UNA CHIESA NEL MONDO: FUORI DAL SACRO RECINTO, SULLA STRADA DEL VIANDANTE
DOC-1744. ROMA-ADISTA. L'avvio di un processo conciliare che
sfoci poi nella celebrazione di un vero e proprio Concilio della Chiesa
cattolica italiana. È quanto suggerisce la Comunità cristiana di base di san
Paolo in Roma in un suo contributo in vista del IV Convegno ecclesiale italiano
previsto a Verona dal 16 al 20 ottobre prossimo. Secondo la Comunità, infatti,
l'appuntamento veronese, per come è pensato e strutturato, appare inadeguato ad
assumere le necessarie conseguenze ecclesiali, pastorali e istituzionali della
proclamazione di fede "Cristo è risorto", ed incapace di tradurre in
concreto quella reale partecipazione di tutti e tutte alla vita della Chiesa,
così come pur aveva auspicato il Concilio Vaticano II. Perciò, afferma nel suo
documento la Comunità di san Paolo, sembra giunto il tempo di "voltare
pagina, finalmente, e volare alto". Appunto verso un inedito Concilio.
Il tema del IV Convegno ecclesiale - Testimoni di Cristo Risorto, speranza del
mondo - era stato approfondito in una "traccia di riflessione"
approntata dal Comitato preparatorio presieduto dal card. Dionigi Tettamanzi,
arcivescovo di Milano, e pubblicata il 29 aprile 2005. In essa si esprimeva la
speranza che, nel cammino verso Verona, "la riflessione coinvolga tutti e
in modo particolare i fedeli laici. Le associazioni, i movimenti laicali e le
aggregazioni ecclesiali tutte contribuiranno ad arricchire tale cammino
preparatorio, inserendosi nel percorso che i Vescovi proporranno".
Accogliendo tale invito, anche la Comunità di san Paolo ha elaborato un suo
articolato contributo, che pubblichiamo integralmente. Prima di essere diffuso
alla stampa, questo testo è stato consegnato al Vicariato di Roma. In relazione
alla Chiesa italiana, la stessa Comunità in passato aveva fatto un lavoro
analogo in preparazione del II Convegno ecclesiale (Loreto 1985); e, in
relazione alla Chiesa cattolica universale, in rapporto ad alcune Assemblee del
Sinodo dei vescovi, come quella del 2005 sul tema dell'Eucaristia (v. Adista n.
6 del 22 gennaio 2005).
SE UNA CHIESA TESTIMONIA LA RISURREZIONE DI GESÙ.
CONTRIBUTO DELLA COMUNITÀ CRISTIANA DI SAN PAOLO IN ROMA al percorso nazionale itinerante verso il IV Convegno ecclesiale italiano di Verona
Premessa: le motivazioni di una ricerca
Per la quarta volta in trent'anni – dopo quello di Roma del 1976, di Loreto
dell'‘85 e di Palermo del ‘95 – la Chiesa cattolica italiana si accinge a
celebrare a Verona (16-20 ottobre 2006) un Convegno ecclesiale nazionale, questa
volta sul tema Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. In vista di tale
importante appuntamento, la Conferenza episcopale italiana (Cei) ed il comitato
ad hoc dell'incontro veronese hanno invitato tutte le variegate strutture,
presenze ed esperienze ecclesiali cattoliche del nostro Paese ad offrire un loro
contributo per preparare al meglio l'evento, e favorire un dialogo che, noi
pensiamo, non potrà che essere aperto, intenso e costruttivo.
Accogliendo volentieri tale invito – e come, per analoghi appuntamenti, già
aveva fatto in passato – anche la nostra Comunità cristiana di base si è
interrogata sul tema proposto, riferendosi prima di tutto alle Sacre Scritture,
e poi esaminando la Traccia di riflessione in vista di Verona (pubblicata il 29
aprile 2005 dalla commissione preparatoria presieduta dal card. Dionigi
Tettamanzi, arc. di Milano), e anche ripensando alla propria stessa piccola
storia; ed ora offre alla più vasta comunità ecclesiale le sue riflessioni, i
suoi interrogativi e le sue proposte.
La nostra, ovviamente, non è, e non vuole essere, una trattazione sistematica
di tutti i complessi problemi biblici, storici e teologici legati alla
risurrezione di Cristo; e nemmeno una panoramica esauriente di tutte le
necessarie conseguenze ecclesiali, istituzionali e pastorali che dovrebbero
derivare dalla cruciale affermazione di fede Cristo è risorto, in verità è
risorto (il grido di gioia risuonato nelle scorse settimane in tutte le Chiese
d'Occidente e d'Oriente per annunciare la Santa Pasqua). Ci limitiamo,
brevemente, a:
1/ cercare di capire, nelle Scritture, quale sia il significato ultimo, e
fondamentale, della risurrezione di Gesù;
2/ evidenziare, di conseguenza, come le primitive comunità cristiane cercassero
di vivere, nella comunione e nella pace, il messaggio di Gesù, e come questo fu
poi compreso dalle Chiese;
3/ tratteggiare una descrizione della situazione odierna dell'Italia, perché è
a questo Paese, in rapida, complessa e assai problematica evoluzione, che
dobbiamo cercare di parlare, e in esso soprattutto testimoniare la nostra fede;
4/ indicare il luogo e lo strumento più adatto, secondo noi, ad adottare quelle
riforme che permetterebbero d'inverare, più incisivamente, nella concreta realtà
della Chiesa cattolica italiana, l'affermazione teoretica – dirimente ma,
spesso, rimasta astratta e sterile – della risurrezione di Gesù Messia.
Attraverso l'ufficio del Vicariato di Roma incaricato per la diocesi di
coordinare il lavoro preparatorio per il IV Convegno, confidiamo che anche la
nostra voce, tra le molte altre, giunga a Verona; ma, intanto, riteniamo utile
diffondere il nostro documento, al fine di contribuire, per quel poco che
possiamo, al dibattito che dovrebbe accompagnare l'imminente appuntamento della
Chiesa cattolica italiana.
I. Gesù risuscitato, l'ineffabile dono del Padre
1/ La risurrezione di Cristo sta al centro delle Scritture cristiane, e dunque
essa sta al centro della fede della Chiesa, di ogni Chiesa. È perciò
d'importanza decisiva cercare di rispondere alla domanda: ma che significa,
risurrezione? Sembra evidente – come ci avvertono molti esegeti (si vedano, ad
esempio, Giuseppe Barbaglio in Gesù, ebreo di Galilea, EDB, Bologna 2005, 2ª
ed.; e Hans Kessler ne La risurrezione di Gesù Cristo. Uno studio biblico,
teologico-fondamentale e sistematico, Queriniana, Brescia 1999) – che negli
evangeli i diversi racconti sulla risurrezione di Gesù, se presi alla lettera
quasi fossero bollettini di un'agenzia giornalistica, manifestano incoerenze,
lacune e contraddizioni. Ma, appunto, questi racconti non vanno presi alla
lettera: essi non sono cronaca ma, piuttosto, il tentativo delle prime comunità
cristiane (alcune formate da persone provenienti soprattutto dall'ebraismo,
altre da gente che veniva dalle religioni greco-romane), messo per iscritto
diversi decenni dopo la conclusione della vita terrena di Gesù, di riflettere
sulla Pasqua del Messia, e quindi di esprimere, attraverso anche immagini
mitiche, una affermazione capitale: nel piano amoroso di Dio l'ultima parola non
è della morte, ma della vita. Gesù è certamente morto, e morto sull'infamante
patibolo della croce. Ma nell'istante stesso della morte Egli è stato raccolto
dal Padre, in Lui vivendo, in Lui vivente.
