Una stampa con le regole del bridge
E' molto più comodo trasmettere la velina del generale americano o inglese. Poi gli «intellettuali mediatici» italiani dei vari giornali «liberali» diffonderanno la verità ufficiale Rari e indipendenti Com' è arrivata la democrazia in Iraq? Pochi, e a rischio, come Giuliana e Florence, lo raccontano forando l'informazione gestita dalla Cia

ANTONIO TABUCCHI
«Noi avevamo ragione! Loro avevano torto». Così dal palco della sua tribuna «congressuale» di Forza Italia, l'on. Berlusconi esprimeva la sua soddisfazione per quella specie di elezioni che si sono svolte in Iraq. Dove il «loro» stava per «noi», cioè praticamente tutto il pianeta che ha manifestato il suo dissenso per l'invasione immotivata dell'Iraq, per la guerra di Bush, per i suoi massacri; e «noi» stava per «loro», cioè Berlusconi, Aznar, Tony Blair e altri paesi satelliti che si sono associati alla guerra di Bush. Il grido di vittoria di Berlusconi, che fa eco a quello di Bush, ha trovato a sua volta ampia eco sui media italiani: gli «intellettuali mediatici», come li chiama Christian Salmon, che in Italia si sono autonominati intellettuali veri e propri, hanno diffuso ai quattro angoli dello Stivale la nuova equazione: la democrazia «sono» le elezioni. Punto e basta. Poco importa come si è svolta questa roba chiamata «elezioni». E a nulla importa se, per arrivare a un risultato così fulgido e trasparente, gli americani hanno perso un migliaio di militari, hanno massacrato circa centomila pesone, hanno bombardato civili inermi, hanno violato l'ordine internazionale, hanno organizzato torture pianificate a vasto raggio. Vogliamo mettere, di fronte a questo, la soddisfazione di infilare una scheda nell'urna? Sull'effettivo percorso del come sia arrivata la «democrazia» in Iraq, rari giornalisti indipendenti, cercando di forare l'informazione gestita dalla Cia, dai servizi segreti americani e inglesi, e dagli informatori dei loro paesi sudditi, hanno fatto filtrare notizie preziose. Girare per le strade di Baghdad per capire davvero cos'è successo e succede è un lavoro che si fa a proprio rischio e pericolo: lo testimoniano il rapimento di Giuliana Sgrena e Florence Aubenas. E' molto più comodo trasmettere la velina del generale americano o inglese. Poi gli «intellettuali mediatici» italiani dei vari giornali cosiddetti liberali diffonderanno la verità ufficiale. Un ampio servizio di Maurizio Chierici su l'Unità di lunedì 7 febbraio ci descrive nei dettagli la realtà di queste cosiddette elezioni, ci descrive inoltre la figura del presidente attuale signor Allawi, nominato dagli americani: i suoi trascorsi di spia di Saddam Hussein a Londra, il successivo passaggio alla Cia, insomma il suo passato criminale. Ma cosa può contare il passato per certi ministri dei paesi sudditi che erano iscritti a loro volta a logge massoniche eversive? Cosa conta il passato di un tipo come Allawi per gli «intellettuali mediatici» che a loro volta sono stati delatori della Cia o che quando erano più giovani volevano buttare all'aria il sistema borghese perché avevano la democrazia in gran dispitto? «Gli Stati Uniti sono incoraggiati dal voto in Vietnam» scriveva l'autorevole New York Times nel 1967 citato da Maurizi Chierici, «i funzionari parlano di un'affluenza dell'83% malgrado il terrore scatenato dai vietcong per impaurire gli elettori. L'elezione riuscita premia il presidente Johnson che vede in questo risultato il punto chiave di una politica impegnata a incoraggiare la normalizzazione costituzionale». Magnifico. Dopo anni di napalm e di massacri (e di reduci americani) il Vietnam è un luogo che oggi raccomanderemmo a tutti coloro che vogliono passare delle vacanze intelligenti: violazione sistematica dei diritti umani, campi di rieducazione, galere piene di dissidenti. Un vero paradiso (forse anche fiscale per chi non trovasse più ospitalità nel Liechtenstein). Tralascio altre informazioni che Maurizio Chierici e con lui altri giornali seri europei ci forniscono sulle elezioni carnascialesche irachene: gente che vota in gruppo, assenza di osservatori internazionali, dati di affluenza che venivano forniti in maniera capricciosa: appena chiusi i seggi era il 72%, pochi giorni dopo il dato è sceso al 57%. Ma in Italia qualcuno ha parlato addirittura dell'80%. Dev'essere per eccesso di zelo. Per non parlare poi dei primi risultati concreti, intendo quelli politici. Il prete del partito vittorioso, gli Sciiti, ha già fatto sapere che nella nuova Costituzione (chiamiamola così) sarà inserita la Sharia, cioè la legge islamica. Che com'è noto è di una democrazia straordinaria: al ladro si taglia una mano, e la donna adultera (o sorpresa senza velo o in altre attività sovversive) viene lapidata. I nostri «intellettuali mediatici» però a questa eventualità sono già pronti. La prima donna che sarà condannata alla lapidazione in Iraq dalla democratica legge sciita avrà diritto a un appello che sarà firmato da note personalità della cultura nel mondo libero, e che inesorabilmente mi vedrò recapitare a casa per fax. Che faccio, lo firmo per salvare una vita umana, o non lo firmo per dimostrare al mondo che la democrazia portata da Bush in Iraq era una farsa? Ah, che dilemma.

