La Chiesa cattolica è compatibile con la democrazia?

da: Micromega 2/2006, fonte: www.cdbitalia.it

 

Cattolicesimo e democrazia sono compatibili? Non è affatto una provocazione; è un problema reale. A questa «domanda insidiosa» è, per esempio, dedicato il primo, tormentato, capitolo di La democrazia dei Cristiani (Laterza, 2005) di Pietro Scoppola. La democrazia, dice, sfida la religione perché si fonda sulla libertà di coscienza e sul principio di maggioranza. La religione, a sua volta, sfida la democrazia perché si fonda sulla verità che non dipende né dalla coscienza né dalla volontà della maggioranza.

 

La Chiesa cattolica non ha mai aderito senza riserve alla democrazia né mai l'ha accettata come unico regime legittimo. Per molti secoli, si è limitata a richiedere al potere politico, quale che ne fosse la natura, il rispetto di quelli che riteneva essere i propri diritti. Poi si è aperta a qualche aspetto di giustizia sociale e, da ultimo, ha assunto, come criterio di legittimità dei sistemi di governo, il rispetto della dignità umana e dei relativi diritti. Solo col Concilio Vaticano II si è fatto un passo avanti, una scelta peraltro non incondizionata e non irrevocabile ma solo «preferenziale» per la democrazia, il regime più conforme al diritto-dovere di partecipazione politica dei cittadini e dei cattolici in particolare.

 

Ma resta una riserva - la riserva su cui il magistero cattolico ha organizzato qualcosa che sembra l'ultimo fronte di resistenza di fronte a ciò che avverte come una minaccia mortale: il relativismo, una parola che ha assunto, nel linguaggio dei due ultimi papi, il valore di un anatema. Sulle questioni che la Chiesa giudica unilateralmente e inappellabilmente legate al suo deposito di verità, la democrazia deve tacere o, se parla, deve acconsentire. Se pronuncia parole diverse, questo è relativismo, sinonimo di disprezzo per la morale, edonismo, egoismo, nichilismo. Con il che essa si erge a maestra di tutta quanta la società, anche dei non credenti, e pretende di attribuire un plusvalore morale alle posizioni dei cattolici osservanti, rispetto a tutte le altre.

 

Chi non si riconosce nelle posizioni del magistero cattolico sembra quasi doversi discolpare per un difetto morale e in effetti molti laici, sorprendentemente, opportunisticamente e vilmente, non rifuggono dall'ammettere la loro mancanza. Eppure, la democrazia è necessariamente relativistica perché, come ricordato all'inizio, si basa sulla libertà di coscienza di tutti i cittadini, e nel riconoscimento della libertà di coscienza consiste il suo titolo maggiore di nobiltà. Relativismo, contrariamente a ciò che dice il magistero cattolico, alludendo addirittura a una «dittatura del relativismo», non significa affatto condanna delle convinzioni morali; non significa che una cosa vale l'altra e dunque nulla ha valore.

 

Significa che le convinzioni, i valori, le fedi sono, per l'appunto, relativi a chi li professa e che nessuno può imporli agli altri. E che, sul piano della vita collettiva, essi devono formarsi procedendo dal libero confronto tra le «relatività». La democrazia deve essere orgogliosa di questo suo carattere. Tutte le volte che supinamente se ne scusa, chiede venia e quasi se ne vergogna, ripudia se stessa.

 

La fede è compatibile con la democrazia a una condizione: che non sia eterodiretta da un potere dogmatico. La democrazia è il regime del confronto delle diverse posizioni, per la responsabile e ininterrotta ricerca delle soluzioni migliori ai problemi del vivere sociale. Ciò comporta che, ferme le convinzioni etiche fondamentali di credenti e non credenti (anche i non credenti possono avere le proprie certezze: sotto questo aspetto non ci sono differenze), per quanto riguarda la loro traduzione nella pratica politica, esse diventano opinioni. Non possono essere certezze dogmatiche. Che senso avrebbe il libero confronto democratico se una parte dicesse: fate quel che volete, io non sono disposta a stare ad ascoltarvi (ma voi dovete ascoltare me!), perché io ho la verità in tasca e non ho bisogno di andar cercandola?

 

Si comprende così l'enorme importanza per la democrazia che ha la proclamazione fatta dal Concilio Vaticano II circa l'autonomia dei cattolici nel campo politico-sociale e circa la legittimità della loro militanza in schieramenti partitici diversi. Per converso, si comprende la minaccia per la democrazia insita nella pretesa odierna del magistero di imporre, interpretando riduttivamente il Concilio, comportamenti politici specifici e supina obbedienza.

