In
margine all’ultima enciclica
da foglio di comunità marzo 2006 - cdb di Pinerolo
Superati
lo scandalo e lo scoglio del copyright vaticano, ho letto con interesse
l’enciclica di Benedetto XVI che, dopo i primi scontati commenti, sembra già
caduta nell’oblio.
In
realtà, più che di un discorso teologico, si tratta, a mio avviso, di una
lettura filosofica della storia, inserita in una cornice teologica, non priva di
calde risonanze emotive. Chi ha la mia età, ricorda bene alcuni dibattiti
culturali di largo respiro su eros ed agape di alcuni decenni fa. Il papa li ha
ripresi e, in taluni passi, ricollocati efficacemente e “provocatoriamente”
nel contesto polemico attuale. Ma nel complesso, dietro un linguaggio alato,
emerge un’enciclica
evanescente “che lascia scontenti tutti, dunque un’enciclica di cui alla
fine tutti parleranno bene... E’ un testo speculativo, che tenta di portare il
ragionamento a monte per intendersi sui principi. Questo potrebbe diventare il
suo limite fra una settimana, dieci giorni, se non riuscisse a sfuggire alla
trappola del dimenticatoio... Insisto... nessuno ha di che rallegrarsi dopo
quest’enciclica” (A. Melloni, Adista, 11 febbraio 2006). Chi tra i
credenti negherà che Dio è amore? Chi metterà in dubbio l’attualità e la
rilevanza del tema?
Per
un cristiano la riflessione sull’amore di Dio, a partire dalla testimonianza
molteplice della Bibbia, è piena di implicanze molto concrete per la sua vita
personale e per l’esperienza collettiva. Ma, come lo stesso Benedetto XVI
ricorda all’inizio del suo scritto, “il termine amore è oggi diventato una
delle parole più usate ed abusate” (n. 2). Il problema sta proprio nella
incapacità di vedere che l’amore di Dio si fa storia laica, che la chiesa
cattolica ufficiale non è l’arca universale di salvezza, che Dio ci invita a
liberarci dalla presunzione ecclesiocentrica, che Gesù non ha distribuito
patentini o certificati salvifici, ma si è fatto compagno di viaggio e
seminatore di fiducia in Dio e nelle persone.
Così
ci troviamo davanti ad un Dio amore che, però, viene “amministrato” da una
chiesa che si presenta ancora come maestra di umanità e detentrice della
“rubinetteria” della salvezza. Questo io leggo, prima di tutto,
nell’entroterra di questa enciclica, sullo sfondo.
Irrilevanze
Chi
è abituato all’indagine biblica, al lavoro esegetico e teologico, non ha
trovato davvero nulla di nuovo. Si può ben capire come Jean-Jacques Peyronel,
un’autorevole voce protestante, abbia potuto scrivere che “a noi protestanti
questa enciclica non
dice nulla di nuovo” (Riforma, 10 febbraio 2006). Lo posso
sottoscrivere come prete cattolico.
Ma
non meno critico è il giudizio di quei teologi della liberazione che da decenni
lamentano l’astrazione di certi linguaggi ufficiali. Questa teologia “che
non si sporca le mani”, che vola astralmente lontana dal quotidiano, ha
qualche parentela con il Dio biblico che si coinvolge dalla parte dei più
deboli?
Molto
semplicemente, ci si domanda, questo linguaggio non è un modo elegante per
confinare Dio tra le grandi e nobili idee per poi gestire più disinvoltamente
gli affari a modo nostro? E quando ai numeri 2 e 11 l’enciclica parla
dell’amore umano nei termini enfatici, tipici della retorica matrimoniale
cattolica, opera di teologi maschi e celibi, ci si domanda quando la gerarchia
imparerà qualcosa da questa società, quando riuscirà ad “espandere”, ad
arricchire il concetto di famiglia. Quando capirà che le nuove famiglie non
sono contro la famiglia, ma una sua ulteriore ramificazione e valorizzazione?
Silenzi
Si
tratta, a mio avviso, di una enciclica i cui silenzi denotano una persistente
mancanza di coraggio. “Ratzinger avrebbe dovuto dare uno sguardo alla storia
concreta della chiesa romana, alle sue normative in materia di etica sessuale,
intrisa di sessuofobia, che tante persone ha fatto soffrire; e anche a come
questa chiesa abbia oppresso le donne teorizzando un maschilismo mai smentito.
