"GESU' IL FIGLIO" ( Mt 11, 25-27)
Ortensio da Spinetoli
da Tempi di Fraternità
Allora Gesù disse: "Ti ringrazio, Padre,
Signore del cielo e della terra.
Ti ringrazio perché hai nascosto queste cose ai grandi e ai sapienti
e le hai fatte conoscere ai piccoli.
Sì, Padre, così tu hai voluto".
E disse ancora: "Il Padre ha messo tutto nelle mie mani. Nessuno conosce il Figlio, se non il Padre. Nessuno conosce il Padre, se non il Figlio e quelli ai quali il Figlio lo fa conoscere" (Mt 11, 25-27)
Il testo 11, 25-27 sembra una perla nel vangelo di Matteo o come è detto il più delle volte un riflesso inaspettato del quarto vangelo; per questo spesso nei manuali si parla di "comma giovanneo".
La sua provenienza è certamente problematica, poiché si ritrova solo in Luca (10, 21-22) che lo deriva facilmente da Mt (in Mc manca) e può avere un'origine indipendentemente dalla tradizione sinottica. Ma è una questione tutto sommato secondaria. Attualmente il testo fa parte del "primo" vangelo e segna una pausa di riflessione nell’evolversi della missione di Gesù. Il Cristo ha intrapreso felicemente il suo cammino profetico (4, 23). Al termine del Discorso della montagna un'ondata di entusiasmo sembra avvolgere la sua persona (7, 28-29) e una serie di operazioni prodigiose (capp.8-9) suggella la sua prima manifestazione. Gesù passa predicando e facendo del bene, si può dire sin d'ora, a tutti (cfr. 9,35. At 10,38). Pensando al futuro investe i più stretti seguaci del suo mandato (10,1-11,1 ). Tutto fa sperare in un definitivo successo, se non in un immediato trionfo. Ma questo non viene. Anzi arrivano le incomprensioni degli amici (la richiesta di chiarificazione da parte di Giovanni: 11, 2-3 e l’ostilità aperta delle classi influenti, i farisei che "tengono consiglio contro di lui sul modo di farlo morire" (12 14). L'invettiva contro le città del lago conferma il grado di tensioni in cui si era già arrivati (11, 20-24). È la premessa della sconfitta finale che d'altronde l'evangelista già conosce e ne vuole anticipare la notizia per mettere in guardia il lettore da eventuali delusioni come la teofania del battesimo (3, 10-11) e il quadro della trasfigurazione (17, 1-9), vogliono essere un preludio al suo successo finale.
1. Il beneplacito del Padre
Questo inno di giubilo in cui Gesù esce improvvisamente è come un anticipo dell’alleluia pasquale. La dichiarazione sembra parallela a quella che fa sul monte dell'ascensione a proposito dei poteri ricevuti, anche qui, dal Padre ( Mt 28 ,18).
Lo scandalo o lo smacco che la chiesa nascente ha dovuto fronteggiare è il fallimento della missione di Gesù davanti ai membri più qualificati della sua nazione, le persone e le categorie meglio al corrente del senso delle Scritture e le più rappresentative per la loro alta spiritualità. Si era verificato un paradosso di per sé indecifrabile: gli animi più elevati, le menti colte, gli spiritualisti, giusti, i santi i più vicini a Dio non si erano trovati d'accordo con la predicazione e le rivendicazioni di Gesù, mentre i popolani, la gente della terra, gli operai, i barcaioli e i pescatori, qualche prostituta, tutta gente ignorante, peccatrice da capo a fondo (Gv 9, 34) l’avevano accolto con entusiasmo: "Beato il ventre che ti ha portato e il seno che ti ha allattato" grida una donna da mezzo alla folla (Lc 11, 27).
La storia evangelica dimostrava che Gesù, il profeta per eccellenza, l'inviato stesso di Dio aveva fatto fortuna con gli umili, gli analfabeti, i poveri. Non era una constatazione da cui trar vanto, non era un onore come non lo sarà la sua fine sul patibolo, la condanna che si dava a quanti erano maledetti da Dio (Dt 21 , 23) .Tutto questo insuccesso, anzi infamia non poteva essere cancellata ma bisognava dargli una spiegazione adeguata in modo da evitare delusioni e sorprese negli ascoltatori del vangelo, giudei e gentili. L'apologetica trovava così aiuto dalla teologia. E questa pone all'origine di tutto ciò che è accaduto nella vita di Cristo, nella storia evangelica, una superiore, indiscutibile decisione divina; la volontà del Padre. Anzi la stessa morte di croce, la consegna cioè di Gesù ai manigoldi, è stata decisa ed eseguita da lui (Mt 26, 2), risponde cioè a1 suo beneplacito, al quale Gesù non solo non può sottrarsi ( 26, 39), ma è felice di potervi sottostare. Non si tratta pertanto di macchinazioni di malvagi, ma di attuazioni di un disegno di salvezza.
