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DAL GESÙ DELLA STORIA AL CRISTO DELLA FEDE

Ortensio da Spinetoli

da Tempi di Fraternità

Gesù è nato e vissuto nell’alveo del giudaismo, ma se ne distacca radicalmente. Rompe con i riti, il culto, il tempione più ancora la teologia, l’ascesi giudaica. Sia farisaica che essena, ma in alcuni suoi discepoli, soprattutto quelli più qualificati e più intelligenti, passati nelle sua fila con il loro bagaglio culturale e ideologico, egli comincia a ricuperare quei tratti, quella dimensione spirituale da cui si era tenuto lontano e aveva per di più contestato.

Gesù è innanzi tutto un profeta, non un sacerdote. "Né di Levi né di Aronne", ma neanche di Melchisedek, nonostante l’opinione contraria dell’autore della lettera agli ebrei (1). Egli è originariamente un carpentiere, un comune operaio nazaretano, non un rabbi, né un dirigente della sinagoga che pur verosimilmente frequenta (2). Il suo sogno non è quello di aprire una scuola superiore, consegnare un corpo di "dottrine" irrefragabili che dovesse sostituire tutte le altre, ma segnalare un nuovo modo di convivere tra ebrei e pagani, samaritani e giudei, romani e greci, tutti componenti dell’unica famiglia dei figli di Dio (3).

Una rivoluzione che egli ha appena abbozzato e che non ha avuto il tempo di definire, mano ancora di attuare. La "buona notizia" (eu-anghelion) da portare agli uomini, soprattutto ai poveri, agli ammalati, agli oppressi era che il loro stato di infelicità e di subordinazione era finito. "Oggi" si è adempiuta questa profezia davanti ai vostri occhi, dichiara ai suoi concittadini commentando il testo di Is 61, 1-2 e proponendo il suo programma "messianico" (4).

I primi collaboratori che Cristo ha al suo fianco sono anch’essi operai, per lo più pescatori e inviandoli non impone loro le mani sul capo, né conferisce ad essi alcun potere (exousia) all’infuori di quello di annunziare il vangelo del regno e di guarire gli uomini dalle loro infermità (5). Un’opera innanzi tutto umanitaria.

La comunità cristiana non è né la sinagoga dei cirenensi, né degli alessandrini (6), ma la convocazione di un nuovo popolo in armonia con Dio e più ancora con se stesso. Le due cose sono inscindibili. Non si può essere seguace di Cristo se non si è "fratello" di chi soffre, è carcerato, ignudo affamato, assetato, straniero (7). Un abbraccio che non può fermarsi neanche davanti al "nemico", a colui che non saluta, non aiuta, arreca piuttosto disturbo, non ama. (cfr. Mt 5, 43-48).

La proposta di Gesù è lineare, ma immane, gigantesca; troppo grande per essere compresa dagli uomini che si sono messi al suo seguito e meno ancora dai dotti che verranno dopo, quali il rabbino Saulo o il "presbitero" Giovanni. Il Cristo dei vangeli o meglio del nuovo Testamento, glorioso, potente e trionfante, sembra aver perso i suoi umili connotati originari e per sopraggiunta anche il suo programma appare stemprato della sua carica iniziale dalle attenuanti e modifiche subite. I reali "poveri" sono diventati "i poveri di spirito", cioè gli umili, gli "affamati" sono quelli che attendono l’affermazione della "giustizia", cioè il rinnovamento dei rapporti con Dio (8), ma soprattutto viene mutato lo statuto giuridico di Gesù, stabilito il suo passaggio dalla classe operaia a quella sacerdotale (che l’aveva osteggiato e fatto crocifiggere" con una reinterpretazione culturale dei suoi grandi gesti profetici. Una modifica, si può dire senza esagerazione, disastrosa per il senso della sua vita e della sua missione nel piano di Dio e della salvezza (9).

L’esperienza di Gesù è riletta e riproposta alla luce di moduli culturali presenti nella Bibbia, nella tradizione giudaica, come nella religiosità di molti altri popoli: l’agnello pasquale, il "servo" sofferente, il capro espiatorio (10). La morte del profeta dissidente, ribelle diventa l’offerta, il sacrificio "richiesto" da Dio per sentirsi ripagato dai torti ricevuti dall’umanità (11). Gesù è in definitiva il dono che il padre ha fatto agli uomini e poi subito viene a riprendersi, dopo che ha dato prova davanti a lui di ubbidienza e sottomissione, per cancellare l’insubordinazione di Adamo e dei suoi discendenti.

