STAMPA E GUERRA
I tempi oscuri della mediacrazia
Giornalisti embedded, nuove tecnologie, l'inganno e la censura come strategia deliberata. Sono le armi di disinformazione di massa del «quarto fronte» bellico, quello dei media

DANNY SCHECHTER *

Ci sono state due guerre in Iraq. Una è stata combattuta dagli eserciti con i loro soldati, le bombe e la loro temibile forza militare, l'altra invece con le telecamere, i satelliti, i giornalisti e le tecniche di propaganda. La prima è stata giustificata col tentativo di trovare le «armi di distruzione di massa» di Saddam Hussein, la seconda è stata combattuta con armi ancora più potenti, le «armi di disinformazione di massa». Durante l'invasione del'Iraq nel marzo 2003, in America le reti televisive hanno visto nell'informazione non-stop il loro momento migliore, puntando sui giornalisti embedded e sulle nuove tecnologie che avrebbero permesso ai telespettatori di vedere per la prima volta una guerra da vicino. Ma diversi paesi hanno visto guerre diverse.

Per quelli di noi che guardavano, la guerra era più che altro uno spettacolo, una maratona globale che vedeva le emittenti darsi battaglia tra loro distorcendo la verità. Questa non è semplicemente la censura tradizionale.

Censura, auto-censura e distorsione delle notizie sembrano fenomeni comuni in tutte le guerre. I governi cercano di limitare le notizie che possono metterli in una luce sfavorevole e di massimizzare quelle capaci di galvanizzare il consenso sul fronte interno. Tutte le guerre suscitano sciovinismo in settori dei media e dell'informazione. Sun Tsu, il grande teorico cinese della guerra, diceva che l'inganno è uno strumento in ogni guerra, per definizione. Ma quella che in passato era stata considerata una tattica o uno strumento, è diventata una strategia utilizzata in modo sistematico. Le dottrine sulla guerra dell'informazione puntano a conseguire un'influenza strategica grazie all'inganno. Questo concetto è profondamente radicato nelle ideologie neocon basate sull'opera del filosofo dell'Università di Chicago Leo Strauss.

E' una strategia deliberata. Molti al Pentagono sono convinti che sia colpa dell'informazione se la guerra del Vietnam è stata persa. Anche in quella guerra avevamo assistito a una battaglia mediatica. L'ex reporter del Washington Post William Prochna ricorda che prima del Vietnam «avevamo già subito un secolo pieno di guerre. Guerre pesantemente censurate. Durante la prima guerra mondiale la manipolazione dell'opinione pubblica da parte del governo era così totale, che in seguito il principale propagandista Usa definì il suo operato "la più grande avventura nel mondo della pubblicità". Durante la seconda guerra mondiale la censura era accettata così uniformemente, che la rivista Life non pubblicò una sola fotografia di un americano morto fino al 1943, e il direttore dell'Ufficio della censura ricevette una menzione speciale del Premio Pulitzer. La guerra fredda, con la sua minaccia di estinzione nucleare, ha portato l'autocensura a un livello prima sconosciuto.

Kennedy all'inizio credette di poter condurre la guerra in Vietnam così come i comunisti combattevano le loro: in segreto. Com'era possibile censurare una guerra che non si stava combattendo? Così il Vietnam iniziò senza censura e continuò senza censura. Ma Kennedy non poté evitare l'escalation della guerra, e certamente non poté tenerla segreta.