2/ Che la morte non segni la definitiva distruzione di tutto, e che l'io
profondo di ogni persona in essa e con essa non si dissolva, non si disperda,
non si annulli, è qualcosa che non si può provare razionalmente, e che sfugge
totalmente a verifica esperienziale, o scientifica. La vita – imperitura,
gioiosa, traboccante, in Dio – oltre la vita terrena la si può ammettere solo
radicandosi nella roccia della fede, cioè della fiducia nella promessa
misericordiosa di questo straordinario dono divino.
3/ Maria Maddalena, gli apostoli, i primi discepoli e discepole hanno intuito
– alla luce della fede – che il patibolo sul quale il Maestro fu inchiodato
per ordine del procuratore romano (non a caso il Credo afferma in modo
scultoreo: Gesù Cristo "patì sotto Ponzio Pilato"), non era l'ultima
e definitiva tappa di un naufragio, e di un'enorme illusione. Al contrario, esso
era il velo che nascondeva il fatto, indicibile a parole, che l'amore di Dio è
più forte della morte. La risurrezione di Gesù sgorgava proprio – per la
potenza creatrice di Dio – dalla croce, là sulla croce.
4/ Per i primi discepoli e discepole, affermare – dopo la tremenda passione e
morte alle quali avevano assistito, in parte con sofferta, profonda,
indistruttibile solidarietà; in parte con dubbi, cedimenti, paure – che Gesù
è il Vivente non era facile: come trovare le parole per dire qualcosa che
scavalca l'esperienza e la ragione umana e attinge il mistero del Regno
ultramondano di Dio? I racconti evangelici – carichi del ripensamento
teologico delle prime, e variegate, comunità cristiane – evidenziano l'ansia
di raccontare quello che, essi ammettono indirettamente, non si può raccontare
con la desiderata chiarezza: un'esperienza di fede. Perciò la questione della
tomba vuota, per dire che Gesù è davvero risorto con il suo corpo; perciò
l'insistenza su quel sepolcro; perciò le descrizioni di pasti con il Gesù
post-pasquale, per dire "noi l'abbiamo davvero incontrato e toccato"
(ma – obiezione – si potrà mai mangiare con qualcuno che viene dal mondo
ultra-terreno?); perciò la vicenda dei due discepoli cui, mentre vanno ad
Emmaus, "Gesù in persona si accostò e camminava con loro" (Lc 24,
15), senza che essi minimamente sospettassero chi egli fosse, fino a che "i
loro occhi si aprirono, e lo riconobbero quando a tavola con loro prese il pane,
disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro"; perciò Maria Maddalena
(Gv c. 20), che prima ritiene Gesù il giardiniere, e poi lo riconosce come il
Signore.
5/ Il capitolo 20 di Giovanni – per fermarci solo a quest'ultima
"apparizione", ma analogo è il discorso su quella ai viandanti di
Emmaus – non è la narrazione di un'esperienza sensibile, di un incontro con
gli occhi del corpo; perciò non va letto come l'accurata descrizione di un
fatto di cronaca. Il Risuscitato, infatti, rifulge di luce ultramondana e
inesprimibile: quando mai Maria Maddalena sarebbe potuta cadere in un equivoco,
e confondere il Vivente con un comune mortale? Ma quelle che potrebbero
apparirci contraddizioni o debolezze del testo, in realtà derivano da una
nostra lettura superficiale di esso. Perché il racconto, proprio per come è
costruito, vuole farci intravedere qualche cosa di diverso da quello che emerge
a prima vista; e, cioè, ripeterci con immagini poetiche il leit-motiv
dominante: Gesù, dopo essere stato ucciso (come tutti avevano constatato), ora
vive di una nuova vita. Il Dio della vita così ha voluto per Lui, come ha
voluto e vuole per tutte e tutti i "giusti" venuti su questa terra
prima di Lui, e per quelle e quelli che verranno dopo di Lui, fino alla fine del
mondo. Ma questa volontà divina non è dimostrabile: perciò la risurrezione
non si può provare storicamente, mentre si può provare storicamente la fede
delle discepole e dei discepoli nella risurrezione di Gesù. Del resto, se Gesù
avesse voluto dimostrare al mondo la sua vittoria, non sarebbe allora apparso a
Pilato e a quanti avevano voluto la sua morte?
6/ Sì, non ci sono prove che Gesù sia stato risuscitato dal Padre, o che sia
risorto per virtù propria. Esattamente come non ci sono prove che Dio impedisce
che la morte fisica sia la totale, definitiva, irreparabile distruzione e
cancellazione di una persona. La verità stupefacente che Dio-amore è il Dio
della vita vittorioso anche sull'"ultimo nemico" (così l'apostolo
Paolo – I Cor 15, 26 – chiama la morte) non è scientificamente e
apoditticamente dimostrabile. È una verità di fede, una certezza che si può
assumere solo affidandosi totalmente alla Parola di Dio, superando i dubbi e le
esitazioni che una tale affermazione inaudita suscita in ognuno e ognuna di noi.
7/ Quanto siano impenetrabili le tenebre della morte, e dunque quanto sia del
tutto naturale e "normale", anche per un credente nel Dio di Gesù, la
paura di essa, ancora una volta ce l'insegna il Rabbi di Nazareth. Egli che,
sulla croce, si vede come dimenticato da quel Padre a cui sempre si era affidato
con immensa pietà filiale; e dunque, come vero uomo – come uno di noi –
geme in preda all'angoscia di fronte all'abisso incolmabile. Non resiste come un
eroe, sprezzante dei dolori lancinanti, sentendosi sicuro che di lì a pochi
minuti tutto sarebbe passato, e lui sarebbe andato felice e risuscitato nel
Regno del Padre. Non è uno stoico che ritiene la morte fine di tutto, e
traguardo di cui gli Dèi – anch'essi infine sottoposti al Fato immodificabile
– non rispondono. È un credente nel Dio della vita; perciò Gesù si domanda
sgomento come mai il Padre rimanga in silenzio di fronte alla sua implorazione e
alla sua morte imminente: "Eloì, Eloì, lemà sabactàni? – Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?". Così riporta Marco (15, 33) e,
analogamente, Matteo (27, 46; questi però usa le parole ebraiche, non l'aramaico):
per i due evangelisti queste sono le ultime parole pronunciate da Gesù. Invece
Luca (23, 46), non riporta l'invocazione drammatica di Gesù, e poi mette in
bocca al Maestro che sta per spirare un'altra parola conclusiva, ignorata dagli
altri due sinottici: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito".
