IL CONCILIO RINNOVÒ LA CHIESA
Il discorso di Giovanni XXIII del-l'11 ottobre 1962
all'apertura dei lavori conciliari che indicava prospettive nuove per il
Vaticano II ha trovato consensi tra la grande maggioranza dei padri. Ne è nato
un Concilio "nuovo", cioè diverso da quelli della tradizione
precedente, dato che era formato da vescovi di tutto il pianeta, non era stato
determinato dalla risposta a deviazioni eretiche, e neppure da esigenze di
organizzazione della Cristianità, né da emergenze drammatiche né, infine,
aveva un progetto ben determinato da realizzare - come era stato all'ultimo
Concilio del 1870.
Il Concilio ha lavorato durante due pontificati diversi.
Giovanni XXIII l'ha voluto e avviato, Paolo VI l'ha continuato e concluso. Gli
impulsi che l'uno e l'altro hanno dato all'assemblea episcopale sono stati
sensibilmente differenti. Da papa Giovanni è venuta l'idea stessa del Concilio,
caratterizzata da un "pensare in grande", dalla convinzione che la
fede potesse generare un evento storico adeguato alle esigenze nuove dell'umanità.
Papa Paolo ha accettato lealmente il Concilio, si è sforzato di garantirne
l'unanimità, ha trovato la costanza di portarlo a termine.
La chiesa di quegli anni sessanta era provocata a rendersi conto di trovarsi di
fronte a un mondo nuovo, al quale ripresentare i valori dell'uguaglianza
universale, della povertà, della giustizia, della pace e dell'unità cristiana.
La "forza" del Concilio
Il Concilio, con un intenso lavoro di quattro anni, ha portato la chiesa a
rispondere coralmente e in positivo, cioè riproponendo i contenuti evangelici
essenziali, all'umanità di oggi, secondo i criteri della pastoralità e
dell'aggiorna-mento. Erano criteri da molto tempo inconsueti - anzi, estranei -
al cattolicesimo, per i quali mancava sia una consuetudine recente che un
approfondimento concettuale: i padri conciliari si sono impegnati in una
riscoperta di questi valori.
"Pastoralità" significava concepire, vivere e guidare la chiesa con
uno stile mite, povero, ben diverso dal modo di essere delle comunità statuali.
"Aggiornamento" voleva indicare disponibilità e attitudine alla
ricerca, impegno globale per una rinnovata inculturazione della rivelazione. La
storia viene riconosciuta come luogo teologico, cioè realtà nella quale la
fede può e deve alimentare la propria incessante ricerca del Regno, non per
averne un possesso geloso, ma per farne la sede privilegiata dell'amicizia con
gli uomini. L'abituale contrapposizione tra storia profana e storia sacra
risulta pertanto superata.
Era una macroscopica inversione di tendenza rispetto all'orientamento cattolico
prevalente da almeno quattro secoli. La chiesa che Giovanni XXIII aveva
convocato a Concilio usciva da una lunga stagione di diffidenza, spesso arcigna,
verso la storia e di immobilismo dottrinale, secondo il quale la verità
dell'evangelo era un tesoro da custodire, piuttosto che da trafficare. C'era la
convinzione che la chiesa fosse chiamata a una nuova stagione di fedeltà
evangelica, più ricca e più fedele delle precedenti.
L'assemblea conciliare ha anche avuto il coraggio di abbandonare l'eu-rocentrismo,
che caratterizzava il cattolicesimo.
Gli episcopati del "terzo mondo" hanno conquistato progressivamente
spazio, esercitando un influsso crescente sui lavori e sulle decisioni. Questa
de-europeizzazione ha trovato conferma soprattutto nell'impatto che l'even-to
conciliare ha realizzato proprio nei continenti della "periferia" del
mondo.
Il Vaticano II - ancorché appesantito da un certo numero di decreti di
ispirazione pre-conciliare - ha complessivamente trasceso le attese, realizzando
una "svolta" più profonda e organica di quanto le istanze della
vigilia avessero avuto la lungimiranza e il coraggio di auspicare.