 

Uno degli argomenti più usati contro la democrazia, in quanto «relativistica», è che il prevalere della maggioranza potrebbe giungere a contraddire i presupposti della democrazia stessa, negando i diritti umani e instaurando «democraticamente» una qualche sorta di regime dispotico, come in effetti è accaduto nel secolo scorso. Ma non è affatto vero che le democrazie contemporanee non si preoccupino di questo rischio. Anzi, proprio su questo punto le democrazie liberali hanno imparato dagli errori e dalle sconfitte della storia (dico, tra parentesi, senza aver ottenuto un aiuto particolarmente rilevante dalla Chiesa cattolica) e hanno approntato il loro rimedio. E, in effetti, esse iscrivono solennemente in testi fondamentali, intoccabili dalle maggioranze, i principi della repubblica, sotto forma di diritti / doveri fondamentali. Conseguentemente, organizzano il potere pubblico in maniera tale da evitare le concentrazioni pericolose e istituiscono organi di garanzia, come le Corti costituzionali, cui attribuire la custodia di quel patrimonio di principi comuni. Si affidano, in ultima e decisiva istanza, al dibattito pubblico e alla consapevolezza dei loro cittadini. Non basta? Non è una garanzia sufficiente?

 

La Chiesa sembra per l'appunto dire che non basta, che non è sufficiente. E per questo si propone come garanzia assoluta, una garanzia che, per essere tale, deve porsi al di fuori, al di sopra dei circuiti della democrazia. Ma questo non significa altro che il tentativo di sovrapporre una super-Costituzione alla Costituzione democraticamente stabilita, una «Costituzione della Costituzione» di cui la Chiesa - un bimillenario potere organizzato secondo principi ancor oggi essenzialmente autocratici - sarebbe dispensatrice. Si converrà che quello che alla Chiesa appare l'offerta di una garanzia, per i non cattolici è una pretesa alquanto bizzarra e, comunque, radicalmente inaccettabile. A chi dice di volerei difendere dai rischi della democrazia, si converrà che, proprio in nome della democrazia, si dovrà opporre: chi ci garantirà dai pretesi, volenterosi garanti?

 

Si vuole con questo escludere i cattolici dal dibattito sui temi fondamentali del nostro vivere civile, come talora lamenta un certo vittimismo cattolico? Per nulla. Si vuole invece che entrino nel dibattito deponendo ogni pretesa di infallibilità che viene dal loro agire come appendici di un potere gerarchico e dogmatico e, cosa assai rilevante, senza mettere impropriamente in campo la loro grande potenza organizzativa: una forza, oltretutto, sostenuta anche con denaro pubblico, non certo solo cattolico. Difendiamo dunque il diritto di parola dei cattolici nelle questioni politiche e sociali, esattamente come difendiamo quello di tutti gli altri. a pretendiamo che nessuno si impalchi a maestro di Verità. Tutti possiamo avere la nostra verità e sceglierci i nostri maestri ma a nessuno è dato di imporre la propria verità come La Verità. Per questo, le posizioni della Chiesa, e di chi della Chiesa approfitta per i fini suoi, dovrebbero sempre stare sotto la clausola: «dal proprio punto di vista». Senza questa riserva, le loro posizioni contraddicono la democrazia, alimentano contrapposizioni che fomentano violenze, dividono il campo come tra due eserciti belligeranti e rendono il dialogo impraticabile. E possibile che non si comprendano i pericoli? E possibile che proprio la Chiesa, quando alza il tono per impartire a tutti lezioni di verità che pretendono di tradursi in leggi, non si avveda che così facendo, contro il suo intendimento, corre il rischio di mettersi fuori gioco e di condannarsi a un ghetto in cui la sua voce sarà forte ma irrilevante?

 

Dicendo Chiesa, tuttavia, si usa un termine che comprende molte cose. Sarebbe sorprendente che la Chiesa, tutta intera, senza differenze, stesse cedendo a queste tentazioni temporaliste. In effetti, coloro che hanno occasione di frequentare una Chiesa diversa da quella curiale - per l'appunto la Chiesa del popolo di Dio cui il Concilio Vaticano II ha riconosciuto propri autonomi carismi - percepiscono spesso una sensibilità molto diversa: una sensibilità che, sotto il segno della democrazia, permette il più facile e naturale incontro di credenti e non credenti. Le posizioni potranno divergere, caso per caso, ma le ragioni delle divergenze non coincidono con le credenze religiose di ciascuno. L'impressione è che, tra gerarchia cattolica e popolo cattolico, si sia formata una frattura di incomunicabilità. Essa stenta a mostrarsi in tutta la sua dimensione e in tutta la sua forza, anche per l'irrigidimento dogmatico e disciplinare che viene dall'alto. Ma certo non sarà colmata in questo modo. Anzi, al contrario!

