napoli
(40 mila euro); Associazione volontari per il servizio internazionale, Forlì
(202.941 euro di finanziamento per un progetto alimentare nella Repubblica
democratica del Congo. L’Avsi è un’organizzazione non governativa aderente
alla Compagnia delle opere, il «braccio economico» di Comunione e
liberazione).
Tra l’altro in una risoluzione del 5 aprile 2005 l’Agenzia delle entrate ha
portato agli enti ecclesiastici ciò che il mensile L’amico del clero ha
definito una «buona notizia»: «Le offerte destinate alle parrocchie da enti
non commerciali e da persone fisiche per la realizzazione di restauri,
manutenzioni e opere di protezione di chiese, campanili, dipinti, sculture,
arredi sacri, strumenti musicali, e in generale di beni mobili e immobili di
interesse storico artistico, sono oneri che gli offerenti possono far valere
come detrazione di imposta» nonostante il testo unico delle imposte sui redditi
(dpr 917/1986) non faccia riferimento a parrocchie ed altri enti ecclesiastici
fra «i soggetti destinatari delle liberalità detraibili» (L’amico del
clero, luglio-agosto 2005).
Oratori di Stato
Il 1 agosto del 2003 viene approvata la legge sugli oratori, sul modello di
alcune leggi regionali già introdotte dalle giunte di centro-destra di Lazio,
Lombardia, Abruzzo, Piemonte e Calabria. Attraverso questa legge «lo Stato
riconosce e incentiva la funzione educativa e sociale svolta nella comunità
locale, mediante le attività di oratorio o attività similari, dalle parrocchie
e dagli enti ecclesiastici della Chiesa Cattolica, nonché dagli enti delle
altre confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato un’intesa».
Questo riconoscimento implica innanzitutto che lo Stato, le regioni e gli enti
locali possano concedere in comodato (cioè a titolo completamente gratuito)
beni mobili ed immobili di loro proprietà. Inoltre la legge prevede
l’esenzione dall’Ici dei locali dell’oratorio quali «opere di
urbanizzazione secondaria». Il mancato introito da parte dei comuni di questi
fondi, calcolato dalla legge pari a 2,5 milioni di euro annui, viene coperto
dallo Stato.
La legge era stata presentata il 31 maggio 2001, proprio all’indomani della
vittoria elettorale, da Luca Volonté, Rocco Buttiglione ed altri parlamentari
dell’Udc. Dopo essere passata alla Camera il 19 giugno 2003, il presidente del
senato Marcello Pera si era prodigato affinché fosse celermente ratificata
consentendone l’esame alla commissione Affari costituzionali del Senato «in
sede deliberante», ovvero eliminando la necessità del passaggio in aula. Del
resto la legge – sebbene sia stata definita da uno dei suoi promotori, il
senatore Maurizio Eufemi, come «un punto qualificante del programma dell’Udc»
(Ansa, 23-7-2003) – ha ricevuto un consenso bipartisan da parte di tutte le
forze politiche, ad eccezione di Comunisti italiani e Rifondazione. Il senatore
della Margherita Pierluigi Petrini ha dichiarato che «il provvedimento svolge
una funzione sociale non solo nei confronti dei soggetti considerati deboli, in
grave stato di necessità ed emarginazione, ma si rivolge alla comunità nel suo
insieme, partendo dalla considerazione che ciascuno di noi può attraversare nel
corso della vita momenti difficili» (Ansa, 15-5-2003). Secondo la deputata dei
Verdi Luana Zanella si tratta invece di «una norma innovativa per valorizzare
quanti nel territorio intervengono nella promozione umana e sociale» (Ansa,
19-6-2003).
Paradisi fiscali
Di recente è stato oggetto di numerose polemiche il provvedimento per
l’esenzione dal pagamento dell’Ici degli immobili ecclesiastici destinati ad
uso commerciale. Un comunicato stampa del 29 settembre 2005 dell’Ufficio
nazionale per le comunicazioni sociali della Cei denunciava le «gravi e
fuorvianti inesattezze» che avevano caratterizzato il dibattito
sull’esenzione Ici per gli enti ecclesiastici. Secondo la Cei, infatti, «l’esenzione
da tale imposta è già definita per legge fin dal 1992 e il recente decreto
legge non fa che confermarla, esplicitando gli ambiti di applicazione». Eppure
il decreto legislativo del 30 dicembre 1992, cui fa riferimento il citato
comunicato stampa, risulta già sufficientemente esplicito, dichiarando che «sono
esenti dall’imposta gli immobili […] destinati esclusivamente allo
svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche,
ricettive, culturali, ricreative e sportive». L’elenco non comprende invece
attività a fini di lucro.