Prima e dopo il Vaticano II
Qualcuno, con un umorismo greve quanto disinvolto, sta tentando di sostenere che
prima del Vaticano II la chiesa cattolica godeva ottima salute e che, pertanto,
il Concilio sarebbe stato superfluo. Non può che trattarsi di chi non ha
vissuto da credente gli anni Quaranta e Cinquanta e pertanto non ha esperienza
della mortificazione di chi assisteva a celebrazioni liturgiche in latino senza
comprendere nulla, né dell'estraneità dei fedeli rispetto al mondo chiuso dei
chierici. Allora i rapporti tra cristiani di diverse chiese erano caratterizzati
dalla reciproca polemica a base di "eretico" e di
"scismatico", persino noti romanzi ricordano lo scandalo della
concorrenza tra cristiani di diversa confessione. La libertà era regolata dal
S. Uffizio mediante condanne decise senza alcuna garanzia; salvo alcuni
"gruppi del Vangelo" semi-clandestini tra studenti universitari, la
lettura della Bibbia era vista con sospetto, quando non punita.
Infine, soprattutto nel nostro Paese, l'impegno emergente della Chiesa si
esprimeva nel "collateralismo" nei confronti del partito della
Democrazia Cristiana e in capillari interventi di fiancheggiamento elettorale.
È vero che alcuni di questi comportamenti sembrano talora riemergere ai nostri
giorni, ma almeno è opinione comune che siano iniziative contraddittorie
rispetto a quanto è stato indicato da un grande Concilio, che costituisce per i
cristiani l'autorità più alta.
Opposizioni
Negli ultimi anni si manifesta un'op-posizione all'importanza del Vaticano II.
Qua e là, compresi gli "atei-devoti", emerge una tendenza che
vorrebbe ridurlo a un "Concilio debole". Un fenomeno simile si è già
verificato dopo il grande Concilio di Calcedonia (451), che aveva elaborato la
concezione del Cristo, che regge e ispira tuttora la fede cristiana, e si è
ripetuto dopo il cruciale Concilio di Trento (1545-1563), che ha sottratto il
Cattolicesimo alla disgregazione interna, causata dalla decadenza ecclesiastica
e dalla "corrosione" protestante. In entrambi i casi si è manifestata
una corrente che avrebbe voluto "normalizzare" sia il Calcedonese,
negando l'importanza della svolta dottrinale da esso introdotta e perciò
lasciando sopravvivere tensioni dottrinali laceranti, che il Tridentino,
riducendolo a un rafforzamento dell'autorità di Roma, malgrado la tenace e
strenua resistenza di S. Carlo Borromeo, impegnato a un rinvigorimento delle
chiese locali.
Il Vaticano II realizza una ripresa di linee profonde - interrotte, ma non
infrante - della tradizione cristiana assunta nell'accezione cattolica più
densa e integrale. La visione riduttiva del Concilio, invece, sostiene
l'accettazione dei decreti conciliari, ma nega il rilievo del Concilio nel suo
insieme come "evento"; si accettano i protocolli ufficiali, ma si
diffida della viva documentazione personale dei partecipanti, ci si appella alla
tradizione non come "trasmissione" dinamica della rivelazione e
dell'espe-rienza credente del passato, ma come patrimonio rigido, chiuso e
immobile. Si vorrebbe anche seppellire il significato del pontificato giovanneo
nella totale "continuità" con quello paolino, ignorando la varietà,
che è una delle ricchezze del pontificato romano. Si giunge così ad annullare
la "svolta conciliare" e - non ultimo - a minimizzare l'insegna-mento
del Concilio sulla Chiesa: la liturgia come partecipazione, la sacramentalità
dell'episcopato e la collegialità dei vescovi con il papa, la libertà
religiosa, la sovranità della S. Scrittura, il rapporto di "amicizia"
con l'umanità e la sua storia.
Paradossalmente, questa corrente - che strizza l'occhio ai teo-con nordamericani
- testimonia, meglio di qualsiasi argomentazione, l'attualità del Vaticano II,
malgrado i quaranta anni trascorsi dalla sua conclusione. Attualità riproposta,
d'altronde, vigorosamente da prese di posizione che si susseguono, sempre più
numerose e autorevoli, in tutte le principali lingue.