Inevitabilmente, Kennedy andò a cozzare contro l'inizio del cosiddetto "gap generazionale" che avrebbe ossessionato gli anni `60 e contro un massiccio cambiamento di rotta nel giornalismo americano. O fu il Vietnam a dare inizio a entrambi? Le guerre sono combattute da giovani. Sono anche raccontate da giovani, e all'inizio degli anni `60 i giovani reporter del Vietnam non erano limitati dalla censura né dalle certezze della guerra totale. Quando cominciarono a raccontare che l'imperatore era nudo, fu uno shock. Gli americani stavano morendo. Il governo stava mentendo. (...) Il cambiamento di rotta non mancò di provocare le sue cicatrici tra i reporter, molti dei quali ancora ventenni. Il governo Kennedy li attaccò accusandoli di essere troppo giovani e inesperti, e la polizia segreta sud-vietnamita gli dette la caccia come simpatizzanti comunisti. Furono aggrediti, il loro patriottismo fu messo in discussione dalla vecchia guardia presente negli stessi giornali.

Con la fine del Vietnam, alla Scuola di guerra cominciarono i gruppi di studio, seminari e lezioni per prepararsi a gestire i media nelle guerre che sarebbero inevitabilmente seguite. Se la censura non poteva essere la regola, aggirare l'ostacolo poteva...».

Così una grossa quantità di denaro e di mano d'opera sono stati investiti nel controllo dei media. Allo stesso tempo, con la crescita dell'industria dell'informazione e la sua integrazione nello show business, vi è stato un nuovo cambiamento di rotta.

Questo quadro viene spesso dimenticato quando si critica Bush. Questa guerra non è stata organizzata da un uomo solo, ma da istituzioni potenti: un intero complesso mediatico-industriale. Dobbiamo collocarla non solo nel contesto della politica estera americana, ma anche in quello del nostro sistema mediatico moderno. In Italia i telespettatori hanno potuto vedere come il sistema televisivo, dalla Rai ai canali privati, sia stato berlusconizzato. Si è creata un'alleanza perversa tra i media e il governo.

Negli Usa, i grandi media sono ormai al servizio di interessi particolari. I manager dell'informazione che non sono giornalisti hanno preso iln potere. Presto i pundit sono diventati più numerosi dei giornalisti. Le scuole di giornalismo hanno cominciato a produrre più esperti di pubbliche relazioni che inviati. Il governo ha portato le pubbliche relazioni a un nuovo livello: è chiamato «perception management» (gestione della percezione); e tratta la guerra come un prodotto da «esibire» e promuovere.

I canali televisivi via cavo che trasmettono ventiquattr'ore al giorno sono rapidamente degenerati diventando una hit parade di titoli. Il giornalismo investigativo aveva già da tempo ceduto il passo alle «breaking news» prive di contesto e retroterra. I documentari di approfondimento sono scomparsi dalle fasce di maggiore ascolto dei palinsesti. I «reality show» hanno preso il posto dei servizi basati sulla realtà. Gli anchormen hanno protestato dicendo che i media, da «cani da guardia», sono diventati cani da salotto: ma non hanno fatto niente per impedirlo.

Questa trasformazione del sistema mediatico - avvenuta in oltre vent'anni grazie alla deregulation delle leggi sull'interesse pubblico - ha reso i media complici volontari, specialmente nel clima di paura e patriottismo post 11 settembre. Quando gli anchormen hanno cominciato a emulare i politici appuntandosi le bandierine americane al risvolto della giacca, è apparso ormai chiaro che stavamo assistendo a un'integrazione dei media in un sistema mediatico di stato.

Presto gli inviati embedded hanno concentrato i loro servizi sulla campagna di terra in Iraq, mentre gli attacchi aerei, l'uso di armi proibite, le squadre speciali per le operazioni segrete e le vittime civili non venivano documentate. Erano fatti deliberati, ma venivano commentati solo di rado, dato che i network cercavano l'approvazione del Pentagono per i loro esperti ed ex generali impegnati a fare valutazioni davanti alle telecamere come si usa per gli eventi sportivi.

Gli inviati hanno cominciato a identificarsi con i soldati, usando spesso la parola «noi» nei loro servizi come se fossero parte in causa - e in effetti lo erano. Le tecniche narrative di Hollywood hanno preso il posto del giornalismo basato sui fatti. Per confezionare l'informazione sulla guerra sono stati reclutati grafici e produttori di Hollywood. Era come girare un film.