Il messaggio di Gesù "Vi ho dato l’esempio, come ho fatto io fate anche voi" (Gv 13, 15) è stato sostituito da surrogati della teologia giudaica e più tardi del sacramentarismo cristiano. Il tempio è ricostruito, l’altare dei sacrifici ha ripreso il suo posto e l’accesso a Dio è demandato all’appropriazione dei "meriti" di Cristo. Gesù è "il primogenito dei fratelli" (Rm 8, 29), "ossa delle nostre ossa e carne della nostra carne" ( cfr. Gn 2, 23), diventa il salvatore e il mediatore universale (cfr. 1 Tm 2, 5) e i cristiani non hanno altro da fare che attingere attraverso la partecipazione liturgica, soprattutto nel "sacrificio della messa", dall’azione redentiva di Cristo. Percorso troppo comodo e appunto perciò poco affatto efficace (12). Il senso storico della morte di croce viene a perdersi nel nulla.

Il punto culminante della reinterpretazione del movimento cristiano è la sua istituzionalizzazione. Gesù aveva voluto che i suoi seguaci realizzassero una fraternità (Mt 23, 8), in cui né troni, né dominazioni spadroneggiassero sul popolo credente. Il suo comando che gli evangelisti riferiscono inequivocabilmente è perentorio: "Nel mondo quelli che comandano signoreggiano, ma tra voi non sia così. Il primo tra voi sia l’ultimo e colui che comanda serva" (13). E Giovanni che non riferisce i testi sul "servizio" ricorda la parabola della lavanda dei piedi (13, 1-15), il rito che inserito nello sfarzo delle celebrazioni della settimana santa, ha perso tutto il suo profondo significato. Dovrebbe invece essere ripetuto tutti i giorni, prima o al posto della cena.

Nonostante queste precise dichiarazioni di Gesù che non possono essere attribuite ai suoi discepoli perché fuori delle loro supposizioni, la comunità cristiana si organizza gerarchicamente appellandosi ai modelli circostanti, o a quello ellenistico (re o arconte, assemblea, popolo) o più verosimilmente a quello giudaico (sommo sacerdote, sinedrio, popolo). Potrebbe trattarsi di una legittima evoluzione, ma potrebbe anche essersi verificata una profonda involuzione.

Il Gesù della storia è stato sostituito da un riformatore religioso, anzi da un essere calato dal cielo ("Verbo incarnato") che fa la sua comparsa in mezzo agli uomini, riapre per tutti le porte del cielo e poi vi fa immediato ritorno. Tutto questo è teologismo, non la testimonianza di un vivente, ossia di un profeta scomodo che le autorità religiose e civili appena hanno conosciuto e appena hanno compreso i suoi progetti (libertà fraternità, eguaglianza) hanno subito giustiziato. E non per fare un favore a Dio, per prestare un attestato di sottomissione al suo assoluto dominio, bensì per leiminare un pericoloso sovvertitore dell’ordinamento ingiustamente costituito, ma di cui loro godevano i benefici. L’hanno ucciso per loro, per il loro tornaconto, per la sicurezza del loro potere.

L’originalità cristiana si poteva dire ormai perduta e la stessa immagine di Gesù assorbita dai canoni della spiritualità giudaica. Il vecchio culto non era stato abolito, ma riformato, ribadiva enfaticamente l’autore della Lettera agli ebrei (9, 10). Gesù aveva auspicato dalle contrade della Galilea un’inversione di marcia nella storia umana, ma il miracolo non si era verificato. I suoi seguaci hanno continuato a ripetere ciò che egli ha detto e fatto, più che a portare avanti il programma di liberazione che egli aveva avviato. "Completo nelle mie membra ciò che manca alla passione di Cristo", fa sapere l’autore delle Lettera ai colossesi (1, 24). Egli non pensa alla passione (thypsis) redentiva, ma alle sofferenze (thlopsis) apostoliche di Gesù, alle fatiche affrontate per instaurare il regno di Dio. Fatiche circoscritte al suo tempo e alla sua persona per questo incomplete. Bisogna che altri se ne accollino il peso, altrimenti al costruzione del regno si arresta. Dio è sempre all’opera, ma la costruzione avanza solo se l’uomo vi dà il proprio apporto. La volontà di Dio è da sempre e sempre in atto; è inutile invocarne il compimento (cfr. Mt 6, 10); quella che è sempre e da sempre carente è la volontà, il contributo decisivo e insostituibile dell’uomo. La salvezza può essere ritenuta un dono, ma perché destinata agli esseri ragionevoli non può non essere anche una onerosa conquista. È quanto Gesù ha fatto, detto, e additato di fare. Mettersi al suo seguito non significa riconoscere e rendere nota la sua testimonianza, ma cercare di farla propria e invitare a fare altrettanto. Egli è la "strada" per andare al Padre (Gv 14, 4), occorre ripercorrerla per arrivare a lui, lottando contro le ingiustizie (il peccato) e le iniquità, per instaurare un regime di fratellanza e di pace. Se è vero che molto è regalato dalla liberalità di Dio, è pur vero che molto è da compiere anche dall’uomo. L’imitazione di Cristo non è uno slogan pubblicitario, ma il programma fondamentale dell’etica evangelica. Non lo si può accantonare senza perdere il diritto di ritenersi e dichiararsi cristiani.

