IN MEMORIA DI LUI: LA CELEBRAZIONE EUCARISTICA COME IMPEGNO A CONTINUARE LA MISSIONE DI GESÙ
ADISTA n° 36 - 13.5.2006
DOC-1736. MONTRÉAL-ADISTA. "Si snatura il
rituale della Cena se non lo si lega alla persona, agli ideali, alle opzioni, in
breve alla vita di Gesù". Per cui "si dovrebbe parlare piuttosto di
memoriale dell'ultima cena", come luogo in cui si ridica "quello che
si vuol fare per continuare la sua missione", come "luogo di
impegno". Perché Gesù, quando condivise con i discepoli il pane e il
vino, simboli del suo corpo e del suo sangue, quando raccomandò loro di
ripetere in quel modo quel rito in sua memoria, non fece che chieder loro di
assumere e portare avanti la sua stessa opera, i suoi gesti di accoglienza, di
amore, di guarigione, la sua affermazione dell'uguaglianza di tutti gli uomini
davanti a Dio. "Se si crede che è così, le implicazioni sono grandi e
sono gravi". Sono flash di un'analisi di Odette Mainville, docente di
esegesi del Nuovo Testamento alla Facoltà di Teologia e di Scienze delle
Religioni dell'Università di Montréal, co-presidente del Réseau Culture et
Foi nel ‘97-'98, scritto poco prima della diffusione del documento che vieta
l'accesso al sacerdozio degli omosessuali.
Lo riproduciamo di seguito in una nostra traduzione dal francese.
L'EUCARESTIA, MEMORIALE
DELL'ULTIMA CENA DI GESÙ
di Odette Mainville
La prima volta che ho presentato le considerazioni alle quali
ero arrivata, nelle mie convinzioni personali, sulla santa cena, è stato nel
gennaio del 1995, in occasione di un ritiro in una comunità religiosa.
All'epoca c'erano reticenze enormi.
L'ultima volta che ho presentato questo stesso approccio, in Gaspesia (regione
del Canada, ndt), davanti ad una cinquantina di religiose, un mese e mezzo fa,
l'accoglienza è stata straordinaria. Dopo, abbiamo fatto insieme una
celebrazione di una ricchezza eccezionale.
Penso che siamo a questo punto. Abbiamo la teoria, bisogna passare all'azione:
introdurre pratiche nuove nei nostri ambienti.
Mi piace parlare di "memoriale" dell'ultima cena di Gesù. Parlo
sempre della santa cena in termini di memoriale. Ma per fare memoria di
qualcuno, bisogna conoscere questo qualcuno. Ora, si è celebrata la messa per
secoli senza troppo informarsi sul personaggio all'origine di questo avvenimento
(è straordinario come si possa compiere questo rituale facendo così poca
memoria di lui. Quando si tenta di rinnovare, di ringiovanire, di rigenerare
l'Eucarestia, si dovrebbe cominciare col fare evangelizzazione. Si dovrebbe
cominciare con il conoscere il personaggio Gesù).
Cosa ha portato Gesù a celebrare quella cena, in quella maniera, con i suoi
discepoli? In quel momento, ha inventato un rituale nuovo? E, se non ha voluto
inventare niente di nuovo, ha voluto conferire un valore nuovo ad un rituale
esistente? Visto che questo rituale ha attraversato due millenni di storia
(sotto diverse forme, è vero), qualcosa di importante deve essere accaduto se
l'avvenimento ha avuto un impatto tanto grande, e lo celebriamo ancora oggi.
Per cogliere bene i fondamenti del memoriale, bisogna dire che c'è stato
qualcosa prima; poi c'è stato il rituale (ci concentreremo su questo punto); e
c'è stato, poi, qualcosa che ha spinto quest'avvenimento nella storia.
Gesù prima della Cena
Si snatura il rituale della Cena se non lo si lega alla persona, agli ideali,
alle opzioni, in breve alla vita di Gesù.
Quando Gesù sale a Gerusalemme per celebrare la Pasqua, non lo fa per istituire
un rito nuovo, ma per celebrare la Pasqua con il suo gruppo di discepoli. Gesù
non è naïf, sa cosa l'aspetta, perché nel corso di tutta la sua missione, con
i suoi atteggiamenti, con le sue scelte, con i suoi ideali, ha contestato la
tradizione, la legge, le autorità religiose del tempo. Gerusalemme, sede del
Tempio, è la tappa ultima. Se Gesù vuol far passare il suo messaggio, deve
andare fino in fondo, al cuore della comunità giudaica.