Ma, di tutto questo discorso, non vi è nemmeno l’ombra nell’enciclica.... E
termina citando la Madonna del Magnificat, ricordata come “donna che ama”,
non però come quella che loda l’Altissimo “che depone i potenti dai loro
troni” (Adista, 4 febbraio 2006). Questa è davvero la chiesa del
silenzio verso i potenti.
Torna
più che mai attuale il grande avvertimento del vescovo Ilario di Poitiers
(367): “Ora combattiamo contro un nemico insidioso, un nemico che lusinga...,
non ci flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni
dandoci così la vita, ma ci arricchisce dandoci così la morte; non ci spinge
verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e
onorandoci nel palazzo; non ci percuote ai fianchi, ma prende possesso del
cuore; non ci taglia la testa con la spada ma ci uccide l’anima con il denaro,
l’onore, il potere”. Ovviamente, quando aldilà di generiche deplorazioni,
non si denunciano le torture di Guantanamo, le “esportazioni belliche di
democrazia” e tante altre nefandezze che hanno precisi responsabili, ogni
discorso sull’amore diventa una canzoncina che trova d’accordo sia Erode che
Ponzio Pilato:.. L’annuncio cristiano comporta concretamente la rottura dei
silenzi complici con i poteri che opprimono
e ci spinge ad uscire dai linguaggi diplomatici e dalla fede “pura e
irreale. La missione della chiesa è annunciare l’utopia cristiana sulla
dignità della vita, formare le coscienze e rispettare le decisioni che le
persone prendono. Non può funzionare come ha funzionato, e cioè come un
superego autoritario. Il divieto di utilizzare gli anticoncezionali in un mondo
in cui si diffonde l’Aids è semplicemente irresponsabile e nell’Africa è
persino criminale. La chiesa dice di conoscere il mondo, di conoscere l’umanità,
ma è soltanto retorica, non rispetta infatti i diritti delle donne, degli
omosessuali e dei divorziati” (Leonardo Boff, Un papa difficile da amare, Datanews
2005). Concretamente in questo testo teorico “non si parla di guerra, di
terrorismo, di civiltà, di scienza e di tutto ciò che agita il mondo
cattolico”(Melloni, La Stampa, 26 gennaio 2006).
Questo
genere di silenzi ha una storia lunga dentro le chiese cristiane. Spesso si
dicono e si scrivono valanghe di parole fumogene, astratte, altisonanti che
sembrano studiate appositamente per non dire nulla, per evadere da quella parte
di realtà con la quale non si vuole fare i conti. Sovente quanto più si
moltiplicano i documenti, i pronunciamenti e le encicliche, tanto più emergono
il vuoto o la semplice incapacità di elaborare un pensiero nuovo.
Talvolta,
poi, corriamo un altro rischio, non meno grave. I nostri linguaggi religiosi, in
gara con le chiacchiere di molti politici, danno per scontato che le parole ci
dispensino dalle azioni, dai fatti, dalle scelte concrete, come se la vita fosse
soprattutto un gioco di belle parole, un evento linguistico.
Ambiguità
Non
posso dar torto a chi pensa che, tutto sommato, l’enciclica di Ratzinger, più
che un apporto concreto alla soluzione dei problemi urgenti dell’uomo moderno,
sembri un elogio immeritato, una celebrazione acritica, un contributo
promozionale per una istituzione che guarda soprattutto al passato. Ma come si
può parlare di laicità, di amore, di giustizia quando, continuando sulla scia
del predecessore, l’attuale pontefice e la gerarchia cattolica lottano con
ogni mezzo, in Italia come in Spagna e un po’ dovunque, per salvaguardare
privilegi, estendere la propria influenza nelle vicende politiche? Se Dio è
amore, come è possibile che la gerarchia continui a emarginare le voci che non
si allineano agli interessi dell’istituzione cattolica? Non è forse lecito e
doveroso domandarsi, con Eugenio Scalfari (Repubblica, 5 febbraio), se
permane il velo di ipocrisia tra il dire e il fare che pure viene denunciato in
molti passi della “Deus caritas est”? E’ ben lontana dalla realtà che
abbiamo sotto gli occhi l’affermazione secondo la quale “tutta l’attività
della chiesa è espressione di un amore che cerca il bene integrale
dell’uomo... e cerca la sua promozione nei vari ambiti della vita e
dell’attività umana” (n. 19).