L' autore di Mt 11, 25-27 attinge dalla stessa visione teologica. Il credente invece di smarrirsi davanti alla croce di Cristo deve trarvi motivo di esultanza perché non si trova davanti a un destino cieco, ma a un decreto che per di più (un altro aspetto del paradosso) Dio fa conoscere ad alcuni e tiene nascosto ad altri. I "synetoi" (i dotti) sono gli studiosi, i maestri della Scritture; i "sophoi" (i saggi) sono quelli che sanno discutere sulle verità divine; in altre parole i teologi, i dottori della legge (i "nomikoi" o i "grammatheis"), sul tipo di Saulo (Fil 3,6) o di altri al di sotto di lui.
Ma il chiamare in causa Dio per spiegare le involuzioni della storia umana e quindi della salvezza è proprio della mentalità semitica.
Sempre su questa linea. Matteo avrà il coraggio di far dire a Gesù che preferisce parlare in parabole perché alcuni degli uditori capiscano (i discepoli) il suo insegnamento e ad altri (i nemici) rimanga nascosto (13,11). E aggiunge: "A chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo in parabole perché vedendo non vedano e udendo non intendano" (13, 11-12). Il testo di Mt poggia sullo stesso postulato teologico soggettivo, ambiguo, si può aggiungere assurdo di Mt 11, 25-26. La fiducia in Dio può aiutare a superare prove e contraddizioni ma non è la stessa cosa dire che queste sono programmate dal Signore per far mostra del suo potere quando libera chi ne è afflitto (cfr. Gv 9, 7) . Se Gesù è stato accolto dai semplici e umili galilei e rifiutato dai grandi maestri gerosolimitani non è dipeso da superiori decisioni, ma dal differente loro atteggiamento nei suoi riguardi. L'uomo è artefice della sua buona o cattiva sorte, nonostante che Dio desideri e cerchi per tutti la migliore realizzazione.
2. Il plenipotenziario divino
L'esperienza di Gesù è caratterizzata dalla "kenosis" e "tapeinosis" (cfr. .Fil 2, 5-7). Quasi in appendice al testo in questione Gesù lo ribadisce in Mt 1l, 29: "Imparate da me che sono mite ("prays") e umile" ("tapeinos"). La sua esistenza storica non rivela una condizione umana gloriosa, ma comune. Il Battista manda a chiedergli se è proprio "Colui che deve venire", poiché di fatto non sembrava (Mt 11, 2-3).
Il cammino che egli percorre non abbaglia e non confonde nessuno, tanto è inappariscente. Matteo per descriverlo si richiama a Isaia 42, 1-4: "Non grida sulle piazze, non spezza la canna incrinata, non spegne il lucignolo fumigante" (12, 19-20 ).
La storia non si poteva cambiare, ma poteva essere illuminata riportando l'esperienza di Gesù alla sua radice, al suo punto di partenza e soprattutto guardando al suo momento conclusivo (risurrezione).
Il "tutto"(panta) è generico per questo ha una più ampia portata; abbraccia sia la persona che la missione di Gesù, ciò che ha fatto e ciò che ha detto, ma occorre aggiungere la sua fase storica e più ancora quella metastorica che metterà veramente in chiaro chi egli sia. Solo la risurrezione infatti, ma in chiave di un annunzio (di fede) e non come riferimento storico, segnalerà quale reale potenza Gesù ha conseguito. "Mi è stato dato" significa che prima non l’aveva (cfr. Mt 28, 18). In questa seconda inesplorabile fase della sua esistenza, dove beneficerà di una comunione di vita con Dio, rivelerà, perché ne sia realmente investito, la pienezza dei suoi poteri (salvifici). "Fu costituito figlio di Dio potente, afferma l’apostolo, secondo lo spirito di santificazione, dal giorno della sua resurrezione" (Rm 1, 4). È quanto riferisce analogamente Mt 11, 27 presentando la condizione del Cristo glorioso con le categorie contrapposte a quelle dell’esistenza storica. Se quest’ultima è segnata dall’umiltà, la seconda è costituita nella potenza, come l’inno della Lettera ai Filippesi oppone l’esaltazione e la glorificazione alla kenosis e alla tapeinosis (2, 5-11).
L’evangelista non fa che reclamare ancora una volta l’origine divina della missione di <Gesù e della proposta evangelica. Nonostante la sua ignominiosa fine egli è il plenipotenziario dell’altissimo, ciò che ha insegnato non è un prodotto della sua intelligenza o meno ancora fantasia, ma un dono del Signore per sé e per i fratelli. Questa dignità, potestà, incombenza che nella sua esperienza terrestre non ha potuto risplendere, brilla ora con tutto il suo fulgore dal momento della risurrezione (Mt 28, 18).