Gesù ha contestato perché aveva un'immagine di Dio. Per essere fedele a questa
visione, portarla a termine, doveva entrare in opposizione con coloro che,
secondo lui, avevano sfigurato Dio.
Realizzare la visione di Dio sull'umanità
Come contesta Gesù? Mette in pratica in modo integrale quello che trova nella
Genesi: Dio ha creato l'uomo e la donna uguali, a sua immagine e somiglianza.
Aver questo in testa, ben scolpito, cambia la visione dell'umanità. La
promozione della dignità umana preoccupa Gesù costantemente. La sua visione di
Dio passa attraverso l'impegno verso la razza umana. Questo spiega la sua
condotta rispetto agli emarginati, ai dimenticati, alle donne. Si è presto
dimenticato che Gesù ha avuto donne fra i suoi discepoli; era radicalmente
innovatore in un'epoca in cui le donne si velavano per varcare la soglia di
casa. Gesù si siede a tavola con i peccatori, contro le prescrizioni religiose.
Entra in relazione con categorie di persone che sono rifiutate.
Di fronte al suo comportamento, le autorità finiscono col dirsi: quest'uomo non
può essere di Dio, perché tutto quello che fa è in opposizione alla nostra
legge e alle nostre tradizioni. Tuttavia, con le sue azioni, Gesù intende
restituire a Dio la sua vera immagine. I suoi discepoli sono un campionario di
quello che gli si può rimproverare. C'è fra di loro uno zelota (un rivoltoso),
un pubblicano (un ebreo che lavora per gli occupanti romani), persone
illetterate, ordinarie, senza formazione particolare, senza notorietà né
influenza.
Gesù mette anche in discussione tutta una serie di rituali, di leggi, di
istituzioni che non hanno più ragione di essere e non sono più significative.
Vuole ridare il vero posto al sabato (il sabato è per gli esseri umani, e non
gli esseri umani per il sabato), far saltare le prescrizioni alimentari che
alzano barricate tra gli esseri umani. Mette ordine fra un bel po' di cose.
Il colmo è il suo atteggiamento verso gli emarginati, gli stranieri. Arriva
fino a portare come esempio un Samaritano, quando i Samaritani sono maledetti,
disonorati, detestati dagli ebrei. Significa, questo, che
l'"ortodossia" consiste nel-l'agire bene.
Dunque, per Gesù, Dio dà priorità alla vita e a tutto ciò che la genera. Se
alcune situazioni avviliscono, distruggono la vita, facciamo quello che serve
per uscirne. Gesù ha costantemente cercato di realizzare le intenzioni di Dio
per gli esseri umani. È questa la forza motrice della sua missione. Con
manifestazioni d'amore, con gesti d'accoglienza, di difesa, con le guarigioni e
così via, egli mette risolutamente in pratica la visione antropologica della
Genesi: tutti uguali, tutti con gli stessi diritti. Egli ha ben compreso anche
l'insegnamento dei profeti: Isaia, Michea, Osea, cioè che Dio disdegna il culto
se non è preceduto da giustizia e da amore per il prossimo. Così, in Mt 25, si
è dalla parte giusta se ci si è occupati del prossimo e se si è praticata la
giustizia e la carità.
Questo solleva questioni in merito alla pratica cultuale. Non si tratta di
escluderla, ma essa non ha senso se non è preceduta da un vissuto che
corrisponde alle attese di Dio.
Gesù ha anche contestato il Tempio a causa degli scandali. Il Tempio non era
solamente un luogo di preghiere e di sacrifici. Era la sede del Governo, la
Banca centrale, le Finanze, la Corte… Ora, poco prima della Pasqua, Gesù
"fa pulizia" nel Tempio (gesto significativo, quale che sia la sua
portata reale).
A rischio della vita
Gesù non può continuare il suo cammino senza farsi condannare a morte, perché
in conflitto con autorità abituate a dirigere con la repressione e la
coercizione, a mantenere le persone nei ranghi. Gesù contesta la Legge. Non c'è
dicotomia tra legge civile e legge religiosa all'epoca; la Legge è dappertutto,
è il motore della vita del popolo. Gesù dice alle persone di alzare la testa,
di servirsi del loro giudizio. Niente è più pericoloso di un popolo che decide
di essere libero e di farsi carico del proprio destino.
Dunque, Gesù arriva a Gerusalemme per la cena di Pasqua con i suoi amici. Io
immagino che quella sera l'atmo-sfera fosse tesa e carica di emozioni.