Non
la pensano proprio così i separati e divorziati cattolici, le coppie di fatto,
i gay e le lesbiche credenti, i preti che si sono visti defenestrare “per
colpa di un amore”, i teologi che sono stati estromessi dall’insegnamento o
dalla redazione di alcune riviste, le università cattoliche che, per “scarsa
ortodossia”, si sono viste tagliare i fondi, le donne che esigono pari
opportunità di ministero nella comunità cristiana, quei seminaristi che si
sentono inquisiti rispetto alla loro identità sessuale ed affettiva. Cresce a
dismisura il numero delle donne e degli uomini che si sentono stranieri in
questa chiesa. L’elenco ci porterebbe ad esplorare un intero pianeta.
L’umorismo ha una funzione “ristoratrice” anche dentro le istituzioni
ecclesiastiche, ma questa leggerezza, questa banalizzazione, questa negazione
della realtà è un umorismo amaro, sfacciato, intriso di menzogne.
E
ci vuole un bel fegato a ribadire che la chiesa non fa politica e a riproporre
una centralità della dottrina sociale della chiesa che “argomenta a partire
dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme
alla natura di ogni essere umano” (n. 28). Sembra che la gerarchia cattolica
parli di ragione, diritto naturale e natura di ogni essere umano come se queste
“discusse” realtà fossero un suo possesso, come se della loro retta
interpretazione essa fosse la suprema custode e garante. Ma c’è un punto che
ho letto con intima sofferenza e che respingo con fermezza: “La Chiesa è la
famiglia di Dio nel mondo” (n. 25). Questo per me non è soltanto un errore
teologico; è soprattutto un orrore, un delirio.
Il
mondo è la famiglia di Dio... con tutto il creato. La chiesa cattolica deve
lasciare la maiuscola, non ha nessuna primogenitura perché Dio non si è fatto
cristiano, tanto meno cattolico. Semmai noi cristiani abbiamo una particolare
visione di Dio, ma Dio non è riducibile al nostro “quadro” di
interpretazione. Dio non si lascia fotografare in nessuna dottrina. Qui su
questa arroganza strutturale, quasi congenita, neppure più avvertita, sta, a
mio avviso, il vero nodo che le gerarchie cattoliche debbono affrontare. Nel
libro del profeta Isaia si leggono alcuni versetti straordinariamente efficaci
ed espliciti per ammonire Israele nei momenti in cui può credersi l’esclusivo
o il privilegiato erede dell’attenzione amorosa di Dio. L’Egitto e l’Assiria,
classici nemici di Israele, vengono collocati sullo stesso piano: “In quel
giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria, l’Assiro andrà in
Egitto e l’Egiziano in Assiria... Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria,
una benedizione in mezzo alla terra... Benedetto sia l’Egiziano mio popolo,
l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità” (19,23-25
passim). Che lezione anche per noi cristiani!
Non
invoco alcuna dissoluzione dell’identità cristiana, che anzi mi è molto
cara, ma essa, a mio avviso, deve smantellare tutte le categorie e gli
atteggiamenti di superiorità, di esclusività. Semmai, per me, la chiesa è
particolarmente presente nella carovana umana degli ultimi. La famiglia di Dio
è ovunque e nessuno di noi può tracciare perimetri, confini, un dentro e un
fuori. Il rischio di ridurre Dio al direttore generale della nostra azienda è
sempre dietro l’angolo.
E
finisco con un’altra osservazione dissonante rispetto all’enciclica.
A
Maria affidiamo la Chiesa, la sua missione a servizio dell’amore” (n. 42). E
no, caro papa Benedetto, questo è troppo... E’ il consueto fervorino mariano
finale di tutti o quasi i documenti pontifici, ma il contenuto mi sembra grave.
Con tutto il bene che voglio a Miriam di Nazareth, moglie di Giuseppe, madre di
Gesù e di una numerosa famiglia (Marco 6 e Matteo 13), io credo che la chiesa
debba affidarsi a Dio e alla nostra comune responsabilità. Non facciamo
confusione e non scambiamo la fede per qualche discutibile devozione.
Mi
sembra di poter dire che, se il cristianesimo cerca vie di un rinnovamento
profondo, le encicliche si collocano sul versante del passato, lo ripetono,
apportano qualche ritocco, restaurano e verniciano. Non vanno oltre.
Anche
questa constatazione, a mio avviso, costituisce un rimando a leggere con
discernimento e rispetto critico questa enciclica e soprattutto uno stimolo a
“cercare altrove”, perché è proprio “altrove” che i sentieri di Dio,
delle donne e degli uomini si incontrano e l’eros e l’agape possono vivere
insieme in una tensione feconda e felice.
Franco
Barbero