Gesù si è fermato un istante prima di cadere nella disperazione, e con fede
suprema decide di abbandonarsi fiducioso ad un Dio che Egli chiama ancora Padre,
un Padre che però non scende a schiodarlo dalla croce.
8/ Si possono ben intuire le motivazioni delle prime comunità cristiane che si
sforzano di addurre prove inconfutabili per dimostrare che Gesù era stato
davvero risuscitato: il sepolcro è vuoto, gli angeli hanno sollevato una pietra
pesantissima che sigillava la tomba, Lui ha mangiato con noi, noi l'abbiamo
toccato… Era il tentativo, apologetico, di convincere la gente della verità
della risurrezione. Tentativi a volte coronati da successo ma, talora, in gran
parte falliti, come dimostra il caso di Paolo ad Atene. Nella grande città
ellenica, culla di una straordinaria cultura, l'apostolo, all'areopago, cerca di
convertire i greci: "‘Dio ha stabilito un giorno nel quale dovrà
giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo [Cristo] che Egli ha
designato, dandone a tutti prova sicura con il risuscitarlo dai morti'. Quando
sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano; altri dissero:
‘Ti sentiremo su questo un'altra volta'. Così Paolo uscì da quella riunione.
Ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti" (Atti 17, 31-34).
9/ Sappiamo bene dei moltissimi sforzi, di teologi di ogni epoca, di trovare le
prove evidenti, o scientifiche, della risurrezione di Gesù. Qualcuno ha notato
che non si trovano in giro reliquie di frammenti di ossa di Gesù, il che
dimostrerebbe che il suo corpo non è rimasto su questa terra, e dunque Lui è
risorto. Qualche altro, per spiegare come mai, stando agli Evangeli (così Gv
20, 19 e 26), il Cristo post-pasquale passasse attraverso porte chiuse e mura,
ha pensato a misteriosi cambiamenti fisici che hanno trasformato il corpo
corruttibile di Gesù in corpo incorruttibile e spirituale, sottratto alle leggi
che reggono l'universo della materia; insomma, sarebbe avvenuto un sovvertimento
delle leggi di natura, anticipo e caparra di quello che accadrà un giorno al
corpo di tutti i defunti che risorgeranno. Altri, ancora, partendo dalla sindone
custodita a Torino, assicurano che essa renderebbe visibile l'istante stesso,
luminosissimo, in cui Gesù fu risuscitato, e dunque sbalzato fuori dal sepolcro
dove rimasero però le bende e il lenzuolo che rinserravano il suo cadavere.
10/ Non vogliamo esprimere giudizi su quanti fondano su tali basi la
dimostrabilità della risurrezione di Gesù. Diremo soltanto che, per noi, tali
prove non sono risolutive e, anzi, rischiano di mettere in ombra l'esperienza di
fede. Riteniamo, infatti, che la fede nella risurrezione di Gesù sia, appunto,
una questione di fede, di nuda fede, di sola fede, di fede spoglia, sofferta,
problematica. Non vi sono sindoni, microscopi, leggi fisiche, miracoli che
possano surrogare tale fede, o renderla facile, evidente, solare. Siamo proprio
su un altro piano, rispetto all'esperienza controllabile e verificabile con i
sensi o con i sempre più sofisticati apparecchi che la tecnica ci mette a
disposizione: siamo sul piano della fiducia nell'amore inesausto di Dio, nella
potenza del Suo Spirito vivificante. Volere, con la scienza, dimostrare che Gesù
è stato risuscitato ci appare come una tentazione pericolosa, perché mirante a
sottomettere all'umana ragione l'amore di Dio che, di per sé, è ineffabile e
sfuggente ai nostri prometeici sforzi di incapsularlo. Nessun megacongresso di
scienziati e di teologi può provare in modo apodittico la risurrezione di Gesù;
la ritiene invece vera, verissima, chi si affida alla Parola del Signore. E il
mondo può essere scosso da quanti, con la loro vita, inverano la proclamazione
di fede "Cristo è davvero risorto", e osano perfino dare la vita per
testimoniarla.
11/ In effetti, la fede nella risurrezione non solo non può rimanere un'idea
astratta senza collegamento con la vita, ma, proprio come fede, deve in qualche
modo diventare esperienza personale che, se pure è corroborata da quanto
affermano nelle Scritture i primi discepoli e discepole di Gesù, si fa però
dono e scelta intima, attuale, di ogni credente. In merito, appropriatamente il
teologo catalano/indiano Raimon Panikkar rileva: "Dovrebbe essere evidente
che la fede nella risurrezione non può essere ridotta all'accettazione della
credenza dei primi discepoli che va interpretata come un'esperienza soggettiva
che liberò un'energia psichica tale da convertirli in fondatori di ciò che poi
si chiamerà Cristianesimo. L'intero edificio cristiano non può poggiare sulla
soggettività di alcuni discepoli, per quanto intensa e sincera possa essere
stata la loro esperienza. Inoltre la fede (cristiana) deve essere personale e
dunque immediata come ogni esperienza esistenziale: non si può accontentare di
essere fede nella fede di altri, fiducia nella testimonianza di alcuni
privilegiati… Per esperienza esistenziale si intende la coscienza che tale
esperienza trasforma la nostra vita" (da La porta stretta della conoscenza.
Sensi, ragione e fede, Rizzoli, Milano 2005, pp. 61-63).
12/ Noi, vogliamo ribadirlo, crediamo alla "realtà" della
risurrezione di Gesù. Ma, per inquadrare correttamente il senso del nostro
discorso, dobbiamo ricordare la fondamentale distinzione tra fede e sua
formulazione: la prima rimanendo sempre salda, la seconda essendo gravata da
schemi culturali forse validi in un certo tempo e in un certo luogo, ma comunque
relativi e provvisori, e perciò superabili. Nella Chiesa cattolica romana (come
in altre, ovviamente) ben pochi oggi negano tale distinzione, ribadita
magistralmente da Giovanni XXIII nell'allocuzione Gaudet Mater Ecclesia con cui
l'11 ottobre 1962 aprì il Vaticano II. E la costituzione conciliare sulla
rivelazione Dei verbum ribadisce (n. 12): per interpretare la Sacra Scrittura,
occorre tener conto del genere letterario di un testo, che può essere storico,
profetico, poetico… Pacifiche, in astratto, tali premesse esegetiche sono però
spesso ignorate, o contraddette, nella predicazione, nella pastorale, nella
catechesi e, talora, anche in sede magisteriale. Ciò – come sottolinea il
teologo spagnolo Andrés Torres Queiruga ne La risurrezione senza miracolo (La
Meridiana, Molfetta, 2006) – avviene in particolare riguardo al problema della
risurrezione di Gesù: troppo spesso si parte dando ai racconti evangelici su di
essa valore cronachistico, e si tentano impervie, e anche bizzarre, soluzioni
per concordare a tutti i costi i racconti non concordabili degli evangeli, senza
invece interrogarsi sul loro reale genere letterario. Ma, se cadono i racconti
mitici, o i rivestimenti culturali e paradigmatici con cui le Scritture hanno
cercato di spiegare il mistero della risurrezione e di descrivere l'incontro con
il Vivente, non cade assolutamente il cardine e l'archetipo di tale annuncio, e
cioè che Dio talmente ha amato Gesù da farlo vivere per sempre oltre la morte,
così come il Padre ha fatto e farà con tutti i suoi amati figli e figlie di
tutti i popoli, di tutte le religioni e di tutti i tempi, che in questa terra
avranno, secondo la loro coscienza, operato con amore e aperti alla solidarietà.
