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PRETI SPOSATI FIGLI DI UN DIO MINORE? UNA LETTURA TEOLOGICA SULLA DIGNITÀ DEL CLERO UXORATO


ADISTA n° 76 del 28.10.2006

DOC-1787. PIANA DEGLI ALBANESI (PA)-ADISTA. I sacerdoti sposati ("uxorati" nella tradizione delle Chiese cattoliche di rito orientale) sono forse "figli di un Dio minore?". La "persistenza" del clero uxorato "non ha nessun valore teologico?". Forse non è anch'esso, come quello celibatario, "un vero sacerdozio", "frutto di una chiamata?". Sono le domande che solleva don Basilio Petrà, ordinario di teologia morale alla Facoltà teologica dell'Italia centrale (il maggiore studioso in Italia della teologia ortodossa; autore, fra l'altro, del volume "Preti sposati. Per volontà di Dio?", Edb, Bologna, 2004), nel suo intervento al convegno "Il clero uxorato: una realtà della Chiesa cattolica" organizzato lo scorso luglio dall'eparchia di Piana degli Albanesi, una delle due diocesi di rito cattolico-bizantino in Italia.
"È la prima volta", fa notare Petrà, "che nella comunione cattolica si fa un convegno di tipo teologico sul clero uxorato". Ed è una messa a punto necessaria: dopo le conquiste del Concilio Vaticano II, che aveva "dato dignità ecclesiale e teologica al sacerdozio uxorato", la "teologia romana" ha trasformato quasi surrettiziamente il "sacerdozio uxorato" in un "sacerdozio abusivo" oppure in un sacerdozio "altro" rispetto a quello celibatario, "un sacerdozio minore, meno perfetto, che realizza in grado inferiore e parziale il senso dell'ordinazione". Una tendenza a cui aveva dato inizio Giovanni Paolo II, con l'esortazione apostolica del 1992 Pastores dabo vobis che "afferma formalmente la connessione oggettivamente fondata tra celibato e sacerdozio". Il tutto nel silenzio della Congregazione per la Chiese Orientali (dicastero vaticano da cui dipende il clero cattolico delle diocesi di rito bizantino), che sorprendentemente "non ha mai avuto nulla da replicare". Di seguito ampi stralci dell'intervento del teologo Basilio Petrà.


CLERO UXORATO: UNA RICCHEZZA ECCLESIALE CHE SI VUOLE OCCULTATA


 di Basilio Petrà

Credo che sia la prima volta nella comunione cattolica che si fa un convegno di tipo teologico – oltre che canonico – e pastorale sul clero uxorato (…). Al contrario, sul celibato ecclesiastico non si contano i convegni, e non si conta la letteratura di tipo teologico, spirituale, canonico, pastorale. Si può dire che nella comunione cattolica si è creata una sorta di riflesso condizionato: si dice sacerdozio e si pensa celibato; le due cose vanno insieme, specialmente nell'ambi-to latino, cui appartiene la stragrande maggioranza della comunione cattolica. E bisogna dire che anche in ambito orientale non è mancata la presenza di questo riflesso condizionato, che è riuscito non solo a superare indenne il Vaticano II (il quale in realtà ha posto tutte le premesse per scardinare questo riflesso condizionato), ma addirittura a divenire più forte nel periodo post-conciliare.
(...) Dopo aver affermato a chiare lettere che il sacerdozio uxorato è benemerito nella struttura della Chiesa, e va onorato, il Concilio lo ha riconosciuto come vero sacerdozio, che nasce da una chiamata divina e da un discernimento ecclesiale proprio come il sacerdozio celibatario, e che è dunque un dono di Dio proprio come quello. Dopo che il Concilio ha ribadito che il celibato ha particolari ragioni di convenienza teologica, ma rimane una pura e semplice legge ecclesiastica, abbiamo avuto la ventura di ricevere nel 1992 l'esortazione apostolica Pastores dabo vobis che afferma formalmente la connessione oggettivamente fondata tra celibato e sacerdozio. Secondo la Pastores dabo vobis, la Chiesa cattolica, chiedendo per il rito latino il celibato, non stabilisce semplicemente una legge (che, come prima si diceva, ha varie motivazioni e una convenienza teologica), bensì formula una norma basata sul senso stesso dell'ordinazione sacerdotale, perché l'ordinazione sacerdotale configura ontologicamente a Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa e trova nel celibato la sua corrispondenza adeguata. In altre parole, il sacerdozio uxorato diventa o un sacerdozio abusivo, nel senso che non è conforme a ciò che l'ordinazione ontologicamente significa, o è un altro sacerdozio rispetto a quello celibatario, un sacerdozio minore, meno perfetto, che realizza in grado inferiore e parziale il senso dell'ordinazione.
