È UOMO DI PACE CHI AGISCE PER LA PACE. SENZA ARMI. ENRICO PEYRETTI RISPONDE AL CARDINAL MARTINO
DOC-1689. VITERBO-ADISTA. La pace evangelica non si esaurisce
nella tranquillità individuale, ma si declina in azione sociale, e questa si può
tradurre nella resistenza e nella lotta con i giusti mezzi, cioè nonviolente,
ma non giustifica affatto l'azione militare, il dare la morte per comando
politico.
Così Enrico Peyretti, uno dei maggiori rappresentanti della cultura della
nonviolenza, ribatte al testo del presidente del Pontificio Consiglio Giustizia
e Pace, card. Renato Raffaele Martino, su "La pace tra pacifici, pacifisti
e pacificatori", tratto dal suo libro "Pace e guerra" (Cantagalli,
2005); entrambi gli interventi pubblicati dal Foglio di approfondimento del
Centro di ricerca per la pace di Viterbo, "La nonviolenza è in
cammino", diretto da Peppe Sini (n. del 15/1; il testo del cardinale è
stato suddiviso in paragrafi dallo stesso Peyretti per articolare meglio il
relativo commento).
Se per il cardinale la pace è sostanzialmente "una qualità delle
persone", secondo Peyretti essa "è una qualità della relazione tra
le persone". "La beatitudine evangelica - spiega - non parla di
persone in pace, ma di coloro che fanno pace, operano per la pace, costruiscono
pace"; è "la pace delle giuste relazioni sociali, non principalmente
la tranquillità individuale (che, anzi, Gesù è venuto a turbare)".
E se Martino scrive che "nella Chiesa è sempre esistito un atteggiamento
decisivo e audace che punta esclusivamente all'utilizzo di forme di difesa non
violenta", Peyretti replica che "è vero che nella Chiesa ci sono
sempre state persone individualmente nonviolente, ma non è proprio vero che
nella Chiesa abbia avuto consistenza e riconoscimento la nonviolenza come forma
di difesa collettiva; normalmente l'istituzione ecclesiale, fino ad oggi,
assolve le coscienze che obbediscono all'autorità politica anche nel fare la
guerra e, fino al Concilio, condannava per superbia morale e presunzione chi
facesse obiezione di coscienza al dovere militare di uccidere".
Una delle ragioni per cui Martino difende i papi, e in particolare Giovanni
Paolo II, dalla qualifica di pacifisti, quasi fosse cosa di cui vergognarsi, sta
proprio nel fatto che "ha sempre reso onore a chi é morto per la patria,
cioè ai militari. Vale a dire: non ha messo in discussione la difesa
militare". Ma, obietta Peyretti, "che ne è del comandamento di ‘non
uccidere' in questa sbrigativa assoluzione, attribuita a papa Wojtyla,
dell'azione militare?
Osservazione che, più o meno negli stessi termini, Peyretti aveva rivolto di
recente anche a Benedetto XVI, commentando il suo Messaggio per la Giornata
della Pace del 1° gennaio 2006 (v. Adista n. 1/06). Ecco cosa scriveva Peyretti
riguardo al paragrafo 8 del messaggio papale: il papa cita "solamente le
presenze militari, che si pretendono pacifiche con le armi in mano, e spesso
anche le usano crudamente, come abbiamo saputo e visto e udito, anche da parte
dei militari italiani in Iraq (video di Rainews 24 sulla battaglia dei ponti a
Nassirya). (...) Possibile che il Papa non conosca i veri volontari di vera pace
- ecco la "verità della pace"! - molti dei quali sono cattolici, che
sono attivi, anche a rischio della vita, da alcuni di loro esposta e sacrificata
per amore delle vittime, dentro il fuoco della guerra? Possibile?! Male, se non
li conosce! Peggio, se ne tace! Male se sceglie consiglieri reticenti o
disinformati sulle cose più importanti! E invece ripete un elogio dei soldati,
e dei cappellani militari che non mettono in crisi ma confortano le loro
coscienze. Possibile che un papa debba sentirsi così legato dentro un sistema
così criticabile? Diplomazia o profezia è la sua vocazione?".