Quest'annuncio d'amore infinito e di speranza inaudita è esattamente il cuore
perenne, e immodificabile, dell'Evangelo della Risurrezione.
13/ Certo, è difficile credere. Ben sapendolo, prima di lasciare questo mondo
Gesù promise di inviarci lo Spirito, il Paraclito, l'Avvocato,
Colui-che-sta-accanto, il Consolatore (cf. Gv 14, 26) che ci accompagna nelle
difficoltà della vita e con dolce insistenza ci invita ad affidarci a Lui. La
Chiesa, ogni Chiesa, vive dunque nel tempo dello Spirito, e lo invoca fiduciosa
– Veni, Sancte Spiritus! – perché discenda per darle luce e infonderle
coraggio nel cammino dell'Evangelo e, anche, perché trasformi l'universo.
Afferma Paolo: "Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie
del parto; essa non è sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello
Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del
nostro corpo… Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno
sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con
insistenza con noi, con gemiti inesprimibili" (Rom 8, 22-23, 26). Dunque,
lo Spirito ci è dato: ma per fare che? Per renderci "nuova creatura".
Ma non saremmo tali se la nostra fede nella risurrezione rimanesse astratta ed
arida, senza conseguenze nella vita, senza la decisione personale di spenderci
incessantemente, qui e ora, per la giustizia, la pace, la fraternità, la
solidarietà. Una tale fede sarebbe la nostra condanna, esattamente come la
partecipazione alla Cena del Signore senza la decisione di condividere con i più
bisognosi anche i nostri beni materiali (I Cor. 11, 17-32). Perciò la lettera
agli Efesini ci sollecita: "Comportatevi come i figli della luce: il frutto
della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità" (5, 8, 9).
D'altronde, gli evangeli ci dicono che nelle sue "apparizioni" ai
discepoli il Risorto si presenta con le parole "Pace a voi!". Saluto
rituale, o forte invito ad essere nel mondo "facitori di pace"?
14/ Comunque, a consolazione di noi che spesso siamo portati a dubitare della
risurrezione, l'evangelo di Giovanni (c. 20) ci parla di Tommaso che per credere
vuole prove concrete: "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non
metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non
crederò". Quest'apostolo era ardimentoso e quando – in occasione della
morte di Lazzaro – Gesù aveva preannunciato anche la sua propria drammatica
fine, egli aveva esclamato: "Andiamo anche noi a morire con lui!" (Gv
11, 16). Ma torniamo al dopo-Pasqua. "Otto giorni dopo i discepoli erano di
nuovo in casa, e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si
fermò in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi!'. Poi disse a Tommaso: ‘Metti
qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio
costato; e non essere più incredulo ma credente!'. Rispose Tommaso: ‘Mio
Signore e mio Dio!'. Gesù gli disse: ‘Perché mi hai veduto, hai creduto:
beati quelli che pur non avendo visto crederanno!'". Quale che sia il
genere letterario di questo brano, ci sembra che esso indichi due ancoraggi: la
beatitudine, per noi che con gli occhi non vediamo il Risuscitato, di credere a
Gesù sulla parola ("Voi amate Cristo, pur senza averlo visto; e ora senza
vederlo credete in Lui; perciò esultate di gioia indicibile…", afferma I
Pt 1, 8); ma, anche, come rileva Antonietta Potente, religiosa domenicana in
Bolivia, la serietà del dubbio, perché "non è possibile vivere la fede
senza toccare o lottare con il Mistero come faceva Giacobbe [Gen. 32, 25-31], o
senza osare quello che ha osato Tommaso. Dobbiamo lasciare giocare la fede con
l'incredulità" (La fede, Icone edizioni, Roma 2006, pp. 51-52).
15/ L'Evangelo ignora una fede nella risurrezione che estranei dalla storia e
rinvii tutto all'aldilà; e in nessun caso – come ci annuncia solennemente
Matteo al capitolo XXV ("avevo fame, avevo sete… ") – essa può
essere il pretesto "religioso" per lasciare che altri si sporchino le
mani a cambiare le storture e strutture sociali ingiuste, mentre i cristiani
sarebbero autorizzati a starsene da parte, indifferenti, solo intenti ad
aspettare il paradiso sperato nell'altro mondo. Quando, infatti, Gesù dice
"il Regno di Dio è in mezzo a voi" (Lc 17, 21) afferma appunto che già
ora, per chiunque accolga l'amore del Padre, e cerchi di condividerlo nella
vita, inizia, come un germe, la risurrezione, che un giorno fiorirà pienamente;
e quando proclama "beati i perseguitati per causa della giustizia, perché
di essi è il Regno dei cieli" (Mt 5, 10) usa il presente è, non il futuro
sarà. Perciò, oltre a proclamare "Cristo è stato risuscitato",
dovremmo anche proclamare che "Egli risorge" in ogni momento della
storia tutte le volte che si compie un atto di amore, o si riscatta un oppresso,
o si libera un prigioniero, o si rende giustizia ad un perseguitato, o si
costruisce una pace onesta. Calzante perciò ci sembra un pensiero (cf. Riforma,
28 aprile 2006, p. 7) del teologo evangelico tedesco Jürgen Moltmann: "La
risurrezione non è l'oppio dell'al-dilà, propinato per illusoriamente
consolare, ma è la forza della rinascita in questa vita. La speranza non ha per
oggetto un altro mondo, ma la redenzione di questo mondo".