Il fermento portato da Gesù non è servito ad invertire il corso degli avvenimenti umani, piuttosto ha consacrato quello esistente: l’autorità viene da Dio, l’ubbidienza è una virtù anche se prestata malvolentieri (1 Pt 2, 18), l’umiltà l’atteggiamento più consono con la vocazione cristiana e la vita dedicata al Signore rimane al di sopra di quella spesa per generare figli.

La comunità cristiana ha saputo indire crociate contro gli "infedeli" e gli "eretici", ma non ha partecipato a nessuna lotta di liberazione, nemmeno a quella dall’ira e dal terrore di Dio; ha piuttosto inflitto gli accessi al mondo infernale e tenuta l’umanità sempre in ansia davanti alla salvezza eterna. La fine della schiavitù, del colonialismo, dello sfruttamento operaio, il riconoscimento dei diritti e della dignità della donna non è avvenuto in forza delle iniziative dei missionari cristiani, ma il più delle volte contro di essi (14).

Si può parlare di alienazione da Cristo e dal vangelo, da sempre, solo che a scusa di coloro che l’hanno provocata si può ripetere che anch’essi l’hanno fatto "per ignoranza" (cfr. At 3, 17), in "buona fede", credendo di aver capito meglio Cristo, ma ciò non cancella la deviazione avvenuta.

 

Note

1. L’autore della Lettera agli ebrei compie tutta una lunga argomentazione (cap. 5-7) per dimostrare che Gesù discendente della tribù di Giuda non può essere sacerdote secondo il vecchio "ordine" (taxis), ma in lui si è attuato un sacerdozio nuovo, quello ipotizzato nella figura di Melchisedeq (Gn 14, 15-24), ma si tratta di una sua ingegnosa esegesi più che di una vera profezia realizzata in Gesù Cristo. Cfr. Chiesa delle origini chiesa del futuro, Roma 1986, cap. IV ("Chiesa laicale"), soprattutto le pagine 110-118 "L’innovazione della Lettera agli ebrei".

2. Non è che un carpentiere non potesse essere un rabbi. Anzi molte volte era un vanto associare un mestiere al titolo accademico. Mas nei riguardi di Gesù è sul piano anagrafico che egli è un carpentiere. A Nazareth i suoi concittadini lo conoscono come "il carpentiere" (Mc 6, 3) o "il figlio del carpentiere" (Mt 13, 55).

3. I riferimenti di Gesù sono più ampi di quelli dei suoi connazionali. Esce più di una volta dalla terra d’Israele; verso la Decapoli (Mc 7, 31-37), Tiro e Sidone (Mc 3, 8; 7, 24), il paese dei Gdareni (Mt 8, 28), la Samaria (Mt 15, 21-22, Gv 4, 4). Parla con chiunque incontra nel suo cammino e distribuisce i suoi favori a chi ne ha bisogno, all’arcisinagogo (Mc 5, 22) come all’ufficiale romano (Gv 4, 46) o alla samaritana (Gv 4, 7).

4. La manifestazione nella sinagoga di Nazaret (lc 4, 14-30) ha come tema la rivendicazione da parte di Gesù dell’attuazione nella sua persona non del messianismo davidico ma della figura del liberatore escatologico inviato per la salvezza di tutti gli afflitti ed affranti (Is 61, 1-2).

5. Cfr. Mc 6, 7; Mt 10, 1,8; Lc 9, 1-7.

6. Cfr. At 6, 9. Si tratta di alcuni dei gruppi giudaici che discutevano con Stefano e si arrovellavano per non poter contraddire le sue argomentazioni. Qui sta per gente chiusa, settaria.

7. Cfr. Mt 25, 31-46: la celebre predica sulla carità cristiana incentrata sullo sfondo del giudizio supremo. La lettura abituale che mette al primo posto il tema del giudizio ne fa perdere l’angolatura e più ancora la portata pastorale. Cfr. Matteo. Il vangelo della Chiesa, Assisi 1994, pp. 667-678.

8. Cfr. Matteo, op. cit., pp. 133-138.

9. Cfr. Chiesa delle origini chiesa del futuro, cit., pp. 99-121.

10. Cfr. Es 12 (l’agnello pasquale), Lv 16 (il capro espiatorio), Is 53 (il servo sofferente).

11. Cfr. Itinerario spirituale di Cristo. Vol. III Il Salvatore, Assisi 19+74, pp. 77-108 (Interpretazione giudaica della salvezza cristiana).

12. Cfr. La conversione delle chiesa, Assisi 1974, cap. V (il posto discusso dei sacramenti).

13. Sono tre i testi fondamentali sul modo con cui Gesù intende che venisse "organizzata" la comunità. Se tutti i Sinottici li riportano vuol dire che si tratta di una proposta chiara del Salvatore.

14. Cfr. La conversione della chiesa, cit., cap. I (Il "Giubileo" che la comunità attende).