Il comandante militare americano Tommy Franks ha messo a punto un «piano segreto» che è stato fatto filtrare ai giornalisti amici, come quelli di Fox News. Egli ha parlato dei media come del «quarto fronte» della guerra. Christiane Amanpour della Cnn ha ammesso in seguito: «Sembra che questa sia stata disinformazione ai massimi livelli». Amanpour se l'è presa non solo col governo ma anche con gli «sbruffoni» della rete Fox di Rupert Murdoch. In un ambiente iper-competitivo, quando il presidente dice ripetutamente che si è «o con noi o con i terroristi», nessuno vuole essere accusato di appoggiare il terrorismo. I grandi media che hanno bisogno di favori, di accesso al potere, e di cambiamenti delle regole, difficilmente assumono una posizione critica.

Un risultato: su ottocento esperti andati in onda in tutti i canali americani dal periodo di preparazione della guerra fino al 9 aprile 2003, quando i soldati americani hanno buttato giù la statua di Saddam insieme a una folla attentamente assemblata di sostenitori Usa, soltanto sei erano contrari alla guerra.

L'ambiente mediatico è stato spesso caricato di un mix di cooptazione seduttiva che ha dato ai giornalisti selezionati accesso alle prime linee e alla protezione militare. I reporter non allineati hanno subito intimidazioni, attacchi, denunce - o aggressioni deliberate come quella dell'Hotel Palestine, che ha provocato la morte di alcuni giornalisti.

Il mio film WMD - Weapons of Mass Deception (Armi di disinformazione di massa) riferisce questi episodi e cita l'apprezzato storico dei media e della guerra, Phillip Knightly, il quale si è detto convinto che i siti dei media sono stati attaccati deliberatamente.

Nel gennaio scorso, durante un dibattito al World Economic Forum, il direttore delle news della Cnn Eason Jordan delha detto che i giornalisti sono stati presi di mira. Messo sotto pressione, Jordan sembra avere ritrattato la sua tesi iniziale secondo cui l'esercito americano avrebbe ucciso dodici giornalisti. Si attende ancora una indagine indipendente (lui però intanto si è dimesso).

Tutto questo non è un catalogo di errori. Tutto questo è stato pianificato, pre-prodotto e poi mandato in onda con l'obiettivo di persuadere.

Certo, alcuni media tra cui il Washington Post e il New York Times hanno in seguito ammesso di non avere esercitato una critica abbastanza serrata, specialmente sulla questione delle armi di distruzione di massa che si è rivelata una totale mistificazione. Più recentemente abbiamo visto come le elezioni irachene, in cui gli elettori hanno chiesto di porre fine all'occupazione, sono state fatte passare per una conferma alla politica bellica americana. Il presidente Bush è stato presentato come il chiaro vincitore con un aumento del consenso da parte dell'opinione pubblica.

L'informazione favorevole alla guerra continua anche se l'opinione pubblica contraria alla guerra cresce. Chi è contrario alla guerra deve combattere per poter andare in onda mentre i rappresentanti dell'Amministrazione e i democratici favorevoli alla guerra sono costantemente davanti alle telecamere.

Cosa significa tutto questo? Che viviamo in una mediacrazia, non in una democrazia. Che i nostri media, protetti dalla Costituzione per agire come guardiani della democrazia, invece la stanno mettendo in pericolo. Ciò a cui stiamo assistendo è un crimine contro la democrazia e contro il diritto del pubblico di essere informato.

*Filmmaker indipendente. L'ultimo film documentario di Danny Schechter è Weapon of Mass Deception («Armi di disinformazione di massa»), sull'informazione durante la guerra in Iraq. Questo articolo è una riduzione del suo intervento alla sessione sull'informazione del Tribunale Internazionale sull'Iraq, tenuto a Roma dal 10 al 13 febbraio.

(Traduzione Marina Impallomeni)

il manifesto 28.2.2005