Da: Viator, gennaio 2006
fonte:
www.cdbitalia.it
“Dio
pone sull’embrione il suo sguardo benevolo ed amoroso”: così Benedetto XVI
nell’ultima udienza pubblica del 2005. A ruota il cardinale Lopez Trujillo,
presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, nell’intervista
rilasciata all’agenzia Fides, sostiene che “ la Chiesa deve invitare le
donne a chiedere perdono”, ovviamente per gli aborti.
Mi
scuso con i lettori se il mio commento sarà parziale, perché – come si suol
dire – di genere. Ma l’essere donne comporta spesso l’evidenza della
diversità femminile e, quindi, l’esigenza di un confronto costruttivo con la
mentalità maschile. Come donna ho spesso l’impressione che i maschi non
sappiano bene come nascono i bambini e perfino i fisiopatologi della
riproduzione non ricordano tutte le volte che si occupano di embriologia che
sono miliardi gli embrioni che si sfaldano da sé dopo il concepimento in forme
di cui neppure la donna si accorge.
Anche
il Papa è un uomo e coglie la realtà da un punto di vista unilaterale. Ma per
la sua autorevolezza nell’interpretare i disegni del Creatore deve un
chiarimento alle donne: quale disegno Dio produce per gli embrioni che – sono
la maggioranza dei concepiti – se ne vanno da soli, perduti nella normalità
(o in un piccolo ritardo) mestruale? Dove vanno? A quale destino li guida il
loro angelo custode? Che cosa li aspetta nella “resurrezione dei corpi”?
Prima
di affrontare il nesso con l’aborto sarebbe necessario esprimersi sulla
teologia della vita, che oggi comprendiamo – pur mantenendo il senso profondo
del suo grande mistero – con maggior profondità conoscitiva nei suoi aspetti
materiali. Ci si prefigurano, anzi, prospettive ancora più interessanti,proprio
perché l’indagine sull’infinitamente piccolo delle cellule scopre
potenzialità fin qui inesplorate e stupefacenti: occorre pertanto
un’interpretazione che sia meno schematica dei divieti a proposito della
ricerca o delle applicazioni di nuove biotecnologie per non uscire dal retto
intendimento che ti fa capire che la natura è stata creata complessa e che, se
gli esseri umani debbono “dominarla” (come dice la Bibbia), è anzitutto
conoscibile.
A
me sembra che le donne credenti sentano che, stando così le cose, l’entrare
nella contesa di che cosa è la vita o di quando l’anima entra
nell’individuo le trovi poco interessate: come tutte le altre donne sanno
benissimo che una cellula fecondata è diversa da un ovulo e uno spermatozoo
separati, ma sentono anche che il produrre la vita nel loro corpo è un problema
che gli uomini (intesi nel loro genere e nei poteri che si sono dati) non
“comprendono”(nel senso di “prendere insieme dentro di sé). Le donne,
almeno dai tempi del referendum per mantenere la legge sull’interruzione
volontaria di gravidanza, sentono tutte – anche le laiche laiciste – di
essere dentro un processo creativo almeno in senso lato“divino”. Per questo
affermano il loro diritto a una maternità “libera e responsabile”. La
società sembra non avere capito il senso vero di questa espressione.
Infatti,
le donne credono che una cosa così grande come l’avere un figlio debba
avvenire nella libertà femminile e nella responsabilità comune dell’uomo e
della donna, vale a dire mai per ignoranza, come per i giovanissimi, mai“per
caso” (come accade nei matrimoni d’urgenza con la sposina incinta o con un
“ultimo nato” non previsto dall’economia famigliare) e mai per “dovere
coniugale”. Si deve dire con molta franchezza che, anche se è cancellata dai
testi giuridici ogni menzione del vergognoso “debito” imposto nel matrimonio
quasi sempre alla donna, ancor oggi si registrano casi, addotti perfino alla
Sacra Rota, di scioglimento del vincolo per impotentia coeundi o diserzione dal
talamo sia da parte della donna che dell’uomo. Dietro queste denunce fra
cronaca e gossip, sta una situazione comune, accettata universalmente che vede
l’uomo e la donna fare l’amore senza reale intenzione procreativa espressa.
Spesso
c’è ignoranza e pregiudizio: gli sposi non parlano della loro intimità e
l’uno ignora le esigenze dell’altro/altra; perdura la favola della maggiore
esigenza di prestazioni nel maschio, così come l’altra favola che la donna fa
resistenza, ma “ci sta” (vis grata puellis). Detto in lessico femminista:
escluse quelle che vivono il sesso senza capirne la realtà effettiva e tranne
quelle che praticano la contraccezione secondo forme sicure, le donne vivono la
maggior parte dei rapporti nella paura di restare incinte. Che non è un bel
vivere, neppure per l’uomo che trova la donna poco entusiasta.