QUANTA INSISTENZA A
DENIGRARE IL PACIFISMO
di Enrico Peyretti
Un amico impegnato in un movimento cattolico per la pace mi
chiede un'opinione su una pagina del libro "Pace e guerra" del
presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, card. Renato Raffaele
Martino. Ho trascritto la pagina aggiungendovi la numerazione dei singoli
capoversi per semplificare i riferimenti. Farò alcune osservazioni che sono
correnti nella cultura di pace intesa come nonviolenza attiva.
***
È ben vero che la pace è una qualità delle persone (capoverso 1), ma non meno
è una qualità della relazione tra le persone. Ha radici interiori, ma fiorisce
nella relazione. Solo la pace interiore, la pace con se stessi, di chi non è
intimamente scisso, è una qualità tutta personale, sebbene anch'essa dipenda
non poco dalla qualità delle relazioni che si hanno o si sono avute con gli
altri, e si manifesti principalmente nella buona relazione con gli altri. La
beatitudine evangelica non parla di persone "in pace", ma di coloro
che "fanno pace", operano per la pace, costruiscono pace: "eirenepoioi"
(Matteo 5, 9). Riguarda direttamente la pace delle giuste relazioni sociali, non
principalmente la tranquillità individuale (che, anzi, Gesù è venuto a
turbare). L'odierna cultura di pace non è così ingenua e superficiale da
affidarsi solo agli strumenti giuridici e politici. Sa bene che la pace si
radica dentro la persona, nella educazione interiore, nella sanità psicologica,
nella comunicazione aperta e rispettosa. Per tutto questo, la pace va vista come
una realtà allo stesso tempo personale e sociale. Il rapporto tra le due
dimensioni mi sembra debba essere visto come circolare, senza un prima e un
dopo. Ognuno dei due momenti nasce dall'altro e produce l'altro.
***
"L'uomo di pace semina la pace attorno a sé" (capoverso 2): questo è
un fatto, ma non è tutta la verità. Una generosa ingenuità delle persone
buone fa loro pensare che basti essere buoni perché ci sia pace nelle
relazioni, nella società. Non basta. Persone buone in strutture cattive fanno
cose cattive. Un buon padrone di schiavi non odia e non maltratta i suoi
schiavi, ma, fin quando non li riconosce liberi come lui, mantiene la struttura
della schiavitù, che è in sé un rapporto ingiusto, diseguale, perciò una
struttura violenta. Quel padrone è buono, ma fa una cosa cattiva. Un buon
marito, ama e rispetta la moglie, ma, se la ritiene per natura e diritto
inferiore a sé, è un marito buono nelle azioni e violento nelle idee. Ma le
idee violente producono sempre, qua o là, fatti violenti. La violenza non e'
solo quella fisica, ma, più profondamente, quella strutturale e, ancor più,
quella culturale. Vedere la radice culturale (mentale, interiore) della
violenza, non permette di perdere di vista le concrezioni della violenza nelle
strutture sociali e tradizionali, che producono violenza oggettiva degli atti. E
viceversa: la bontà dei singoli atti e comportamenti, non deve far perdere di
vista la violenza consolidata in strutture e forme sociali ingiuste,
giustificate da idee ingiuste e violente. Bisogna che le persone spirituali,
preziose per la pace, si guardino dallo spiritualismo, che riduce la visione
intera della realtà. Lo spirito può essere forte, ma la carne - cioè le forme
sociali storiche - possono essere deboli, scarse di giustizia, ingiuste.
Altrimenti, ecco che i potenti violenti onorano i discorsi spirituali di pace
personale e privata e continuano nella loro violenza pubblica.