Prima del Concilio non si era mai osato dire cose del genere. Ricordo che quando feci presente questa posizione della Pastores dabo vobis al compianto padre gesuita Ivan Juges, che è stato il grande protagonista del Codice dei canoni delle Chiese orientali, rimase di stucco. E la stessa reazione ho riscontrato in molti altri che conservano il chiaro ricordo di secoli di teologia manualistica secondo la quale la legge del celibato è una pura lex ecclesiastica. Eppure i testi e l'azione delle Congregazioni romane dicono il contrario. E tutta l'attività formativa della Congregazione per il Clero si muove su questa linea (…).
Il 16 febbraio 2006, il cardinale Darió Castrillón Hoyos, prefetto della Congregazione per il Clero, ha rilasciato un'intervista, raccolta in un dossier sul celibato preparato dalla Agenzia Fides, all'interno della quale si chiede testualmente: "La questione del celibato dei sacerdoti a detta di alcuni è una questione esclusivamente di disciplina e di legislazione ecclesiastica che potrebbe essere modificata. Le cose stanno veramente in questo modo o tra vocazione sacerdotale e celibato c'è un legame particolare?". Vedete, la domanda è tendenziosa, perché si fa passare come opinione di alcuni quella che è una tesi di secoli, ancora oggi presente in vari testi canonici. Tra le altre cose il prefetto dice: "Con riferimento specifico al celibato sacerdotale, il decreto conciliare Presbiterorum ordinis dichiara che la perfetta e perpetua continenza per il Regno dei Cieli raccomandata da Cristo Signore nel corso dei secoli, anche ai nostri giorni, gioiosamente abbracciata e lodevolmente osservata da non pochi fedeli, è sempre stata considerata dalla Chiesa come particolarmente confacente alla vita sacerdotale". E poi aggiunge: "Esiste, infatti, uno stretto legame del celibato con l'ordina-zione sacerdotale, sacramento che configura ontologicamente il sacerdote a Gesù Cristo capo e sposo della sua Chiesa". Il cardinale cita un passo della Presbiterorum ordinis che vuol dire tutta un'altra cosa e vi attribuisce il significato che viene dalla Pastores dabo vobis (…). Aggiunge ancora il cardinale: "Dinanzi alle difficoltà e alle obiezioni sollevate lungo i secoli in ordine alla comprensione e all'accoglimento di questo dono, il Magistero della Chiesa, anche dopo l'ultimo Concilio ecumenico, ha ribadito che esistono motivazioni teologiche di natura cristologica, ecclesiologica ed escatologica che mostrano l'intima connessione del celibato con il ministero ordinato nella sua duplice dimensione di relazione a Cristo e alla sua Chiesa".
(…) Ci sono altre congregazioni che si muovono su questa linea. Ad esempio è interessante vedere l'Istruzione della Congregazione per l'Educazione Cattolica circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali, in vista della loro ammissione al seminario e agli ordini sacri. Al n. 1 dell'Istruzione si dice: "Secondo la costante tradizione della Chiesa, riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile. Per mezzo del sacramento dell'ordine lo Spirito Santo configura il candidato a un titolo nuovo e specifico a Gesù Cristo. Il sacerdote infatti rappresenta sacramentalmente Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa. A causa di questa configurazione a Cristo, tutta la vita del ministro sacro deve essere animata dal dono di tutta la sua persona alla Chiesa e da una autentica carità pastorale. Il rifiuto degli omosessuali viene qui appoggiato all'idea di Cristo sposo che viene sacramentalmente rappresentato in forza dell'ordinazione dal prete celibe".