Ricordatevi: Pietro, quando si trovano ancora in Galilea, lo tira per la manica
perché non vada a Gerusalemme. Sa qual è la sua reputazione. I discepoli sanno
bene che rischiano di farsi arrestare e forse condannare a morte. Gerusalemme,
in tempo di Pasqua, è gremita, i pellegrini vengono da tutto l'impero romano,
il rappresentante dell'imperatore è lì, ci sono milizie dappertutto. Basta una
scintilla per dar fuoco alle polveri. Gesù è sorvegliato e, quando si ritrova
con gli amici, sa che non andrà lontano.
È convinto che l'immagine di Dio sia proprio quella che ha presentato, ma la
sua vita sembra subire uno scacco, egli morirà. Che succede allora? Bene, si
discute molto l'idea della coscienza messianica ("Gesù sapeva
che…"). Per parte mia, penso che, se Gesù ha avuto una coscienza
profonda del "reale", è al termine della sua vita, quando tutto
sembra crollare, che egli è convinto di aver combattuto la buona battaglia.
Perché Gesù pone un ultimo atto di fede tentando di passare la fiaccola al suo
gruppo: persone che si è portato dietro - forse - un anno e mezzo, che ha
cercato di istruire, illetterati, probabilmente, undici su dodici, senza potere,
originari della Galilea (e marchiati per questo solo fatto), senza denaro, senza
influenza.
La fede e la fiducia che ripone in Dio chiedendo ai suoi discepoli di continuare
il cammino sono abbastanza straordinarie. E questo succede all'ultima cena.
L'ultima cena
Gesù si prepara a celebrare la cena pasquale con i suoi, dunque a ripetere un
rito che più conosciuto non si può fra gli ebrei dell'epoca, che ricorda loro
la liberazione dall'Egit-to. Ciò che rende la cena differente, quella sera, è
che Gesù sa che morirà e vuole assicurarsi che i discepoli porteranno avanti
l'opera sua.
Cosa vuol fare? Ve lo domando. Vuole che i discepoli lo adorino? No, questo non
è possibile. Cos'ha maggiormente a cuore nel momento in cui va a morire? Che i
discepoli si impegnino a proseguire. Non avrebbe pronunciato simili parole (le
parole sulle quali torneremo fra un istante) se non avesse saputo che la sua
fine era vicina. Perciò vuole portare i discepoli ad impegnarsi.
Le parole che Gesù sta per pronunciare si radicano nella più bella iconografia
semitica dell'epoca, l'iconografia semitica nella sua più nobile espressione.
Parlerà di corpo e di sangue.
Il corpo
Noi riconduciamo l'idea del corpo alla carne umana, alla carne che finisce col
decomporsi. Nel mondo semitico, la dicotomia fra corpo e anima non esiste. Il
corpo è l'essere umano in relazione. È l'entità personale che si distingue
dal-le altre. È un'entità autonoma, ma necessariamente di rela-zione, che fa
riferimento, sì, ai tratti fisici della persona, ma anche ai suoi tratti
psicologici, alla sua unità, alla sua intelligenza, ai suoi talenti, alle sue
qualità, ai suoi difetti, a tutto quello che è. In breve, al suo essere
integrale, nel quale, secondo la prospettiva semitica, Dio ha soffiato la vita.
Il mondo semitico crede che, quando Dio si riprende il suo soffio, la persona
muore.
Il corpo si costruisce sul filo dell'esistenza. Prendete il corpo di un bambino,
di un adolescente che si trasforma, di qualcuno che è nel fiore degli anni, di
una persona che arriva a sessant'anni, a ottanta, a novanta… Il corpo avvie-ne
sul filo delle scelte, delle riflessioni, delle frequentazioni, delle gioie,
delle pene, delle prove, delle lotte, delle prese di posizione, dei successi,
degli insuccessi. Alla mia età, il mio corpo è quello che le mie esperienze ne
hanno fatto, come esse l'hanno modellato. Al termine della vita, il corpo è il
potenziale iniziale arricchito dalla somma delle esperienze.
Questo è il mio corpo
Perciò, quando Gesù, prendendo il pane (il pane: non ci può essere un simbolo
più bello), dice ai suoi discepoli: "Questo è il mio corpo", credo
che egli lo usi in maniera simbolica. Secondo il teologo protestante Gordon Fee,
"ciò supera sia l'intenzione di Gesù e il quadro all'interno del quale
lui e i suoi discepoli si trovano, sia l'immaginare che una trasformazione
avvenga o sia destinata ad avvenire nel pane stesso nel momento in cui lui lo
offre". E il padre Boismard scrive (credo nel suo libro su Marco): "Il
pane non si è fisicamente trasformato nel corpo di Cristo, resta quello che è
sempre stato: pane". Si resta dunque sul piano del simbolo.
