La cura del morire
Giovanni Franzoni
Confronti - novembre 2006
Sta
per accendersi in Italia un nuovo scontro ideologico e politico sul fronte della
bioetica: è possibile - e soprattutto lecito - regolamentare la terapia del
dolore e della morte, come in altri paesi, secondo le pratiche dell’eutanasia?
Già si profilano gli schieramenti e già appare l’uso e l’abuso di
nozioni e linguaggi più atti a creare uno scontro frontale che non ad
affrontare in modo chiaro il problema.
Credo
che sia inutile per i lettori di Confronti riprendere tutte le nozioni (per
esempio eutanasia/ac-canimento terapeutico, eutanasia attiva/eutanasia passiva,
testamento biologico e così via) di cui in queste settimane è stata piena
l’informazione. Penso che si possano dare per scontate.
È
invece probabilmente utile cercare delle distinzioni radicali utili a rimuovere
i preconcetti cultura-
li
che si oppongono alla chiarezza dell’impostazione per approdare ad una
corretta definizione ,
dell’eutanasia.
La
prima distinzione che sembra opportuna è quella fra la parola «morte» e la
parola «morire».
Il
buon vecchio Epicuro, tanto per fare un esempio, afferma che «unica è l’arte
di ben vivere e di ben morire». L’espressione è felice perchè evoca una
similitudine morfologica fra due nozioni di per se opposte: il vivere ed il
morire che si intrecciano in un unico continuum nel segmento di vita individuale
che ci è concesso. Il concetto di
morte, invece, è molto rigido e puntuale e si oppone radicalmente a quello di
vita fino a concepire la morte come la nemica della vita; il decesso si constata
quando la vita non c’è più.
I
medici, rivendicando nei loro doveri deontologici esclusivamente la cura della
vita e il raggiungi-
mento
della guarigione rispetto ad uno stato di malattia, in genere -lo abbiamo
constatato innumere-
voli
volte - quando dichiarano che non c’è più nulla da fare per guarire il
malato, lo abbandonano agli infermieri,
ai familiari e al prete. Quando tornano è
solo per constatare la morte ai fini legali. Se si invita un medico
a curare il morire si rischia di sentirsi
dire che questo non gli appartiene. Non sempre, naturalmente, ma
spesso.
Una
persona informata, sulle più elementari nozioni della psicologia del profondo,
anche senza essere
un «freudiano doc», sa benissimo che tutta la vita è
un conflitto fra «pulsioni di morte», sotto forma di
torpore, di rassegnazione, di pigrizia, di melanconia,
di fuga dalle responsabilità, di ansia per il futuro e
«forze vitali», sotto forma di eros, di fantasia, di apertura all’altro
e al nuovo, di fiducia verso le nuove generazioni. Quindi il vivere e il morire
si intrecciano in
un confronto drammatico ma affascinante.
Ero
giovanissimo seminarista quando, infrangendo un divieto, lessi una pagina di
Teilhard de Char-
din
in cui si parlava di «resistenza alla morte» ; per la mia spiritualità fu una
novità profonda comin-
ciare
a pensare alla vita come a un continuo opporsi alla passività fino al momento
della resa dell’abbandono confidente, concedendo all’ora del morire il
giusto spazio per la metamorfosi verso
una
vita altra.
Su
tutto mi sembrava dovessero vigilare e regnare in modo stabile, la coscienza e
la libertà.
Anche
il nodo fra eutanasia attiva e eutanasia passiva andrebbe sciolto domandandosi:
«chi è il
soggetto?».
Se il soggetto dell’eutanasia è esclusivamente il medico, non c’è
spazio per l’esercizio della coscienza e della libertà
del morente. Il medico resta quello che è sempre stato;
l’arbitro della vita.
Se il soggetto, invece, è il morente - sia direttamente, se ne è in grado, sia attraverso il testamento biologico e le garanzie sociali previste da una auspicata legge - allora il medico deve finalmente scendere dal trono autoritario da cui propina vita o morte e mettersi nell’umile veste di terapeuta sia del vivere che del morire.
È
quindi altamente positivo che la persona sia
informata sullo sviluppo possibile della sua esistenza e partecipi
in modo interattivo alle scelte che si faranno accettando o escludendo certi
interventi terapeutici. Non ha senso che sia una autorità esterna,
mossa da una sua ideologia, a stabilire quale terapia
la persona consideri cura e quale consideri invece accanimento
terapeutico.
In
una recente intervista, monsignor Sgreccia, portavoce del pensiero ufficiale
cattolico in materia di
bioetica, ha abbandonato il vecchio discorso del rispetto assoluto
della vita in tutte le sue forme perchè
sacra in quanto dono di Dio, per usare un concetto
più laico, già adottato da Emanuele Kant: «la vita
umana è un bene indisponibile». «Non ne può disporre nemmeno il
titolare, perchè non se l’è data da
solo».
Non è facile rispondere a questa obbiezione. Si intravede peraltro una risposta nel fatto che non è assolutamente chiaro il concetto di natura, come deus ex machina che stabilisce qual è il momento dell’assecondamento del morire invece di insistere in un trattamento artificiale. È evidente il rischio che dietro la parola natura si nasconda il caso, una diversa disponibilità di mezzi o addirittura un disegno politico.
Sempre
pescando fra i ricordi giovanili, Tacito negli Annales parla delle voci che
davano Augusto ora
per morto ora per morente, finchè una mattina tutta
Roma seppe che «Augustum mortuum esse, Tiberium
Romam tenere» («Augusto era morto e Tiberio teneva saldamente
Roma» ) .
Non
so se sia stata la natura, la volontà degli dei o
l’arte medica ma è certo che i poteri alti non amano
il vuoto.
Così,
in assenza di altre certezze, mi sembra importante attenersi a quanto scrive
Erich Neumann
nella Storia delle origini della coscienza: «Più la
coscienza è forte, più è capace di un’azione autonoma; più è
debole e più le cose, semplicemente, capitano». Oppure, ripensando alla cinica
testimonianza
di Tacito, vengono pilotate in modo eteronomo.
È bene che la legge favorisca la maturazione delle
coscienze forti e che tutti siano aiutati a vivere consapevolmente il loro
morire.
Concludendo, definirei l’eutanasia come una pratica terapeutica nella quale si dosano gli interventi come le omissioni, a seconda della volontà chiaramente espressa del soggetto curato, privilegiando o il prolungamento della vita a tutti i costi e quindi la quantità della vita o lassecondamento del morire per consentirne la qualità.