16/ Del resto, una celebrazione della Pasqua ritualmente perfetta, ma compiuta
senza la decisione interiore di lasciarsi afferrare dal Signore, e senza la
scelta di impegnarci a diventare "samaritani" per chi, vittima dei
"briganti" (Lc 10, 30), incrociassimo nel nostro cammino, sarebbe la
contraffazione sacrilega della risurrezione di Cristo nella storia. Molto più
Pasqua – è solo un esempio, ma pregnante – è stata una singolare
celebrazione della Cena del Signore senza pane e senza vino, ma nella solidarietà
vera, avvenuta nel 1973 in un carcere di Montevideo, dove i generali golpisti
avevano fatto ammassare un gruppo di oppositori. Riprendiamo il fatto, così
come descritto dallo scrittore uruguayano Eduardo Galeano, dal sito web della
Red latinoamericana de Liturgia, del CLAI (Consiglio latinoamericano di Chiese):
"Alla sveglia, si alzarono tutti. Nessuno aveva chiuso gli occhi in quell'immensa
baracca. I prigionieri erano rimasti in attesa fino al mattino, dopo una
giornata di bastonate e minacce di fucilazione. Un prigioniero appena arrivato
da Montevideo, e che non aveva ancora perduto la cognizione del tempo ricordò:
‘Oggi è domenica di Pasqua'. I cristiani si passarono la voce. Bisognava
celebrare. Era però proibito riunirsi, non era permesso nessun tipo di
riunione, quale che fosse, e nella loro carne i detenuti avevano imparato che
quella proibizione non era uno scherzo. Però bisognava fare la riunione.
Aiutarono gli altri prigionieri, quelli che non erano cristiani: alcuni
vigilavano i portoni, e seguivano i passi dei soldati di guardia; altri
formavano un anello di persone che andavano e venivano camminando, intorno ai
celebranti, come al solito. E al centro si fece la cerimonia. Miguel Brun
[pastore evangelico metodista, arrestato per la sua opposizione alla dittatura,
ndr] sussurrò alcune parole. Evocò la risurrezione di Gesù che annunciava la
redenzione di tutti i prigionieri. Gesù era stato perseguitato, incarcerato,
torturato e assassinato, ma una domenica come quella aveva fatto incrinare i
muri e li aveva fatti crollare, affinché tutti i prigionieri potessero trovare
la libertà e tutta la solitudine potesse trovare un incontro… Nella baracca
non vi era niente. Né pane né vino né alcun bicchiere. Fu la comunione delle
mani vuote. Miguel offrì a chi si sarebbe dovuto offrire. ‘Mangiamo - sussurrò
- questo è il suo corpo'. E i cristiani portarono le mani alla bocca per
mangiare il pane invisibile. ‘Beviamo. Questo è il suo sangue'. E alzarono la
coppa che non c'era per bere il vino invisibile. Poi si abbracciarono".
17/ La Pasqua cristiana si innesta, in parte, in quella ebraica (Pesaq), nel
ricordo, tra l'altro, del passaggio del Mar Rosso, e cioè dell'intervento del
Signore che libera il popolo d'Israele dalla schiavitù del Faraone per
incamminarlo verso la terra promessa. Non a caso il quarto vangelo – con
evidente riflessione teologica che salda le due Pasque, commistione che
l'Ebraismo naturalmente non accetta – apre il racconto dell'Ultima Cena, e
quindi della passione, morte e risurrezione di Gesù con queste parole:
"Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di
passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li
amò sino alla fine. E mentre cenavano…" (Gv 13, 1). Gesù passerà
dunque dalla vita mortale a quella immortale, dalla sofferenza alla gloria
imperitura. Per tali motivi il passaggio dell'Esodo, e la Pasqua cristiana, sono
visti non solo come liberazione da ogni impedimento che ci ostacoli nel cammino
spirituale verso Dio ma, anche, come archetipo della possibile liberazione dalle
catene con cui i prepotenti, nelle specifiche situazioni storiche, tengono
prigionieri ed opprimono i popoli (e, dunque, vera liberazione anche sociale e
politica, qui e ora). Ma, a proposito della liberazione degli Ebrei dalla
schiavitù dell'Egitto – che il libro biblico dell'Esodo narra (c. 15) in
esaltante chiave epica: "Voglio cantare in onore del Signore: perché ha
mirabilmente trionfato, ha gettato in mare cavallo e cavaliere / i carri del
faraone e del suo esercito ha gettato in mare" – è opportuno ricordare
che anche oggi, nella celebrazione del settimo giorno di Pesaq, giorno in cui
sarebbe avvenuto il passaggio del Mar Rosso e la morte per annegamento degli
egiziani, gli ebrei si astengono dal cantare parte dell'Hallel – canto di
giubilo, dal salmo 113 al salmo 117 – per manifestare il dolore per le vite
perdute. Del resto un midrash (commento rabbinico di un evento biblico, per
trarne un insegnamento etico e spirituale) narra che il giorno del passaggio
attraverso le acque, mentre gli angeli intonavano un canto di giubilo, il Santo,
benedetto Egli sia, li rimproverò: "Tacete! L'opera delle mie mani, gli
egiziani, stanno morendo sprofondati nelle acque, e voi cantate?".
18/ "E il terzo giorno risuscitò", proclamano le Scritture cristiane,
e afferma il Credo stabilito dal primo Concilio ecumenico, quello di Nicea del
325, e completato dal secondo Concilio ecumenico, quello di Costantinopoli del
381. Nelle liturgie delle Chiese cristiane – in Oriente e in Occidente – il
racconto, lo svolgimento, il dispiegamento del dramma della passione, morte e
risurrezione di Gesù viene, per così dire, scandito in tre giorni: il Venerdì
santo si ricorda il martirio di Gesù; il Sabato santo la trepida attesa del
grande evento; la domenica di Pasqua, infine, la finalmente avvenuta
risurrezione. Le celebrazioni liturgiche distanziano gli accadimenti nel tempo,
per favorire nei fedeli la graduale comprensione e la progressiva assimilazione
dei misteri narrati. Si tratta di una sapiente scelta pedagogica e pastorale.
Tuttavia, bisogna essere avvertiti che, il dramma che noi vediamo riprodotto in
più atti, nella realtà non fu così spezzettato o articolato. In effetti, se
in alcuni passi (Gv 2, 19) si dice che Gesù risusciterà "dopo tre
giorni", per lo più (Mt 16, 21; Lc 9, 22) Egli afferma che risusciterà
"il terzo giorno", locuzione che significa "presto", ma con
valenza teologica, non temporale. E, cioè, gli Evangeli non si preoccupano
tanto di riferire tutti i dettagli di cronaca legati alla morte e alla
risurrezione di Cristo, quanto piuttosto di aiutarci a capire il senso profondo
di tali eventi e di tali misteri per accompagnarci poi a seguire, nella nostra
vita, Gesù.
19/ Un altro elemento, poi, ci sembra di dover tener presente quando si parla di
morte e risurrezione: il background, cioè i presupposti culturali,
antropologici e filosofici con cui vengono visti la persona umana e l'aldilà.