Allora, quando Gesù dice: "Ecco, questo pane è il mio corpo",
presenta quello che è. "Sono io, eccomi, quello che sono diventato nel
corso della mia vita e del mio impegno". Insisto sull'impegno e insisto su
quello che Gesù è stato. Egli dice: "Accettate di condividere questo
pane? Se sì, accettate di dare prolungamento alla mia persona, a ciò che mi ha
forgiato, le mie scelte, le mie opzioni, la mia missione. Abbiate cura di
portare avanti quello che ho iniziato a fare", e ciò, certamente, in un
eterno inizio. Penso sia questo quello che Gesù ha voluto dire ai suoi
discepoli, e non: "Ec-co, adoratemi, per favore". No. "Se
condividete tutto ciò, condividete il mio destino. Sottoscrivete quello che ho
difeso fin qui, l'immagine di Dio che ho presentato, il tipo di relazioni umane
che ho voluto stabilire tra noi". Sospetto che i discepoli, in quel
momento, non abbiano capito il dieci per cento di quello che hanno capito dopo.
Il sangue e il vino
Poi Gesù prende il calice di vino, lo benedice. Il padre di famiglia faceva
questi gesti quando presiedeva la cena pa-squale, e si fa ancora oggi nelle
famiglie. Per il popolo della Bibbia il sangue è la vita. Si crede che la vita
di ogni umano scorra nel suo sangue. È scritto letteralmente nel Levitico,
nell'Esodo. Si è talmente convinti che si finisce per affer-mare semplicemente
(Lv 17,11 e 17,14): la vita di ogni crea-tura è il suo sangue. Si credeva che
la vita scorresse attraver-so il sangue. Dunque, ogni vita è sacra. Non
stupisce che si interdica la consumazione del sangue, che è sacro.
Se il sangue è la vita, prendere il calice e dire "ecco, que-sto è il mio
sangue" non è una forma di cannibalismo. Si-gnifica: "È la mia vita.
Volete essere in comunione con la mia vita?".
C'è anche una piccola sfumatura corpo-sangue. Il corpo di Gesù è quello che
è diventato attraverso le sue lotte; la sua vita, ciò che egli è, ciò che
continuerà ad essere. E si co-nosce il simbolo della condivisione del calice.
Condividere lo stesso calice è condividere la stessa causa. "Volete
ali-mentarvi al mio corpo, volete condividere la mia causa? Sì? Ecco, bevete al
mio stesso calice" (cerchiamo di perdere di vista l'idea del sacrificio
sanguinoso per vedervi una fonte di vita. François Varone, in Ce Dieu aimer la
soufferance - Questo Dio che si presume ami la sofferenza - presenta la cosa in
modo meraviglioso).
"Questo è il mio sangue, alimentatevi alla mia vita". Ge-sù non
invita a mangiare la sua carne e a bere il suo sangue, ma a condividere il
genere di vita che ha vissuto, a prolun-gare la sua missione. Ma i discepoli
avevano talmente paura che, quando il pericolo si avvicina, spariscono, si
salvano. Ecco perché non credo che i discepoli abbiano interamente capito, in
quel momento, quello che Gesù domandava loro di fare.
Il dopo
Gesù dice nientemeno: "Farete questo in memoria di me. Ripeterete quello
che è successo qui".
Penso che non l'avrebbero fatto se non ci fosse stata resurrezione. Perché, al
primo gesto di minaccia, i discepoli scompaiono uno dopo l'altro e abbandonano
Gesù nella si-tuazione più terribile. Comprensibile. All'epoca, quando un
sedizioso veniva arrestato, era condannato a morte e con lui tutti quelli
sospettati di poter far rinascere il suo movimento. I discepoli sanno benissimo
che, se restano nei paraggi, la loro vita è in pericolo.
Però c'è la resurrezione. La morte di Gesù ha senso unicamente nella sua
resurrezione. Non si può separarle. Non è la morte che salva, è il mistero
pasquale che ci fa trovare la via della salvezza attraverso la morte e la
resurrezione.