Non solo fatto del passato, ma anche progetto
L'abbandono dell'immagine della chiesa come "società perfetta",
analoga alle organizzazioni statali moderne, ha consentito di recuperare la
natura comunitaria della chiesa. È significativo che un impulso decisivo in
questo senso sia venuto dall'episcopato del lontano Cile. Superare la stagione
dell'ec-clesiocentrismo non ha implicato solo il tramonto dell'importanza
predominante della chiesa sulla fede ma, soprattutto, la riscoperta delle altre
dimensioni della vita cristiana. Così è stato avviato l'abbandono del
riferimento alle istituzioni ecclesiastiche, alla loro autorità e alla loro
efficienza come il centro e il metro della fede cristiana e della chiesa. Sono
invece la fede, la comunione e la disponibilità al servizio che fanno la
chiesa. Sono questi i valori-guida sui quali si misura l'adeguatezza evangelica
della struttura e dei comportamenti delle istituzioni ecclesiastiche.
Riconoscere il valore di supremo criterio ecclesiale della consapevolezza di
fede e dei segni dei tempi in luogo della logica interna delle istituzioni,
troppo frequentemente guidate dal potere, invece che dall'autorevolezza e dal
servizio è un rovesciamento epocale.
Il Vaticano II ha lasciato una chiesa cattolica ben diversa da quella in seno
alla quale si era aperto. La condizione di "cristianità", che era
ancora dominante in Europa e, mediante essa, nel cattolicesimo mondiale, appare
l'8 dicembre 1965 superata. Ne sopravvivono frammenti, talora anche tenacemente
restii a prendere atto della svolta storica, tuttavia sono sussulti nostalgici.
Nella lunga durata, l'uscita dal periodo controriformistico e dalla stagione
costantiniana caratterizza la "svolta" avviata dal Concilio, una
svolta necessariamente complessa e graduale, di cui esso ha posto le premesse e
segnato l'avvio. Quasi nessuno all'atto dell'annuncio di un nuovo Concilio aveva
saputo immaginare il tipo di decisioni "orientative" e non "precettive",
che avrebbero caratterizzato i testi approvati dal Vaticano II. Al massimo, ci
si era spinti a auspicare la rinuncia a condanne.
Senza il Vaticano II il papato avrebbe continuato ad essere una
"provincia" italiana, la problematica della pace sarebbe rimasta
arenata in solenni quanto sterili deplorazioni, il superamento del-l'esasperata
personalizzazione del papato sarebbe ancora un sogno. Così come a livello
sociale la chiesa cattolica si sarebbe trovata in insuperabili difficoltà a far
fronte all'evoluzione verso l'assetto multiculturale generato dalla
globalizzazione.
Ciò dà la misura dell'importanza della ricezione del Vaticano II, che
coinvolge non solo la chiesa "ufficiale" - papa, vescovi, preti - ma
l'insieme dei credenti. L'assimilazione profonda dell'esperienza conciliare di
condivisione e di ricerca e delle indicazioni liberanti del Vaticano II è un
processo complesso e di lunga durata. È vero che viviamo in una cultura
"breve", a consumo rapido e con scarsa memoria, ma ciò che intende
incidere su abiti mentali e comportamenti sociali di larga parte dell'umanità
ha ancora bisogno del tempo, misurato almeno in "generazioni". Sta
scomparendo la generazione che ha "fatto" e vissuto il Vaticano II e
si apre una nuova stagione - forse più feconda, certamente decisiva - della
assimilazione degli impulsi che nel Concilio sono stati proposti ai credenti e a
ogni uomo.
Sono ancora attuali alcune osservazioni di Ratzinger, ancorché fatte dieci anni
or sono: è normale che i concili abbiano dovuto essere interpretati e accolti
nella vita delle chiese in una lunga battaglia, nella quale si sono assimilate
le cose importanti e, nello stesso tempo, si sono lasciate cadere quelle meno
essenziali. Mi sembra che sia un grande compito per la chiesa di oggi e di
domani lavorare realmente ad una assimilazione profonda e fedele di quel grande
avvenimento che è stato il Concilio Vaticano II. Benedetto XVI non può aver
cambiato idea.
Il ripiegamento su se stesso del-l'impulso conciliare implicherebbe una
delusione molto ampia, che sciuperebbe un eccezionale moto di attesa, di
di-sponibilità e di creatività.