In proposito, diversissima era la visione ebraica da quella che, nel mondo
greco-romano, si rifaceva, tra l'altro, al Platonismo: la prima non vedeva
quella divisione tra "anima" e "corpo" così sottolineata,
invece, nella seconda; e gli ebrei non immaginavano l'anima
"prigioniera" del corpo, come sosteneva il Platonismo, e consideravano
la persona umana – uomo o donna – un'unità inscindibile. Così, per
descrivere la morte di Davide, il I Libro dei Re afferma: "Egli si
addormentò con i suoi padri, e fu sepolto nella città di Davide" (2, 10);
analoghe le parole con cui il Genesi narra gli ultimi istanti di Giacobbe:
"Quando ebbe finito di dare ai figli questo ordine ["seppellitemi
presso i miei padri nella caverna di Malpela"], ritrasse i piedi nel letto
e fu riunito ai suoi antenati" (Gen 49, 33). Pur rimanendo il cadavere ben
visibile sulla terra, si pensava che non solo l'"anima" ma, per dirla
con parole moderne, la "intera persona" del defunto "si
riunisse" ai suoi padri. Senza voler qui affrontare il problema di come il
Primo Testamento e la vivente tradizione ebraica vedessero, e vedano, l'aldilà,
ci pare importante domandarci con quali parametri culturali le Scritture
cristiane abbiano parlato del "dopo morte" di Gesù e dei "tre
giorni" nei quali la sola sua "anima" si sarebbe
"riunita" al Padre, prima di potere, a Pasqua,
"ricongiungersi" finalmente anche con il "corpo" del
Risuscitato che, "quaranta giorni" dopo (At 1, 3), è asceso al cielo.
La stessa, e più stringente, domanda ci si deve porre sul Credo
niceno-costantinopolitano, tutto stilato con categorie filosofiche e teologiche
gravate dalla cultura greco-romana, senza tener conto dell'eredità ebraica. Una
"esclusione" gravida di nefaste conseguenze per le Chiese cristiane, e
all'origine – con altre cause – della dicotomia anima/corpo che fino ai
nostri giorni, salvo eccezioni, ha contraddistinto la teologia e la predicazione
cristiane.
20/ Potrebbe essere buona per un film di successo l'ipotesi che, se duemila anni
fa, nella notte tra il Sabato (santo) e "il primo giorno della
settimana", ci fossero state telecamere puntate sul sepolcro di Gesù, ad
un certo punto della notte misteriosa esse avrebbero potuto riprendere l'istante
della risurrezione, o comunque, come minimo, essendo Gesù forse invisibile,
documentare almeno il fracasso di una pesante pietra sepolcrale che rotolava via
smossa come una piuma da una mano potente e misteriosa, e poi far vedere agli
spettatori ammirati la tomba vuota, invitandoli ad esclamare, insieme
all'en-tusiasta telecronista: "Miracolo!". Ma – noi pensiamo –
seppure le telecamere ci fossero state, non avrebbero potuto documentare lo
straordinario, in quanto l'inau-dito era già accaduto, come accade ogni giorno:
Dio ama talmente le sue creature da sconfiggere, per amore, la morte che
vorrebbe inghiottirle. Questa sconfitta della morte avvenne, per Gesù, proprio
all'ora nona di quel tragico Venerdì, quando gridando a gran voce emise il suo
spirito, e il Padre lo raccolse e gli diede nuova e più folgorante vita. Ma
questa "ordinaria follia" dell'Inef-fabile non si poté e non si può
filmare o verificare. Si può solamente – se si vuole – crederla possibile.
Una tale, difficile fede non è contro la ragione, ma certamente è molto al di
là di essa.
21/ È umano, e del tutto comprensibile, che in ogni tempo tra i cristiani sorga
la domanda: quando e come risorgeremo? L'interrogativo se lo posero, ovviamente,
anche le prime comunità cristiane. Ad esse Paolo rispose affermando la
risurrezione di Cristo per affermare quella dei morti: "Si semina un corpo
corruttibile, e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso,
si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge
un corpo spirituale" (I Cor 15, 42-44). Il come, senza nulla svelare di
concreto, l'apostolo lo illustrò subito dopo con la metafora del seme che viene
sparso nella terra, ove sembra morire, e poi invece a primavera improvvisamente
fiorisce e diventa una stupenda spiga dorata. Perciò quando nella professione
di fede niceno-costantinopolitana (che si recita tutte le domeniche nella
liturgia cattolica) si afferma "Credo nella risurrezione della carne"
si proclama, appunto, la fede nella potenza creatrice di Dio che ci sosterrà, e
ci riprenderà, dopo che avremo valicato le porte della morte. Non sarà certo
la rianimazione di cadaveri, ma (in proposito il biblista Alberto Maggi ha
pagine illuminanti) una meravigliosa – e, certo, per noi sulla terra,
incomprensibile – fioritura in pienezza di tutto il nostro essere. La parusìa,
il ritorno glorioso di Cristo sulla terra, il giudizio finale e, infine, la
nuova creazione (come suggeriscono la lettera ai Romani, 8, 19-23 – "la
creazione stessa attende di essere pure lei liberata dalla schiavitù della
corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio" – e
l'Apocalisse, 21, 5 – "Ecco, io faccio nuove tutte le cose") ci
dischiudono panorami indicibili che non possiamo né intravedere né esplorare.
Ma, nella fede, ci affidiamo a Colui che, avendo risuscitato Cristo, con Lui e
in Lui ci risusciterà. Perché sappiamo che "Dio è più grande del nostro
cuore, e conosce ogni cosa" (I Gv 3, 20).
II. La testimonianza di Paolo e della Chiesa agli inizi e, poi, nello sviluppo
della storia
22/ Paolo esprimeva ai Corinzi la sua preferenza, nelle riunioni liturgiche, per
poche e costruttive parole piuttosto che per lunghi, sapienti e ispirati
discorsi (cf I Cor, cap. 14). Per questo, riteniamo che la sua figura e la sua
predicazione dovrebbero essere per noi particolarmente pregnanti proprio perché
lui, l'apostolo dei gentili, si rivolge principalmente a noi, che non siamo
discendenti di Abramo secondo la carne, ma ulivi selvatici innestati su quella
"radice santa" (Rom 11, 16) dalla quale sia lui che Gesù erano sorti.
La figura di Paolo era un tempo preminente nella Chiesa di Roma, unita poi a
quella di Pietro in segno di continuità con la Chiesa madre di Gerusalemme e,
successivamente, dalla figura di Pietro offuscata quando nella Chiesa romana si
sono affermate pretese egemoniche. Eppure la sua prassi, la sua sensibilità per
le differenze, il suo buon senso unito a straordinaria intelligenza teologica,
potrebbero essere anche oggi, nel nostro mondo variegato, di grande aiuto e
insegnamento. Egli, infatti, era attento alle esigenze concrete delle singole
comunità, applicando con rispetto e sagacia a ciascuna situazione l'annuncio
essenziale e immutabile dell'unico Vangelo di salvezza che a sua volta egli
aveva ricevuto, e cioè l'evento del Cristo morto per noi a causa del peccato e
risuscitato dal Padre. Questo kerigma originario – risalente, secondo tutti
gli studiosi, alla più antica comunità cristiana – sarà poi oggetto nella
storia di svariate interpretazioni, da quelle mitiche a quelle sacrificali (su
queste – mettendone in evidenza anche le contraddizioni – abbiamo cercato di
riflettere in "Fate questo in memoria di me". Condividere il pane
nel-l'Eucaristia e nella vita – il contributo della nostra Comunità cristiana
di base al Sinodo dei vescovi del 2005).