 

Sul piano della concezione dell'essere cristiano, il punto cruciale da cui deriva questa spaccatura mi pare che possa essere indicato, in termini generali, in questo modo. Il magistero si sta involgendo in una sorta di «razionalismo della fede» che, oltre ad apparire una contraddizione in sé, fa torto sia alla ragione sia alla fede: come possono le pretese della ragione accettare di poggiare sul mistero (la realtà cristiana ultima)? e come possono le pretese della fede accettare di essere sottoposte al vaglio della scienza (il tribunale supremo della ragione)? E un'antica questione.

 

Mentre per secoli fede e ragione si sono poste l'una contro l'altra, prevalendo ora l'una ora l'altra, di recente, addirittura con un'enciclica, se ne è tentata la sintesi. Ma la sintesi ha comunque questa conseguenza: che alla fede cristiana e alle sue «calde» verità evangeliche si sono venute a sostituire gelide e astratte dottrine dalle quali si possono dedurre tutte le conseguenze di etica pratica e anche tutte le ambizioni di potere mondano che si vogliono. Così, per esempio, il magistero, sull'aborto, parla della Vita; sul divorzio o sulle coppie di fatto, della Famiglia; sulla procreazione artificiale, di Trasmissione della Vita eccetera, tutto con le iniziali maiuscole perché, nella sua impostazione, parla di realtà la cui origine e la cui funzione sono divine (il «progetto intelligente» di Dio).

 

Ma nella vita della Chiesa non c'è solo questo oblio del messaggio di Gesù di Nazareth. Non risulta che la «verità» cristiana sia in un insieme di astratte dottrine, come è per qualsiasi dottrina umana, delle scienze naturali o di quelle sociali. La verità cristiana è una persona, il Cristo: «lo sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre» (Gv 8, 12). Il mondo non è rischiarato da nessuna dottrina, ma dalla carità, come è detto nel «comandamento nuovo» dato prima della passione: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 14, 34). Ma la logica della carità non si esprime in categorie astratte: la Vita, la Famiglia, la Procreazione eccetera. Si esprime nella considerazione, comprensione, condivisione e compassione, con riguardo agli altri esseri umani nelle loro concrete condizioni di vita. E nell'ordine della carità, la Verità non ha posto o, se ha posto, per usare un linguaggio impreciso e allusivo, è il prossimo tuo la tua verità. Tutto questo è pienamente all'opera in tanti luoghi della Chiesa cattolica, presso tanti credenti per i qua!i la democrazia non è affatto un problema. E anzi la condizione naturale in cui può espandersi la ricerca della verità cristiana.

 

Tutto ciò è evidentemente incompatibile con i diktat dogmatici che provengono dall'alto, i quali trasformano il messaggio cristiano in prontuario di comportamenti politici. Richiede, per l'appunto, come la Costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II aveva sancito, l'autonomia e la responsabilità dei cristiani nel realizzare il comandamento della carità, come si dice, in re, in concreto.

 

E qui si pone il punto d'incontro tra non cristiani e cristiani di buona volontà: rispetto alla carità verso il prossimo siamo tutti uguali, credenti e non credenti, cristiani e non cristiani. Molti cristiani hanno fatto del loro cristianesimo uno strumento di odio e sopraffazione nei confronti degli altri, per motivi di ideologia o di carriera personale; all'opposto molti non credenti vedono nella loro condizione di chi non crede in una verità e in una giustizia che hanno da venire alla consumazione dei tempi (Ap 15, 3), la ragione di un impegno supplementare per ricercare l'una e l'altra nel tempo che è dato loro da vivere, ora e qui.

 

La celeberrima frase di Dostoevskij: se Dio non esiste, tutto è permesso, può facilmente rovesciarsi nel contrario: proprio se Dio esiste, tutto quaggiù è permesso, perché sarà a Lui di raddrizzare le nostre storture. Onde, il riconoscimento «categoriale» che non pochi non credenti si sentono in dovere di fare con riguardo ai cattolici (chissà perché solo ai cattolici, tra tutti i cristiani?): il riconoscimento che essi, con riguardo alla carità, disporrebbero di qualcosa in più risulta un'adulazione totalmente ingiustificata che i cristiani stessi dovrebbero respingere con sdegno.

Gustavo Zagrebelsky