***
Del pacifismo, l'Autore di questa pagina parla soprattutto con sospetto
(capoverso 3): può degenerare, tradire lo scopo della pace, diventare una
ideologia, voler vincere, farsi un potere violento. Eh! Sembra più pericoloso
della guerra! È utile il pacifismo, dice Martino, diffonde passione per la pace
e educa alla pace, ma deve essere sempre "emendato", cioè ricondotto
alla pace interiore. Ora, se un pacifismo è coerente, se cioè non condanna
solo alcune guerre, ma tutte, è buona cosa. Sarà meno credibile se non è
un'azione di persone giuste, e tuttavia chiede alla politica una cosa giusta. Il
suo limite è di essere unicamente contro la guerra, che è solamente la forma
più grossolana e vistosa di violenza, ma non la più profonda e grave. Perciò
la nonviolenza vale più del pacifismo, perché lo include ma lotta soprattutto
contro le più profonde violenze, strutturali e culturali, coi mezzi forti
dell'umanità e della verità.
***
"Testimone profetico della pace" (capoverso 4) è il termine con cui
questo testo chiama, senza nominarli, i nonviolenti (citando il Concilio,
Gaudium et Spes 78). Sembra però che la loro ispirazione sia soltanto religiosa
cristiana, il che non è giusto, perché ci sono molti nonviolenti di altre
religioni, o senza religione, ma con forte sensibilità umana. Scrive Martino
che "nella Chiesa è sempre esistito un atteggiamento decisivo e audace che
punta esclusivamente all'utilizzo di forme di difesa non violenta".
Due osservazioni doverose: scrivendo "non violenta" in due parole
staccate, l'idea che si esprime è negativa: difesa senza uso di mezzi violenti.
Ma la "nonviolenza" - che, per questa ragione, si scrive ormai
correntemente negli studi specifici in parola unica - è idea e pratica
positiva: dice la resistenza e la lotta giusta con mezzi giusti (le molte
tecniche e le regole morali dell'azione nonviolenta), più profondamente forti
ed efficaci della violenza che vuole difendere alcuni con l'offendere e
l'uccidere altri.
Seconda osservazione: è vero che nella Chiesa ci sono sempre state persone
individualmente nonviolente, ma non è proprio vero che nella Chiesa abbia avuto
consistenza e riconoscimento la nonviolenza come forma di difesa collettiva;
normalmente l'istituzione ecclesiale, fino ad oggi, assolve le coscienze che
obbediscono all'autorità politica anche nel fare la guerra e, fino al Concilio,
condannava per superbia morale e presunzione chi facesse obiezione di coscienza
al dovere militare di uccidere. La dottrina morale ufficiale non condannava né
criticava le teorie e le pratiche politiche che con tutta facilità
giustificavano le guerre. L'autorità religiosa si è per lo più dimostrata più
delicata coi potenti che con le coscienze dei "testimoni profetici della
pace". Molti di questi testimoni sono stati lasciati soli o, peggio,
condannati. Oggi l'autorità ecclesiastica esorta i potenti a non fare la
guerra, ma non accompagna le coscienze pacifiche ad opporre disobbedienza civile
ai comandi di guerra. È vero o non è vero? Questo non si può negare per amor
di Chiesa.
***
Nella giusta rivendicazione dell'azione degli ultimi papi per la pace (capoverso
5; ma si doveva cominciare da Giovanni XXIII), la prima strana preoccupazione di
Martino è difendere i papi - specialmente Giovanni Paolo II - dalla qualifica
di "pacifisti", per tre ragioni (proposte da Andrea Riccardi).
La prima è questa: ha sempre reso onore a chi è morto per la patria, cioè ai
militari. Vale a dire: non ha messo in discussione la difesa militare. Chi muore
militare, muore dopo aver ucciso, o perché non è riuscito ad uccidere. Senza
mancare di pietà, e senza giudicare le coscienze, bisogna pure, nella ricerca
della pace, giudicare l'uso del dare la morte per comando politico. Che ne è
del comandamento di "non uccidere" in questa sbrigativa assoluzione,
attribuita a papa Wojtyla, dell'azione militare, per timore di vederlo
accomunato ai "pacifisti", cioè appunto a coloro che, credenti o non
credenti in Dio, in nome del "non uccidere", vogliono che anche nelle
contese politiche si obbedisca a questa sua parola?