23/ Qui vogliamo rilevare che l'annuncio dell'a-postolo non si risolveva nel
proporre una nuova serie di leggi in luogo delle antiche, né in un'astratta
adorazione del Risorto, né in estatiche esperienze o in paralizzanti attese
della parusìa, ma nella totale adesione di fede all'unica legge dell'amore
proclamata e testimoniata da Gesù, legge che deve essere iscritta nei nostri
cuori e operosa nella nostra prassi se osiamo dirci cristiani. Questa "fede
operante mediante l'amore" (Gal 5,6) si sperimentava innanzi tutto
all'interno delle singole comunità (ecclesiae): nel rispetto dei vari carismi,
utili tutti al bene e all'armonia comuni; nel porre l'Eucaristia a discrimine
tra solidarietà ed egoismo; nel valorizzare la partecipazione collettiva alle
scelte più importanti; nel farsi voce dello Spirito che parla alle Chiese; nel
sottolineare, come già aveva fatto Gesù, che il ricoprire posti di
responsabilità, lungi dal costituire un privilegio o una prerogativa,
sollecitava maggiore spirito di servizio. Il comportamento esemplare della
comunità equivaleva in tal modo ad una testimonianza del Risorto tanto più
efficace all'esterno in quanto non basata sulle parole ma sui fatti (I Tess 1,
6-8). Perciò, a ben guardare, ci sembra che vada del tutto superata
un'interpretazione della morte di Cristo sulla croce come sacrificio necessario
per placare, con il suo sangue e il suo martirio, l'ira di Dio contro l'umanità
peccatrice, incapace di liberarsi dal "male oscuro" che la sovrasta.
L'ignominia della croce, piuttosto, svela e mette a nudo i meccanismi della
violenza contro l'Innocente, e il comportamento di Gesù indica a noi la
possibilità di superarli aderendo al Suo messaggio e alla Sua umanità (cf.
Rom. 8, 1-4).
24/ Così Paolo riuscì a convincere la sospettosa Chiesa "dei santi"
di Gerusalemme che la circoncisione del cuore, come già proclamato da Geremia
(9, 25 e 31, 31-34) era più importante di quella della carne, e che l'irruzione
dei tempi ultimi costringeva a vedere con occhi nuovi, secondo l'annuncio dei
profeti, la veneranda tradizione della Torah, la Legge. Ma, di fronte alla
testimonianza dell'apostolo, una domanda ci viene spontanea: in quale conto è
stato tenuto poi, nel corso della storia della Chiesa, questo splendido
insegnamento del-l'apostolo? Perché, rispetto al grandissimo pluralismo
teologico – documentato dal Secondo Testamento – che percorreva le prime
comunità, e i primi cristianesimi, si è imboccata, e anche imposta, poi, la
via del monolitismo dottrinale e del dogma?
25/ Già dalla fine del primo secolo l'incremento numerico dei fedeli e delle
comunità, l'allontanarsi nel tempo della prospettiva della parusìa che tutto
avrebbe risolto, la scomparsa della prima generazione dei testimoni con la loro
autorevolezza e col loro entusiasmo, i tentativi – provocati dal contatto con
la filosofia greco-romana – di approfondimento teologico del mistero
dell'Incarnazione, posero problemi di carattere dottrinale cui si pensò di
ovviare accentuando il carattere istituzionale e gerarchico della struttura
ecclesiastica (cf. le lettere cosiddette pastorali – a Tito e a Timoteo,
attribuite a Paolo, ma certamente non sue – e le prime lettere della
tradizione post-apostolica: la I di Clemente ai romani, del 98 circa, e quelle
di Ignazio vescovo di Antiochia, del 110 circa). Queste strutture, forse anche
necessarie per le esigenze dei loro tempi e vieppiù consolidatesi, hanno però
comportato un prezzo altissimo: un radicale mutamento della primitiva visione di
ecclesia, divenuta qualcosa di molto diverso dalla realtà che Paolo aveva sotto
gli occhi e sulla quale costruiva la sua teologia. E per di più, al fine di
auto-legittimare la propria presenza, percepita evidentemente come una novità
rispetto al passato, i sostenitori di tali strutture tendevano a presentarle
come effetto dell'applicazione di disposizioni impartite direttamente dagli
apostoli se non dal Signore, e quindi a rivendicarle come di diritto divino e
non frutto di una scelta importante ma storicamente determinata, e perciò
contingente (cf. per tutti I Clem., XLIV, 1 ss).
26/ Ciò favorì un progressivo svilimento delle prerogative dell'assemblea, per
eccesso di delega ai responsabili – per Ignazio di Antiochia non c'è ecclesia
se non dove c'è il vescovo, e a lui subordinata – e innescò la deleteria
spaccatura tra chierici e laici. Una spaccatura (come più ampiamente abbiamo
cercato di spiegare nel nostro documento citato al n. 22) che si fece più
esplicita, e più radicale, nel secolo IV, quando con Costantino il
cristianesimo diviene religione lecita e, con Teodosio, obbligatoria nell'impero
romano. Le Scritture cristiane – nella Lettera agli ebrei – chiamano infatti
sacerdos e pontifex soltanto il Cristo (ma Gesù era un "laico", non
apparteneva a famiglie di sacerdoti del tempio di Gerusalemme o di leviti!); ma
non danno mai una tale qualifica agli apostoli e ai discepoli, denominandoli
invece, semplicemente, ministri, diaconi (servitori), presbiteri (anziani) ed
episcopi (sorveglianti). Non questa, tuttavia, è stata la scelta del
cristianesimo trionfante. Esso, quasi riadattando alla nuova situazione alcuni
aspetti della casta sacerdotale del-l'antico tempio ebraico, e anche
occhieggiando l'organiz-zazione greco-romana del sacro, si riempie di sacerdozio
e di sacerdoti: una struttura lontana dalle parole e dalla prassi di Gesù, e
dimentica dell'Evangelo, secondo il quale, quando il Rabbi di Nazareth spirò,
"il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo" (Mt 27, 51).
Annotazione, questa, non certo di cronaca, ma affermazione teologica capitale,
per indicare che era cancellata per sempre l'intera struttura sacerdotale
composta da uomini "mediatori" e "ponti" necessari tra il
credente e l'Altis-simo.
