IL
VATICANO SEMPRE IN CATTEDRA
Ermanno
Genre
Vent’anni di
papa Wojtyla. Un ventennio di fine secolo in cui siamo stati testimoni di cose
incredibili. Un elenco in cui papa Wojtyla è stato, per molti versi,
protagonista indiscusso (nel positivo e nel negativo). Che cosa può dire una
voce protestante su questo papa in particolare? Può, un protestante, scrivere
bene su un papa? Ebbene sì, purché ce ne siano gli elementi. Elementi che non
mancano, certamente, ma che situerei sostanzialmente nel registro della politica
piuttosto che nel campo della teologia e di un ecumenismo realmente praticato e
vissuto. Ma non è su questo terreno specifico, della teologia, della fede e
della chiesa, che un papa dovrebbe agire ed essere valutato? È successo
qualcosa di sorprendente in questi vent’anni, che abbia potuto far cambiare
idea sul papato ai protestanti? Credo di no. Molte cose sono successe, ma nulla
di concreto che abbia potuto modificare nella sostanza le posizioni della
Riforma protestante condannate dal Concilio di Trento (anche il recentissimo
“giallo”, relativo all’accordo atteso tra luterani e cattolici sulla
giustificazione per fede, rivela confusione e mancanza di trasparenza). Dire che
non è successo niente di particolare per invogliare i protestanti a rivedere la
loro posizione sul papato non significa che di papato non si sia parlato,
dall’una come dall’altra parte. Anche Giovanni Paolo II (come già Paolo
VI), ha riconosciuto che uno degli ostacoli più grossi sulla via
dell’ecumenismo è il papato stesso e nell’enciclica Ut unum sint
(1995) ha ripreso l’argomento proponendo di “cercare, evidentemente insieme,
le forme nelle quali questo ministero possa realizzare un servizio di amore
riconosciuto dagli uni e dagli altri”. Le forme, naturalmente, non il fatto
che debba esserci un papa da tutti “riconosciuto”.
Una volta ancora, quando si pensa di essere molto vicini, in realtà si prende
atto di una grande distanza: di merito e di prospettiva. È ciò che i
protestanti italiani (valdesi) hanno fatto presente ufficialmente al papa con un
documento sinodale che gli è stato consegnato personalmente. Certamente a papa
Wojtyla si possono fare molti rimproveri, ma non quello di essere papa. I
protestanti in fondo non hanno nulla in contrario a che i cattolici abbiano il
loro papa, purché non lo impongano all’ecumene cristiana, purché riconoscano
che esistono altre chiese cristiane, con pari dignità, diversamente organizzate
(una diversa ecclesiologia). Che cosa impedisce questo riconoscimento? Che cosa
impedisce al papa di affermare, qui ed ora, che già siamo in comunione
reciproca perché la comunione cristiana non dipende dal papato essendo
comunione nell’unico Signore Gesù Cristo? Proprio qui sta lo scoglio: il
cattolicesimo infatti ha invertito l’ordine delle priorità e afferma che se
non c’è prima piena comunione con la Chiesa cattolica e con il papa, non può
esserci neppure vera e piena comunione cristiana. Ma è questo il messaggio del
Nuovo Testamento? Insistendo su questo punto il papa ha di fatto “bloccato”
il dialogo ecumenico con le altre chiese e si capisce quanto l’idea conciliare
di unità nella diversità sia ostico a Roma, perché mette in questione la
centralità del papato e, con esso, della Chiesa cattolica. E di questa
centralità papa Wojtyla si è fatto convinto assertore. Questi vent’anni di
papato sono stati tutti all’insegna di una difesa forte della centralità
della cattedra di Pietro, centralità che nell’ottica del papa non fa una
grinza con la sua idea di ecumenismo.
Per questo Giovanni Paolo II non ha esitazioni ad affermare, nell’enciclica già
citata, che con il Concilio Vaticano II “la Chiesa cattolica si è impegnata
in modo irreversibile a percorrere la via della ricerca ecumenica. Tutto sta
nell’interpretare questa affermazione. Se questo impegno fosse veramente a
tutto campo, ciò dovrebbe far emergere anche il pluralismo di posizioni che
esiste nel cattolicesimo italiano e che viene regolarmente taciuto. Ciò che
fuori dallo spazio ecclesiale si incoraggia e si esige, viene negato al proprio
interno. Illustri teologi cattolici hanno scritto come questo papa abbia
sostenuto un’in-terpretazione conservatrice e, a tratti, reazionaria, del
Concilio Vaticano II, tradendo l’intuizione innovatrice del concilio stesso. E
questi venti anni di pontificato, letti nel loro significato ecclesiale e
teologico, sono la dimostrazione di una ferma volontà di restaurazione, contro
il vento rinnovatore di papa Giovanni XXIII e del Concilio. Il continente
latinoamericano è forse quello che più ha subito i colpi della restaurazione
wojtyliana, portata avanti con mano ferma.
Se si analizzasse ciò che questo pontificato ha negato, combattuto, emarginato,
avremmo davanti agli occhi un profilo molto diverso dell’icona televisiva
quotidiana di un papa malato e sofferente che crea fascino e tenerezza. Ma
questa immagine televisiva è quella vincente; essa ci mostra anche il cedimento
spaventoso della cultura laica del nostro paese: uomini politici (anche di
sinistra) che di fronte al ritorno del sacro ben gestito dal papa non sono più
in grado di difendere il principio della laicità dello Stato, oltre il
confessionalismo. Che cosa si può aspettare un protestante da un papa, dunque
anche da questo papa? Ciò che si deve aspettare ogni cittadino ed ogni
cristiano. Primo, che il papa rispetti la laicità dello Stato, cosa che questo
papa non è riuscito a imparare in vent’anni di pontificato, e che chi lo ha
circondato ha saputo cavalcare sapientemente. Secondo, che il papa si adoperi
per costruire, nell’ambito della sua Chiesa, un clima di fiducia, di
trasparenza e di democrazia reali, di rispetto della persona umana e della sua
dignità, principi che fuori dalla Chiesa vengono così fortemente propugnati.
Se è vero, e lo è, che questo papa ha contribuito all’abbattimento di molti
muri “esterni”, poco o nulla ha fatto per abbattere i molti muri
“interni” ancora esistenti. E proprio qui emerge la contraddizione di questo
papato: alla sua politica “estera” a tutto raggio, fatta di apertura e di
dialogo, spregiudicata in più occasioni, corrisponde un conservatorismo
“interno” alla Chiesa, fatto di chiusure, di veti, di destituzioni. Ad ogni
muro esterno abbattuto, questo papa sente dentro di sé, impellente,
l’esigenza di ri-misurare, ogni volta, lo spessore e la consistenza delle mura
interne, queste sì, incrollabili ed eterne... ecclesia catholica mater et
caputomnium ecclesiarum. Quanto bisognerà aspettare perché un papa
consideri la sua Chiesa, una fra altre, non l’unica, e accetti di dialogare
con le altre chiese su di un piano di pari dignità e reciprocità? Basterà il
terzo millennio? Un augurio, per il tempo che questo papa ha davanti a sé:
ritrovare la via dell’umiltà. Umiltà, come massima virtù cristiana:
innanzitutto dentro la propria Chiesa.
il
manifesto 3 aprile 2005