La seconda ragione per cui il papa non è pacifista, secondo Riccardi e Martino,
è che non ha mai condannato "a senso unico" le guerre, come se tutti
i pacifisti, per definizione, condannassero alcune guerre e non altre, a loro
comodo. Questo discorso non è giusto né corretto.
La terza ragione è che quel papa, tra i primi, ha ipotizzato nel 2000 forme di
intervento umanitario e di interposizione. Si può dire questo solo ignorando, o
volendo ignorare, per dare lustro indebito al papa, che tali azioni sono ben
precedenti, per iniziative dal basso del popolo della pace. Papa Wojtyla ha veri
meriti nella ricerca della pace e non merita che gli si attribuiscano primati
non suoi.
Ma c'è una quarta ragione (ripresa dal capoverso 3): il pacifismo è
soprattutto una cosa brutta, perché non ha la "sapienza del realismo
cristiano", e perché è volontà di imporre la pace (che sarebbe, ohibò,
impedire al proprio governo di fare la guerra), invece di attenderla come dono
di Dio e lasciarsene conquistare nell'intimo. Così siamo di nuovo allo
spiritualismo iniziale, riduzione unilaterale della spiritualità pacifica
staccata dall'azione civile e politica, che ne è il sano frutto.
***
Siamo, così, alla figura del "pacificatore" (capoverso 6), o
"operatore di pace": è colui che agisce in modo concreto e realistico
nei conflitti storici portando parole, atteggiamenti e soluzioni di pace.
Confrontata col pacifismo, mosso spesso da "ideologia" e
"progetto politico" (è forse un male?), l'azione pacificatrice è
invece mossa dall'amore (perché, nel pacifismo non c'è amore?). Questa
insistenza stucchevole a denigrare il pacifismo (i nonviolenti ne criticano i
limiti, ma non lo disprezzano) e a prenderne accuratamente le distanze,
costringe a sospettare che il diplomatico ecclesiastico si preoccupi di non
trovarsi tra i critici dei governi dalle politiche bellicose. Aggiungo: stiamo
attenti almeno al linguaggio: il titolo di "pacificatore" spesso è
stato fatto proprio da azioni militari che hanno violentemente represso moti
popolari anche giusti.
"Pacificazione" è nella storia per lo più il nome dato alla
conquista, e dunque quella "imposizione di pace" che Martino
attribuisce invece stranamente al pacifismo. Ricordiamo tutti Tacito: "Dove
fanno un deserto lo chiamano pace" (De vita et moribus Julii Agricolae,
cap. 30). E ricordiamo "L'ordine regna a Varsavia", detto alla Camera
dal ministro degli esteri francese dopo la durissima repressione russa, nel
settembre 1831. Anche la guerra statunitense in Vietnam ebbe il nome di
"pacificazione".
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L'Autore afferma semplicemente (capoverso 7) "il primato della pace intesa
come dono di Dio rispetto alla pace concepita come conquista dell'uomo" e
che "i primi pacificatori sono gli uomini di preghiera". La prima
cosa, io dico che si può pensare anche della salute fisica, ma non per questo
vedo meno necessaria la nostra cura attiva della salute. Dio ha messo il mondo
nella nostre mani, affidato alla nostra responsabilità: mentre crediamo e
invochiamo il suo aiuto interiore, dobbiamo gestire il mondo come se dipendesse
esclusivamente da noi. Io credo davvero nell'efficacia storica della preghiera,
che dà forza spirituale all'azione, eppure quando la preghiera è - come è
spesso - restituire a Dio il compito che egli ha dato a noi, allora non è con
questa preghiera che si opera per la pace. La Chiesa cattolica ha colpe storiche
e meriti recenti riguardo alla pace. Farebbe bene, per giustizia, a non
rivendicare troppo e, sempre nella forma propria delle sue funzioni e
competenze, ad affiancarsi, senza paternalismi né strumentalizzazioni, ma anche
senza ingiusti sospetti, al movimento mondiale per la pace, piuttosto che agli
Stati armati. Grazie a Dio, tanti cristiani sono dentro quel movimento, attivi e
pensanti, senza le preoccupazioni anguste delle diplomazie istituzionali.