Bisogna dire che, se le Congregazioni romane agiscono in modo così disinvolto, è anche perché la Congregazione per la Chiesa Cattolica orientale non ha mai avuto nulla da replicare (...). Sempre facendo riferimento all'intervista concessa all'Agenzia Fides, è interessante notare che Castrillón Hoyos, alla domanda: "La disciplina nelle Chiese orientali non contraddice la posizione della Chiesa latina?", ribatte: "Assolutamente no. Non c'è alcuna contraddizione (...). La disciplina delle Chiese orientali che ammette il sacerdozio uxorato non è contrapposta a quella della Chiesa latina. Infatti le stesse Chiese orientali esigono comunque il celibato dei vescovi. Inoltre non consentono il matrimonio dei sacerdoti e non permettono successive nozze a quelli rimasti vedovi. Questo significa che in Oriente come in Occidente non è mai permesso al sacerdote di risposarsi e che solamente i sacerdoti celibi possono accedere all'episcopato. Riaffermo perciò che il celibato sacerdotale è intimamente legato al sacerdozio. Il sacerdote celibe imita Cristo e vive come gli Apostoli".
È davvero una risposta curiosa: la prassi del clero uxorato è letta come una conferma del fatto che il celibato è intimamente legato al sacerdozio. Solo i celibi secondo il cardinale Castrillón Hoyos imitano Cristo e vivono come gli apostoli, che tra l'altro non erano celibi. E forse può essere utile ricordare che la norma sull'episcopato riservato ai celibi è una norma imperiale, fatta da Giustiniano, e non di origine direttamente ecclesiale. In fondo Castrillón Hoyos vuol dire che anche in Oriente il vero sacerdozio è solo celibatario, e quello uxorato è sostanzialmente tollerato. Ebbene, pure ammesso - ma non concesso - che gli elementi ricordati siano prova di un certo rilievo del celibato anche in Oriente, la persistenza del clero uxorato non ha forse un significato positivo? Non ha nessun valore teologico? Non è un vero sacerdozio? Non è frutto di una chiamata? Io sto ricordando cose del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali Cattoliche. Ma forse il Codice è figlio di un Dio minore? Non conta? (...)
Vorrei allora cercare di dire io stesso qualcosa sul valore teologico del clero uxorato (...). Guardando le fonti della Chiesa orientale sarà facile notare che nella conservazione del sacerdozio uxorato si è sempre tenuta presente innanzitutto la fedeltà alle lettere del Corpus Paulinum, che fanno riferimento appunto al presbiterato uxorato, specialmente 1Tm 3,2ss e Tt 1,6 ss. Viene recepita nella tradizione l'analogia posta da tali lettere tra governo della casa e governo della Chiesa. Una buona capacità coniugale e parentale è un buon indizio della capacità di governare la famiglia ecclesiale. In qualche modo la logica delle lettere pastorali sembra indicare che il sacerdozio uxorato mostra il carattere familiare della comunità ecclesiale. Al punto che un criterio di discernimento in ordine alla capacità di governo del candidato al presbiterato è proprio la sua capacità di essere un buon marito e un buon padre, sia pure nei termini della cultura familiare del I sec. d.C. (...).
Mi limito a dare un'idea della prospettiva teologica che ritengo adatta ad affrontare la questione (...). Naturalmente il Codice dei canoni delle Chiese orientali va letto alla luce dell'amore coniugale. Certamente le allusioni alla dottrina dell'amore coniugale che si è sviluppata nel grande Magistero sulla famiglia negli ultimi decenni è molto presente. Noto solo una cosa: il fatto che nel Codice si chieda l'esemplarità della vita al clero celibe e al clero coniugato secondo la tradizione orientale. L'esemplarità della vita coniugale, dell'amore coniugale. E la castità coniugale nel Codice è la castità coniugale di cui si parla nel Concilio, di cui si parla nella Humanae Vitae, nella Familiaris consortio: è la verità dell'amore coniugale. Non è un problema di astinenza, ma di verità nell'amore coniugale. E la castità dell'amore coniugale è una cosa grossa, importante, che riguarda tutte le famiglie. Si tratta di realizzare la verità dell'amore in ogni suo aspetto, compreso il linguaggio fisico: il linguaggio dello scambio corporale che deve essere parte vera di questo amore coniugale. Questa prospettiva abbraccia la coppia sacerdotale. Ambedue sono chiamati non soltanto in termini morali, come ogni coppia cristiana, ma, si potrebbe dire, in termini deontologici. È una vera e propria deontologia: hanno il compito di amarsi in modo pieno e perfetto perché sono chiamati ad essere esemplari anche nell'amore coniugale.