Del resto, a fare chiarezza sulla questione erano intervenute anche due sentenze
della Cassazione del marzo 2004, le quali precisavano che solo gli immobili
religiosi «direttamente utilizzati per lo svolgimento delle attività
istituzionali» possono essere equiparati «a quelli aventi fini di istruzione o
di beneficenza» e quindi possono avere diritto all’esenzione Ici. «Non lo
sono invece gli immobili destinati ad altro, cosicché un ente ecclesiastico può
svolgere liberamente anche un’attività di carattere commerciale, ma non per
questo si modifica la natura dell’attività stessa». Dunque, ai fini
tributari, «le norme applicabili rimangono quelle previste per le attività
commerciali» (la Repubblica, 7-10-2005).
Veniva quindi ad essere privata di ogni legittimità la fantasiosa
interpretazione «estensiva» adottata dalla Cei.
Di fronte al rischio da parte degli enti ecclesiastici di dover corrispondere
l’importo della tassa mai versata ai comuni negli ultimi 5 anni (essendo
prescritti i precedenti, dal 1993 in poi) il governo si è attivato con un
decreto legge (17 agosto 2005) che cambia la vecchia normativa per includere le
attività commerciali fra quelle comprese nel diritto all’esenzione Ici.
Il mancato gettito annuale per i comuni è stato calcolato nell’ordine dei 300
milioni di euro (la Repubblica, 8-10-2005).
Pietro Bellini, professore emerito di Storia del diritto canonico
all’Università La Sapienza di Roma, ha inoltre osservato che il provvedimento
del governo «rinnova la disciplina concordataria per quello che riguarda il
regime tributario». Secondo il professor Bellini, infatti, «l’articolo 7.3
del Concordato dice che agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi
fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono
equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione. Mentre le
attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti
ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di
tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime
tributario previsto per le medesime». Dunque, la norma in questione «paradossalmente
va proprio contro il sistema concordatario. Dico paradossalmente», conclude
Bellini, «perché c’è una modifica del Concordato da parte dello Stato,
peraltro in favore della Chiesa, che avviene nelle forme non previste dallo
stesso Concordato. Il quale, essendo “protetto” dalla Costituzione, non può
essere modificato se non nelle forme previste dalla Costituzione stessa, cioè
attraverso un accordo tra le parti» (Ansa, 7-10-2005; Adista, 7-10-2005).
Se il decreto non ha fatto in tempo ad essere convertito in legge dal parlamento
(dopo essere passato al Senato si è bloccato alla Camera nei giorni
dell’approvazione della legge elettorale ed è decaduto), il provvedimento è
stato però ripreso nel decreto fiscale collegato alla finanziaria. Nella nuova
formula a godere dell’esenzione saranno anche organizzazioni no-profit e tutte
le Chiese con cui lo Stato ha stretto un’intesa: Chiesa cattolica, Tavola
valdese, Unione delle Chiese avventiste del settimo giorno, Assemblee di Dio in
Italia, Unione delle comunità ebraiche in Italia, Unione cristiana evangelica
battista d’Italia e Chiesa evangelica luterana in Italia (da notare che un
analogo emendamento per l’estensione della norma alle altre confessioni era
stato presentato in occasione della discussione sul precedente decreto legge dal
senatore di Forza Italia Lucio Malan, di religione valdese, ma aveva ricevuto
solo 60 voti, tutti raccolti fra l’opposizione e la Lega Nord, (Corriere della
Sera, 7-10-2005).
Nel momento in cui scriviamo il decreto fiscale, approvato dal Senato, è ancora
in discussione alla Camera.
Di fronte agli amorevoli doni di questi anni siamo fiduciosi che le gerarchie
ecclesiastiche vorranno ringraziare sentitamente i nostri rappresentanti
politici in parlamento e al governo per l’affetto e la premura con cui si sono
dedicati alla causa di Santa Romana Chiesa. Se poi vorranno addirittura intonare
un salmo di lode ai paladini del clero – ai difensori di una Chiesa stretta
tra la minaccia del relativismo nichilista occidentale ed il pericolo del
rimborso Ici – niente paura: il 22 giugno 2005 è stata firmata dalla Cei e
dalla Società consortile fonografici una «Convenzione circa un sistema
tariffario semplificato e unitario a livello nazionale concernente la misura dei
compensi per diritti connessi al diritto di autore dovuto da diocesi, parrocchie
ed altri enti ecclesiastici per l’utilizzazione di musica registrata».
L’accordo prevede la cancellazione «automatica di quanto eventualmente dovuto
in passato» tramite il pagamento del 50 per cento del debito pregresso
(L’amico del clero, settembre 2005).