DON GIUSSANI SENZA MIRACOLI
di FRANCESCO MERLO
(da la Repubblica del 24 febbraio 2005
E'
morto un uomo storico, hegelianamente storico, uno dei protagonisti di un
passaggio importante della storia del nostro Paese, ma non è morto il
cappellano d'Italia, il padre spirituale di tutti noi.
In
Italia c'è l'abitudine di distogliere lo sguardo dagli occhi della morte.
Sempre, davanti a un morto, si parla d'altro, mai di lui. Nel caso di don
Giussani, la morte ha transustanziato la realtà viva.
E
così da finissimo politico combattente, da ispirato pastore d'anime, da
coltissimo organizzatore di potere, da reclutatore di talenti, don Giussani è
diventato un candidato alla santità, il nuovo patrono che, a destra e a
sinistra, laici e religiosi, fedeli e infedeli, deformano nell'ultimo doveroso
saluto. Ma don Giussani, profondo e sincero, pedagogo e amorevole, era e
rimane il leader di una minoranza antimoderna.
E,
se fosse davvero severo e misericordioso, generoso e giusto, come lo
immaginava lui, Dio, dopo averlo accolto in Paradiso e fatto accomodare
alla sua destra, già adesso starebbe chiedendogli conto anche delle lucrose
attività della sua Compagnia delle Opere, di quel gran fumo di clericalismo
simoniaco, di presunte truffe, di denunzie, di scandali e di processi penali
che ha accompagnato il miracolo economico di don Giussani, dalle mense
scolastiche di Roma alla Cascina San Bernardo di Milano, dai parcheggi ai cibi
precotti e avariati, sino all'affaraccio di Oil for Food e al ruolo di
Formigoni, sino alle suggestioni letterarie del Codice da Vinci.
Certamente
il Dio che immaginiamo noi laici, così diverso dal raggio di sole
caravaggesco che tanto gli piaceva, il Dio che non è sole di tragedia ma
dolcezza privata, non sensazioni trionfali e scoppi di luce ma atmosfere
rarefatte e solidarietà intellettuali, non esplosioni ma implosioni, il
Dio che si nasconde e non si mostra, certamente questo Dio perdonerebbe
l'appoggio spirituale che lui, così onesto, diede alla peggiore Dc,
quella romana delle tangenti, e quella della Sicilia complice della mafia,
allo squalo Sbardella e al contiguo Salvo Lima.
Secondo
noi, Dio si è già messo a conversare con lui, non della Madonna dantesca e
neppure del Cristo leopardiano, perché di quelli c'era già tutto sui
giornali italiani di ieri, ma di quell'estremismo all'incontrario che
rappresentò e continua a rappresentare Comunione e liberazione, versione
cattolica integralista della rivolta generazionale di sinistra. Fu l'altra
faccia del sessantotto, quel che lo rende chiaramente comprensibile,
estremismo contro estremismo, Jaca Book contro Feltrinelli e Savelli, Rocco
Buttiglione contro Franco Fortini, i cori dell'Antoniano contro l'anarchico
ferroviere di Guccini, e anche, se permettete, Cristo contro Cristo. Al nostro
Cristo infatti, che era confusamente costruito su una ideologia di liberazione
guerrigliera e di preti operai, loro opponevano un Cristo da Torquemada. E non
è vero che la nostra era ideologia e la loro era devozione. Il nostro Cristo
era vivo almeno quanto il loro.
Sicuramente
il nostro Cristo era ideologia, ma anche quello di don Giussani era ideologia.
Ecco: ideologia contro ideologia, specchio rovesciato di tutto quel mal di
vivere e di quel disadattamento in cui nessuno voleva stare, emigrando a salti
e a piroette nelle paranoie politiche o religiose, nelle milizie combattenti
per il proletariato o per Dio.
Ieri,
solo su La Croix, che è il giornale ufficiale della Chiesa cattolica in
Francia, come lo è Avvenire in Italia, di don Giussani è stato scritto nel
titolone che "incarnò l'integralismo".
E'
vero infatti che don Giussani si batteva contro la scristianizzazione
dell'Italia e della stessa Chiesa, ma chi ha stabilito che il Cristo è
quello di don Giussani? Quale visione di Fatima ha rivelato che il Cristo è
un militante politico, un editore, un industriale, un prete filosofo, un
fustigatore, un moralista, un sessuofobo, un classificatore di peccati? Eppure
i seguaci italiani di don Giussani ancora nella camera ardente raccontavano e
scrivevano di miracoli, e del sangue di San Gennaro che si è liquefatto per
lui.
I
pur bravi e simpatici giornalisti Antonio Socci e Renato Farina addirittura
preannunciano altri miracoli "nei prossimi giorni". E si capisce
subito che gli epigoni di don Giussani non solo non gli somigliano, ma sono
tutti dentro quel cliché di svettante bigottismo che Totò parodiava
espressionisticamente con un segno della croce che era strabuzzio d'occhi,
compunzione immusonita, agitazione di braccia, la mano con le dita strette a
becco che convulsamente correva dalla fronte alle spalle... Per Totò il
bigottismo era il rovescio della religione che per contrappasso poteva essere
rappresentato solo parodisticamente. Tutto questo parlare di miracoli, di
sangue e sanguinaccio, di lacrime usate al posto dell'inchiostro, è di nuovo
estremismo, spettacolo sciita, pasqua santa da processione paganeggiante, è
ancora quell'estremismo al contrario di cui in fondo la nostra generazione ha
saputo liberarsi mentre loro, che si credono "salvati", ancora non
ci riescono.
Noi
piangiamo in privato e non lo raccontiamo a nessuno, non abbiamo bisogno di
prefiche per gridare il dolore. E abbiamo tutti i nostri padri spirituali, e
spesso li cambiamo perché anche i padri invecchiano: oggi Musil e domani
Colletti, ieri Feyerabend e l'altro ieri Marx, e ancora il cattolico Manzoni e
il radicale Sciascia, don Milani e Bobbio, Gassman e Montanelli, Calvino e
Papa Giovanni. E da Gramsci siamo arrivati sino a De Felice... Mai però ci
siamo inventati miracoli. Noi non ci attarantoliamo. E rispettiamo anche
don Giussani perché rispettiamo la storia, senza miracoli e senza monumenti,
rispettiamo l'uomo che tante volte da avversario ci ha dato da pensare, ci
ha offerto provocazioni su cui riflettere e, con i suoi estremismi, ci ha
fatto pure sorridere. I suoi epigoni invece banalizzano lui e annoiano noi.
F MERLO