Dio si riconosce in Gesù
Avviene la resurrezione. È il punto di partenza di una riflessione
straordinaria da parte di coloro che hanno seguito Gesù. Egli è morto, ci si
salva in Galilea, ci si salva la pelle. Sarebbe finito tutto lì e nessuno
avrebbe sentito parlare di Gesù entro qualche decennio se non ci fosse sta-to
questo atto di Dio in suo favore, ossia di restituirlo alla vita e farlo
apparire a coloro che l'avevano accompagnato.
La resurrezione è l'avvenimento scatenante, il punto di partenza di una domanda
straordinaria: perché, ma perché, Dio ha resuscitato Gesù? I discepoli si
riuniscono per riflettere sul senso della resurrezione e finiscono per
de-cifrare: Dio ha dato ragione a Gesù, Dio si riconosce in tutto quello che
egli ha fatto, in tutte le sue scelte, in tutto quello che ha voluto promuovere,
nel tipo di relazioni che ha avuto. Non c'è niente di scandaloso nel fatto che
si sia intrattenuto con donne, stranieri, pagani, peccatori. E se Dio ha dato
ragione a Gesù, non si può fare altro che camminare al seguito di Gesù per
far vivere le sue opzioni.
Il loro impegno si inscrive nel prolungamento di quello che egli ha provato a
dar loro. Ma che fare? Continuare ad obbedire alle autorità giudaiche vuol dire
non fare la volontà di Dio perché Dio, resuscitando Gesù, dice: "Mi
riconosco in lui, è come lui che voi dovete agire".
Fare memoria: fare avvenire
Quando i discepoli si riuniscono, si ricordano cosa significa fare memoria di
lui. Comprendono che non c'è occasione più bella di riprendere la fiaccola.
Come ricor-darsi di Gesù se non ricordando quell'ultima cena in cui ha diviso
il pane e detto "Sono io, è la mia persona", ha preso il vino e detto
"Questo è il mio sangue, è la mia vita"?
È il luogo di riunione per eccellenza, dove si ridice chi è stato Gesù, ed è
il luogo in cui si ridice quello che si vuol fa-re per continuare la sua
missione. Fare memoria non si riassume nel ricordare passivamente, è fare
avvenire ciò che sta dietro questa memoria. È far vivere. Il luogo del
memoriale diventa un luogo di impegno.
Agire ora
La parola Eucarestia per me non rappresenta questo, perché la parola Eucarestia
fa riferimento all'azione di grazia. Penso che si dovrebbe parlare piuttosto di
memoriale del-l'ultima cena di Gesù che diventa un luogo di impegno. Se si
crede che è così, le implicazioni sono grandi, e sono gravi.
Ce la caviamo con poco se ci trinceriamo dietro l'adora-zione: adorare si può
fare in meno di un'ora e si è a posto fino alla settimana successiva, non è un
grande impegno. Ma, se ogni volta che si condivide il pane e il vino, si
ri-pensa: sì, cos'è che ha voluto e come posso assumere i suoi impegni nel mio
piccolo ambiente, nel mio entourage, nella mia vita professionale, nella mia
vita familiare, nella mia vita nazionale, questo è più esigente.
La domanda che preoccupa di più le comunità cristiane è quella sul sacerdozio
(delle donne, degli uomini sposati). Che si stia ora anche per bloccare
l'accesso degli omosessuali al sacerdozio è aberrante. Ma se si torna
all'origine, se si ritorna alla natura di quella che è stata l'ultima cena di
Gesù, queste questioni sono sistemate, non hanno più senso.
Sicuro, non importa chi può presiedere, come possono svolgersi le celebrazioni.
C'è la questione dei ministeri, ci credo, la questione dei carismi, ci credo.
Non ci si improv-visa presidente d'assemblea. Ma chi può impedirlo ad un uomo o
ad una donna di buona fede, che ha il carisma per farlo? Chi può impedirlo a me
se, al cuore del mio impegno, ho il gusto di riunirmi con persone di una comunità
e fare memoria dell'ultima cena di Cristo perché voglio ricordarmi esattamente
quello che ha fatto e alimentare, rigenerare i miei impegni: chi me lo può
impedire? Chi dice che sia necessaria una persona specializzata o ordinata per
farlo?
È stato così nel corso dei secoli, ma noi siamo giunti ad un'altra tappa. Non
è più l'ora di chiedersi se lo si deve fare. Se si vuole una comunità, se si
vuole continuare la missione di Gesù fra di noi, beh, bisogna prendere delle
iniziative. Bisogna fare quello che si deve fare.