Cercando di comprendere il significato teologico del clero uxorato, (…) non si può accettare l'idea che siccome l'ordinazione, si dice, è cristoconfigurante sul piano ontologico, la sua espressione adeguata è soltanto il celibato. La teologia romana del celibato ha fatto un colpo da maestro. Perché è riuscita a rendere segno sacramentale di Cristo sposo della Chiesa il celibato ecclesiastico. Se c'era una cosa che sacramentalmente era riservata ai laici era il segno di Cristo sposo: ora invece la teologia romana del celibato è riuscita a fare del celibato il segno di Cristo sposo. (…) Il problema vero è che i laici non hanno alcun interesse a reagire, o per lo meno non si sono resi conto di qual è il problema.
Quando Benedetto XVI, in occasione della Giornata Missionaria Mondiale, pronunciò la frase: "Sul mistero eucaristico celebrato e adorato si fonda il celibato che i presbiteri hanno ricevuto quale dono prezioso e segno dell'amore indiviso verso Dio e verso il prossimo", Papás Cuccia scrisse al Papa dicendo sostanzialmente: "Se ciò riguarda anche la condizione dei preti uxorati non so come comportarmi: devo celebrare o no l'eucaristia?". La domanda era precisa: se il celibato ecclesiastico è il segno esistenziale corrispondente alla vera e adeguata celebrazione e adorazione del mistero eucaristico, ed è per questo donato ai presbiteri, allora il clero uxorato cosa c'entra? La risposta della Segreteria di Stato è interessante: "Reverendissimo Signore, recentemente ella ha inviato al Santo Padre una lettera nella quale espone la sua esperienza di sacerdote nella Chiesa cattolica di rito orientale. Al riguardo, nel ringraziare della missiva, la esorto a continuare a vivere con gioia la sua missione sacerdotale facendo della sua esistenza un'offerta costante a Dio, alla sua famiglia e alla comunità affidata alle sue cure". È un capolavoro burocratico. Non c'è che dire, sanno fare il loro mestiere. La domanda diventa una testimonianza personale e si evita di rispondere direttamente al problema. Si ringrazia cortesemente per la lettera e si offre una esortazione. Però attenzione, eh! Questa risposta nasconde qualcosa che va al di là di quello che probabilmente la burocrazia voleva dire. Allora, dove sta la possibilità di individuare il significato teologico, il valore teologico del clero uxorato? Secondo me la linea lungo la quale si può trovare una risposta a questo problema è la linea tradizionale dell'Oriente (…). L'Oriente ha sempre sostenuto che l'ordine costituisce un passo avanti che non nega affatto il passo indietro, ma configura in modo nuovo anche la vita coniugale secondo le esigenze pastorali. Non c'è affatto negazione. Vi è una continuità, una crescita, una maturazione. Bisogna dire che nel passato era difficile dimostrarlo, perché come si può fare una teologia del matrimonio quando questo è semplicemente un contratto tra un uomo e una donna in ordine alla procreazione ed educazione della prole? Ma oggi noi abbiamo una teologia del matrimonio e della famiglia che ci dice chiaro e tondo che ci può essere una chiarissima continuità tra il sacramento del matrimonio e il sacramento dell'ordine, perché la Familiaris Consortio ci dà un'immagine della famiglia che è in realtà concepita come realizzazione della comunione che è la Chiesa. Nel loro rapporto coniugale, quando i due diventano in fondo una unidualità, essi diventano, in forza del sacramento, manifestazione della comunione feconda della Chiesa. Non solo: la famiglia è chiamata a vivere la missione stessa della Chiesa, quella di essere pienamente inserita nel ministero profetico, sacerdotale, regale della Chiesa e di Cristo Signore (…). In pratica si può dire che in questa prospettiva nuova risulta abbastanza chiaro che il sacerdozio uxorato, cioè la coppia investita dalla chiamata sacerdotale dell'uomo, è in realtà nella continuità della vocazione coniugale e familiare e ne porta a pienezza il senso ecclesiale (…).
