IL CONCILIO È MORTO, VIVA IL CONCILIO
Il Concilio Vaticano II fu chiuso da Paolo VI il giorno
dell'Immacolata, l'8 dicembre 1965, giusto quarant'anni fa. Se si considera che
il Vaticano II è di certo uno dei più grandi eventi positivi del ‘900,
risulta davvero inadeguato quanto si è fatto e detto, in campo cattolico e
laico, salvo eccezioni, in occasione di questa ricorrenza.
È una constatazione senza particolari frustrazioni o rimpianti. Le celebrazioni
rituali non sono molto amate dall'area culturale del dissenso creativo. Sanno di
necrofilia, di esumazione ricorrente scandita dai tempi delle bare vuote della
nostra periodizzazione storica. Ma la sacralità delle ricorrenze storiche non
si cancella con un atto di volontà. Volenti o nolenti ne siamo coinvolti. E poi
forse si può combattere e attenuare la necrofilia delle celebrazioni,
includendovi il tentativo di intensificare e rinnovare l'intreccio quotidiano
fra memoria storica e presente.
I quarant'anni dalla chiusura del Concilio dunque sono stati celebrati in
sordina. Il silenzio dell'attuale papa è molto eloquente: dice la sua grande
preoccupazione per la permanenza attuale, secondo lui catastrofica, del contagio
conciliare, di quello che egli intende non come spirito autentico, ma come
spirito distruttivo. Nel novembre 1984 il mensile cattolico Jesus pubblicò
un'intervista al card. Ratzinger, allora Prefetto dell'ex-Sant'Uffizio, poi
ripubblicata in un volume delle Edizioni Paoline dal titolo Rapporto sulla fede.
Andrebbe riletta oggi per capire l'orientamento dell'attuale pontificato.
"Ci si aspettava una nuova unità cattolica - dice Ratzinger - e si è
andati invece incontro a un dissenso... Ci si aspettava un nuovo entusiasmo e
tanti sono finiti nello scoraggiamento e nella noia. Ci si aspettava un balzo in
avanti e ci siamo invece trovati di fronte a un processo progressivo di
decadenza che si è sviluppato in larga misura proprio sotto il segno di un
richiamo al Concilio". Di fronte a un tale pessimismo, che è l'anima
dell'attuale pontificato, è ancora possibile vedere e vivere il Concilio come
processo aperto, percorso di trasformazione, segno della direzione di marcia di
un'epoca?
Proviamo a storicizzare un tale interrogativo per riportarlo poi all'oggi.
A differenza del Vaticano I, che era stato ancora un Concilio essenzialmente
europeo, i quasi 2.500 padri conciliari provenivano ora da tutto il mondo. Meno
della metà erano europei, ottocento venivano dalle Americhe, più di
cinquecento dall'Africa e dall'Asia. Rappresentavano le periferie della
cattolicità. Proprio per questo papa Giovanni li aveva convocati: per dar voce
e forza alla molteplicità creativa delle ininfluenti e non di rado ignorate
provincie dell'impero. Sta tutta qui, a mio avviso, la geniale ispirazione
profetica di papa Giovanni, oppure il suo errore o almeno la sua ingenuità, a
giudizio di alcuni e forse di molti.
La Chiesa cattolica fino allora era stata di parte, dominio dei "profeti di
sventura", arroccata "contro": contro la Riforma, la modernità,
il socialismo e il comunismo, la diversità, la verità del-l'"altro";
contro l'autonomia delle co-scienze e il riscatto dei popoli.
È su questo sfondo che bisogna collocare la portata della svolta di Papa
Giovanni. La Chiesa deve tornare ad essere "Chiesa di tutti e
particolarmente dei poveri", disse nell'intervento dell'11 settembre 1962
in preparazione del Concilio e ripeté sostanzialmente un mese dopo, nel
discorso d'apertura. "Chiesa di tutti" e non solo della gerar-chia;
"di tutti" e non solo dei cattolici, degli europei, dell'Occidente
opulento. Una tale trasformazione era un com-pito immane, un miracolo che nessun
papa dal centro avrebbe mai potuto compiere. Roncalli, uomo dell'apparato,
sapeva quanto era grande la solitudine istituzionale del vescovo di Roma,
co-nosceva bene la prigionia vaticana e lo spessore delle catene curiali. Era
co-sciente di ciò quando accettò l'elezione e se ne convinse meglio i primi
anni del suo pontificato quando fu trascinato in una delle ricorrenti strette
involutive che si abbatté sulle esperienze del catto-licesimo italiano e
francese più impe-gnate in quella trasformazione che entrava sempre più
decisamente nei suoi sogni.