Qui
si pone ai teologi da parte delle donne qualche altra questione, se è vero che
la Chiesa non ritiene più (almeno così sembra) il sesso un peccato in sé e
consente perfino la scelta dei giorni infecondi per rapporti più tranquilli,
anche se l’amore, che ha i suoi liberi entusiasmi, si sente mortificato dagli
interrogativi sui giorni permessi. Domanda: l’atto coniugale (come dicono i
giuristi e i preti) è dovuto all’amore - delle persone tra loro e con Dio –
o al materialismo del remedium concupiscentiae e della trasmissione della vita
(che per tutti i mammiferi si limita alla meccanica e non alle scelte
affettive)?
E’
penoso che venga scaricata sui preti la responsabilità di assolvere chi va
ancora a confessarsi e racconta (ormai le domande “intime”le fanno solo i
sadici) di avere rapporti onestamente coniugali, ma non “conformi”. Occorre
che il magistero adempia la sua funzione non con la dogmatica tradizionale, ma
con una ponderata argomentazione sulle realtà umane e decida se l’essere
umano (uomo e donna) è come il coniglio o ha libertà responsabile nella
cooperazione con Dio.
Sempre
ragionando dalla parte delle donne si può aggiungere un’altra domanda: come
mai in tanti secoli non c’è mai stato un richiamo forte alla “virtù” dei
maschi perché rispettino la volontà della loro compagna e perché, perfino da
un punto di vista strettamente tradizionale, vivano nella continenza se lei
“non vuole”? Perché nel nuovo catechismo lo stupro è messo a fianco della
masturbazione, l’omosessualità, l’adulterio e la prostituzione?
All’interno del matrimonio la Chiesa sa che si dà violenza oppure lo nega?
Solo
dopo le risposte a queste argomentazioni si può riparlare dell’aborto e delle
leggi relative. Le donne hanno detto tutto ai tempi del referendum e sono
davvero mortificate che non ci sia stata memoria non solo delle loro parole, ma
del loro secolare dolore.
Nessuna
donna pensa che l’aborto sia una cosa indifferente. A essere totalmente
materialisti si potrebbe dire che nessun uomo va volentieri a togliersi un dente
o la cistifellea. Tuttavia le donne si trovano in situazioni di cui reggono da
sole tutta la responsabilità e, secondo il cardinal Trujillo, tutta la colpa.
Se nel referendum che ha conservato la 194 nel nostro codice la campagna
abrogatoria della Chiesa è stata sconfitta per due terzi dei voti espressi,
bisognerà pure riflettere sulla qualità del voto e ammettere che molte donne
cattoliche furono consenzienti.
Perché?
Perché la norma di principio è condivisa anche dalle donne, ma dietro il
principio la donna resta un oggetto, che si trova incinta quando non lo desidera
mentre l’uomo spesso nega la sua responsabilità. Quindi è la disperazione e
la scelta “non irresponsabile” di strapparsi un pezzo di sé, non un
embrione. Se i rapporti umani fossero equilibrati, se l’educazione non
riducesse il sesso a merce, se l’uomo fosse davvero predisposto ad essere
padre e se i governi vedessero le donne come protagoniste di una famiglia che in
loro prioritariamente si realizza per erogare la giusta assistenza, gli aborti
non ci sarebbero.
L’impegno
a favore della legge 194 ha espresso, in primo luogo, la denuncia di questa
“piaga sociale” che tradizionalmente infettava il sociale nella clandestinità.
Oggi tutti sanno. E le donne sono contente che il numero degli aborti (fatti
prevalentemente da coniugate) sia in decremento. Ma al moralismo interessato di
certa politica non basta e si cerca di tornare alla clandestinità e ai viaggi
all’estero, come per la fecondazione assistita.
È
ovvio che la Chiesa debba potersi esprimere, ma non come se le donne restassero
gravide per partenogenesi e decidessero di ferirsi senza scrupoli. Non solo c’è
chi “resta” incinta; c’è anche chi “mette”incinta: dove, dunque, la
responsabilità delle maternità non accolte? Occorre dirlo, perché le donne
non sono stupide: se le società le vogliono subalterne, la via d’uscita
emancipatoria potrebbe essere quella di chiedere che la maternità sia un
diritto e dare forma ad una giurisprudenza propria delle donne.
Quando,
poi, la destra (ma non solo) si avvale della parola del Papa per
strumentalizzarla a fini di vantaggio politico, sarebbe bene dare un’occhiata
al mondo: perché non ci occupiamo del benessere delle donne del Sud, non
facciamo campagne per la loro dignità e per la loro libertà, non ci
preoccupiamo della loro salute e della violenza dei loro uomini, visto che non
solo hanno figli che, spesso, vedono morire prematuramente per guerra, fame e
malattie, ma che abortiscono nel silenzio, nella vergogna, nella mancanza di
igiene, in una clandestinità ancor più dolorosa di quella delle donne
occidentali? E torna, così, per le credenti (e i credenti), la domanda: dove
vanno in cielo i miliardi di embrioni? Chi ne è padrone sulla terra?
Giancarla
Codrignani