C'è un passo bellissimo di Giovanni Paolo II che, secondo me, potrebbe essere attuato pienamente dal clero uxorato. È un testo legato a un bel documento che si intitola "Lettera alle famiglie" del 1994. Sentite cosa dice Giovanni Paolo II, commentando Ef 5, 32: "Non si può comprendere la Chiesa come corpo mistico di Cristo, come segno dell'alleanza dell'uomo con Dio in Cristo, come sacramento universale di salvezza, senza riferirsi al grande mistero (se ne parla in Ef 5, 32) congiunto alla creazione dell'uomo maschio e femmina e alla vocazione di entrambi all'amore coniugale, alla paternità e alla maternità". Sentite questa frase: "Non esiste il 'grande mistero' che è la Chiesa e l'umanità in Cristo, senza il 'grande mistero' espresso nell'essere 'una sola carne', cioè nella realtà del matrimonio e della famiglia. La famiglia stessa è il grande mistero di Dio, come 'Chiesa domestica' essa è sposa di Cristo. La Chiesa universale ed in essa ogni Chiesa particolare si rivela più immediatamente come sposa di Cristo nella 'Chiesa domestica' e nell'amore in essa vissuto: amore coniugale, amore paterno e materno, amore fraterno, amore di una comunità di persone e di generazioni. L'amore umano è forse pensabile senza lo sposo e senza l'amore con cui egli amò fino alla fine?". Lo sposo è Cristo. "Solo se prendono parte a tale amore e a tale 'grande mistero' gli sposi possono amare 'fino alle fine': o di esso diventano partecipi oppure non conoscono fino in fondo che cosa sia l'amore e quanto radicali ne siano le esigenze". (…) Il sacerdozio uxorato è chiamato a diventare con la propria esistenza coniugale e sacerdotale l'immagine viva dell'u-nità profonda di questo grande mistero sia in quanto matrimonio-famiglia sia in quanto comunità-chiesa. Perché nella sua realtà egli vive l'unità di questi due misteri in modo profondo. Nel sacerdozio uxorato non c'è soltanto il rinvio simbolico tra famiglia e comunità ecclesiale, ma c'è la coincidenza: la famiglia diventa in qualche modo comunità ecclesiale e viceversa (...). Sono l'unica Chiesa che si manifesta in due forme omologhe e concentriche. E l'amore coniugale di colui che è chiamato al sacerdozio nell'unidualità della comunione coniugale è destinato ad essere immagine viva di quell'amore dello sposo che pone la propria vita per la sua Chiesa (…).
A questo punto posso dire che la condizione uxorata dei sacerdoti orientali è una realtà a pieno titolo nella Chiesa cattolica, ha un significato teologico, non è una soluzione pratica, e neanche una forma di rispetto per la tradizione che bisogna prendere com'è. Il sacerdozio uxorato non è né superiore, né inferiore a quello del celibato ecclesiastico. È semplicemente diverso, del tutto armonico e compatibile con esso. Non è accettabile il gioco della teologia romana che sta facendo di tutto per dimostrare che solo se c'è il celibato c'è realmente la realizzazione di tutto il significato teologico del sacerdozio. Il clero uxorato mostra con la sua esistenza la vocazione ecclesiale piena di ogni matrimonio cristiano. E l'unità profonda della manifestazione del grande mistero della Chiesa domestica e della Chiesa comunità. Per concludere riprendo il bigliettino della Segreteria di Stato che ha risposto a Papás Nicolas Cuccia. La risposta riconosce alla fin fine che Papás Nicolas è sacerdote, che esercita la missione sacerdotale, lo si esorta a continuare tale missione con gioia facendo della sua esistenza un'offerta costante a Dio, alla sua famiglia e alle comunità affidate alle sue cure. Senza volerlo, probabilmente, e anche spinto dalla logica di cortesia, questo bigliettino dice in fondo che matrimonio e sacerdozio sono in continuità e unità fra loro. Che lui, come prete sposato, è in piena fedeltà a Dio, alla sua famiglia e alla comunità. Esiste un'unità che ha senso e che è fedeltà a Dio (…).