Papa Roncalli si sentiva inghiottito dalla tela del ragno, quasi un burattino
nelle mani dell'onnipotenza curiale. Ed ebbe la genialità di rompere quell'isola-mento
chiamando in Vaticano il mondo intero. Non che i vescovi fossero tutti esemplari
di aderenza alla realtà, anzi molti di loro erano ancora fermi al Medio Evo.
Chiamò il mondo intero nel senso che convocando i vescovi, unica possibilità
istituzionalmente a lui con-sentita, intese dare voce e forza a quei processi di
crescita umana e cristiana che animavano la storia. Li aveva in-contrati nella
sua esperienza di diplo-matico vaticano in cruciali posti di frontiera: in
Bulgaria, a contatto col mondo dell'ortodossia e del comunismo, in Turchia, la
porta dell'Islam, nella Francia, "Paese di missione" animato dal card.
Suchard e inoltre nodo storico della decolonizzazione (Algeria e Vietnam).
Nell'enciclica Pacem in terris chiamerà tali processi "segni dei
tempi" e darà loro precisi connotati: "ascesa econo-mico-sociale
delle classi lavoratrici, ... ingresso della donna nella vita pubblica ed
emergere della soggettività femmi-nile, ... non più popoli dominatori e popoli
dominati..."; ancora altri "segni dei tempi", secondo la Pacem in
terris, l'aprirsi delle coscienze al carattere de-mocratico della vita sociale e
politica e all'illiceità ormai della guerra nell'era atomica.
Questa contestualizzazione porta a vedere il Concilio non come puro fatto di
Chiesa, ma come espressione e segno di un'epoca, di una fase storica, di una
tappa del cammino umano comples-sivo. Ebbene, a giudicare dalla prassi
alto-istituzionale si direbbe che il Con-cilio è effettivamente morto. Rimane
solo la liturgia funebre, necrofila, i cui riti si ripropongono sempre uguali.
Ultimo in ordine di tempo questo insistere sulla sfiducia nei confronti della
realtà femminile, questa ripetuta colpevoliz-zazione della donna, questo
provoca-torio esorcismo contro l'aborto conside-rato vero e proprio assassinio o
addirit-tura genocidio dei feti e questo acca-nimento contro la metodologia
farma-cologica per applicare la legge che con-sente l'aborto con minori
sofferenze. Senza parlare poi dell'ultimo Sinodo definito ben a proposito
"Sinodo del No". È vero che le gerarchie ecclesiastiche esprimono
anche un atteggiamento fortemente critico nei confronti del neo-liberismo,
dell'individualismo egoista occidentale, dell'iniquo rapporto Nord-Sud e
soprattutto c'è questa condanna della guerra. È una condanna, per me molto
giusta, ma che cala dall'alto. Toglie voce ai movimenti. È una specie di
ripro-posizione dello scontro medioevale fra Papato e Impero. Manca
completamente l'annuncio dei "segni dei tempi". E infatti è una
condanna che non regge e sta attenuandosi.
Dunque si può dire addio ai "segni dei tempi"? Si deve considerare
ormai fuori dall'orizzonte storico attuale la fiducia nel cammino umano, la
valoriz-zazione delle periferie, delle diversità, dei processi di
trasformazione dal basso?
Insomma si deve considerare morto lo spirito del Concilio? Non ne sarei tanto
sicuro. La sua tomba potrebbe essere vuota e i riti necrofili un esorcis-mo
contro un processo inarrestabile. In questo orizzonte di fiducia, la parola più
significativa la stanno pronunziando quanti lavorano nel quotidiano per lo
sviluppo del processo conciliare. E fra di essi le comunità di base che sono, a
mio avviso, uno dei frutti più maturi e più resistenti del Concilio.