3. "Nessuno conosce il Padre" (v. 27).
L’affermazione è servita, fin dalle origini della riflessione cristologica all’interno della comunità ecclesiale ad avallare un’identità, persino una consustanzialità tra Gesù e Dio, ma forse il testo è estraneo a tale conclusione.
La "conoscenza" nella Bibbia non ha tanto una portata filosofica o teorica quanto pratica. Conoscere è percepire, sentire, sperimentare. Segna il riferimento, il rapporto con una persona. La "conoscenza" di una donna equivale ad un rapporto intimo con lei. Conoscere è stabilire una relazione amichevole, confidenziale, filiale. È appunto ciò che Gesù rivendica nei confronti di Dio. Egli conosce il Padre non perché ha esplorato la sua natura intima ma perché è al corrente delle sue operazioni salutari.
Il vangelo non è un testo di filosofia o di teologia, ma un messaggio di salvezza che ha la sua origine in Dio. Solo lui perciò ne conosce la portata, l’estensione ed è in grado di manifestarla ad altri.
Gesù dal suo canto rivela un’esclusiva conoscenza del Padre perché è il solo ad essere al corrente del suo piano di salvezza e del percorso che occorre compiere per inserirvisi. E al conoscenza del Padre nei confronti del figlio è unica e appunto perché nessuno al di fuori di lui conosce la sua identità e la missione che gli ha assegnato. In altre parole nessuno può conoscere il progetto più di Dio e di Gesù Cristo perché l’uno l’ha ideato e l’altro è chiamato ad attuarlo e di fatto con grande personale discapito sta realizzandolo.
L’amore, la benevolenza, l’intesa tra padre e figlio è la più profonda che sulla terra si possa immaginare. Gesù la prende come modello dei suoi rapporti, soprattutto è autentico, quindi garantisce tutta la sua predicazione, anche se rigettata dalle persone più qualificate di Israele. Egli ha dalla sua parte un’autorità più grande della loro.
4. "Ha voluto rivelare" (v. 27)
Il verbo conclusivo dell’inno spiega il suo intento ultimo che non è teorico o teologico ma pastorale e apologetico.
Il richiamo alla condizione gloriosa di Gesù ("Tutto mi è stato dato"), alla sua comunione con dio ("conoscenza") ha lo scopo di far comprendere e accettare la sua persona e più ancora la sua testimonianza ("rivelare").
La predicazione di Cristo ha manifestato agli uomini i segreti di Dio (Mt 13, 11). E poteva adeguatamente farlo perché comunica misticamente con lui. "È uscito dal ‘suo seno’", afferma in tal senso Giovanni (1, 18).
Il dono del Padre ("pardothe") al figlio non è tanto per un suo personale arricchimento o potenziamento che lo innalzi al di sopra dei propri simili, ma è in funzione della sua missione. Il verbo "apokalypto" indica appunto manifestazione di verità nascoste che il profeta può svelare perché gli sono segnalate da Dio.
Il verbo "rivelare" condiziona il tutto che Gesù ha ricevuto. Non è la totalità divina in assoluto, ma la totalità salutare, la totalità cioè del messaggio salvifico, il vangelo di cui gli uomini debbono venire a conoscenza per la loro realizzazione nel tempo e nell’eternità.
Il "tutto" che Gesù riceve, il tutto che conosce è il tanto che gli uomini possono, debbono sapere della volontà ultima di Dio. Gesù va alla fonte della sua missione, quindi delle sue informazioni, ma né il mandato, né i contenuti con cui lo riempie si equiparano alla sorgente da cui parte, bensì si commisura con i destinatari a cui è rivolto (rivelare).
All’apice della predicazione di Gesù c’è Dio. È quanto debbono sapere i suoi amici e nemici.
La frase "ha voluto" sembra che Gesù faccia una distinzione autonoma se non proprio arbitraria della parola o proposta divina, ma è solo un’impressione soggettiva. È sempre lo stesso genere di linguaggio semitico che attribuisce a Dio o al suo inviato (come nelle motivazioni del discorso parabolico) tattiche di comportamento, persino punitive, proprie dei signori terreni.
Gesù ha consegnato a tutti il messaggio; l’ha lasciato cadere sul terreno buono come su quello roccioso o sulle spine (Mt 13, 1-8). Tutto il contrario di quanto facevano i suoi avversari, i farisei che non comunicavano se non con gente della loro stessa condizione spirituale.
L’autore biblico non ha paura di attribuire a Dio parzialità e persino ingiustizie; sta al lettore capirne la portata.