Ma l'importante, nonostante tutto, a quanto pare è l'urna elettorale. Di questo avviso è anche Piero Fassino, che nello stesso numero de l'Unità in cui appare il servizio di Maurizio Chierici, intervistato da Furio Colombo, dice sulle elezioni irachene: «Ora io penso che il voto sia di straordinaria importanza, può rappresentare la leva per accelerare il processo di transizione democratico». La proposizione, non c'è che dire, è ottimista e, soprattutto in teoria, ha una sua validità. Anche Archimede aveva detto che se gli avessero dato una leva avrebbe sollevato il mondo. Il problema è dove poggiare la leva. Fassino è infatti consapevole del vuoto su cui poggia questa leva e pone un angosciante interrogativo. Confessa: «Noi che siamo contro la guerra una domanda ce la siamo posta: con quali strumenti politici si toglie una dittatura? Con quali strumenti politici si afferma la libertà là dove è negata?». That is the question. Anche perché, domando io, con la Cina, con la Corea del Nord, con l'Arabia Saudita, il Pakistan (per dire solo dei paesi dove sono in vigore dittature davvero dure, quelle da plotone d'esecuzione) cosa facciamo? Un'idea corrente, pare, è quella di aprire i mercati. Un capo di Stato fa un viaggio in uno di questi paesi, apre un mercato, e queste orrende dittature, come per incanto, si trasformano in paesi liberi.

Un'altra ipotesi sarebbe far fare elezioni formali. Non importa poi se la sostanza c'è. L'importante che ci siano le urne, le telecamere, e che il mondo abbia l'impressione che con quelle elezioni i vari paesi dittatoriali abbiano espresso la propria idea di democrazia, sia essa la legge coranica, il marxismo-leninismo, il sistema feudale, la dittatura militare sia in Asia o in un paesello sudamericano. Così non ci sarebbe bisogno neanche di far guerre. Perché l'altra ipotesi, come è evidente, è una guerra infinita, o almeno una guerra lunga un secolo, a confronto del secolo corto che abbiamo trascorso. Come scrisse Karl Kraus negli anni Trenta, nel momento più buio dell'Europa, «Regna un grande schifo nel mondo, ma noi ci opporremo con le regole del bridge».
"il manifesto"- 9.2.2005