27/ Dopo il tentativo, con la Riforma, di Martin Lutero, nella Chiesa romana è
stato il Concilio Vaticano II a cercare, in parte, di superare tale situazione,
tornando alla sorgente della Bibbia. Ma il lavoro è solo agli inizi, ed enormi
ed irrisolti rimangono ancora molti nodi teologici, istituzionali e pastorali
legati alla contrapposizione chierici/laici. Una contrapposizione che ha
favorito l'annidamento del potere nella Chiesa, divenendo essa troppo spesso
come un potere tra poteri mondani (figure come quella di Francesco d'Assisi
rimangono eccezioni, e con la loro luce ancor più mettono in evidenza le ombre
dell'istituzione ecclesiastica). E sì che Gesù aveva respinto - possibile
allusione alle contese della prima comunità per la preminenza nel gruppo dei
discepoli di Gesù (Mt 20, 20-21) - la seduzione del potere. In un tale
contesto, l'an-nuncio clamoroso della risurrezione, una novità che dovrebbe
costringere la Chiesa sempre in stato di riforma e di ravvedimento - si è fatto
troppo spesso proclama rituale, non si sa quanto creduto da chi lo annuncia, ma
certamente reso non-credibile a quanti è annunciato.
28/ La divisione dei cristiani in due generi – chierici e laici – ha
consumato a poco a poco (sia pure con eccezioni) la piena partecipazione di
tutti i battezzati alla vita della Chiesa, aprendo poi un'ulteriore dolorosa
divisione, tra un genere dominante ed accentratore, quello dei maschi, ed un
genere dominato e dipendente, quello delle donne. La questione è tanto più
sorprendente ed amara perché proprio ad una donna, Maria Maddalena – secondo
il racconto di Giovanni (c. 20) – il Risuscitato affida il compito di
annunciare ai "fratelli" e ai "discepoli" la sua
risurrezione. Se anche, come dicevamo, la cronaca non andò proprio così, ci si
deve domandare quale sia l'insegnamento permanente che soggiace a tale
narrazione, che pone una donna – testimone non credibile, secondo la mentalità
di allora – all'inizio della lunga catena dei discepoli e discepole che
grideranno "Gesù è davvero risorto". È interessante notare che,
seppure con variazioni, il vangelo più antico, quello di Marco (c. 16), poi
quello di Matteo (c. 28), e infine quello di Giovanni, il più recente dei
quattro evangeli, pongono l'annuncio di Maria Maddalena (insieme ad altre donne)
come il primo anello della proclamazione della risurrezione anche agli altri
apostoli. Non è certo casuale, una tale "primogenitura", e, se le
Scritture cristiane l'hanno affermata e confermata, bisognerà interrogarsi sul
suo significato profondo. In altre parole: se le donne sono le prime a credere
nella risurrezione, e ad annunciarla a Pietro e agli altri, vi saranno mai,
nella comunità cristiana, ministeri per volontà di Dio negati ad esse? Molte
sono le ragioni – culturali, cultuali, antropologiche, storiche, teologiche
– che hanno portato le Chiese, nei secoli, ad escludere progressivamente la
donna dai ministeri, riservando questi al maschio. Ma oggi – risvegliati dal
femminismo, dal progredire della società, oltre che da una rinnovata
riflessione biblica e da un accurato ripensamento teologico – riteniamo non più
possibile continuare a sostenere, e attribuendo questo No alla volontà
permanente di Cristo, che le testimoni della risurrezione di Gesù non possono
presiedere la Cena del Signore, che è appunto il memoriale della morte e
risurrezione di Lui. Pensiamo sia giunto il tempo in cui, come fece Gesù, la
Chiesa romana (e, tra le altre, quelle che mantengono le stesse resistenze al
cambiamento) dica alla donna "Maria!", e la inviti ad annunciare anche
nell'Eucaristia che il Crocifisso è stato Risuscitato, e che la potenza dello
Spirito di Dio sconfigge quella della morte, e rende Gesù il Vivente. Non
capiamo più perché solo i testimoni (maschi) della risurrezione possano essere
guide autorevoli di una ecclesia che celebra la Cena del Signore, e non anche le
testimoni (donne).
III. A "quale Italia", e "come", la Chiesa è chiamata a
testimoniare
29/ Cerchiamo ora, assai brevemente e per flash, di chiederci: com'è questa
nostra Italia oggi, cioè il Paese al quale e per il quale primariamente la
Chiesa cattolica italiana qui e ora intende essere "testimone" della
risurrezione? Come sono le donne e gli uomini concreti ai quali ci si intende
rivolgere, e in che condizioni, attese, sofferenze, gioie, speranze vivono? È'
infatti necessario cercare di capire a chi si parla, per poter annunciargli in
modo adeguato la buona notizia di Gesù, e cioè l'Evangelo. Nella Traccia di
riflessione – il documento ufficiale in preparazione all'evento di Verona –
viene ricordato che il quarto Convegno ecclesiale: a) "si colloca a metà
del primo decennio del terzo millennio"; b) "si propone di dare nuovo
impulso allo slancio missionario scaturito dal Grande Giubileo del 2000";
c) "si propone di compiere una prima verifica del cammino pastorale svolto
in questo decennio".
30/ Sul "chi siamo", come italiani, autorevoli istituti di indagine e
di studio sulla vita individuale e collettiva del nostro Paese segnalano, oggi,
una crescita delle disuguaglianze e delle disparità: convivono dolorosamente
arricchimenti ingiustificati e impoverimenti inattesi. Qualcosa di profondo si
è verificato nel nostro Paese: adesso, oltre che tra Sud e Nord, l'Italia –
documentano le analisi del Censis – si trova, per così dire, divisa
verticalmente: tra chi, malato, può curarsi convenientemente, e chi fatica ad
avere un intervento chirurgico pur necessario; tra i ricchi che si arricchiscono
sempre più e i molti che hanno difficoltà ad arrivare a fine mese, e debbono
magari indebitarsi; tra chi è onesto e paga le tasse, e chi evade
"normalmente" il fisco. Se nel 2001 l'evasione fiscale era stimata in
140 miliardi di euro, nel 2005 essa è indicata in 248 miliardi. Il messaggio
– arrivato proprio da individui o gruppi più abbienti, presenti anche a
livello elevatissimo nel governo che ha guidato l'Italia dal 2001 all'aprile
2006 – è stato questo: essendo il carico fiscale eccessivo, non vi è un
obbligo civile e morale di contribuire, secondo le leggi vigenti e in
proporzione ai propri redditi, alle esigenze collettive della società.
31/ Sulla precarietà delle vite delle lavoratrici e dei lavoratori, soprattutto
le giovani e i giovani, rende testimonianza un'ampia letteratura; titoli come Tu
quando scadi, Un anno di corsa, Tutt'al più muoio, Vita precaria e amore
eterno, La generazione low cost, Non ci sono santi scandiscono le ore e i giorni
delle famiglie e dei loro ragazzi e ragazze. Le giovani generazioni vivono la
sensazione "che gli adulti si siano defilati dalla storia scivolando in un
rassegnato disimpegno; che la cultura, la scuola, la ricerca scientifica siano
parole rituali, pronunziate dai genitori e dai ministri senza convinzione e
senza speranza; che la semi-occupazione rappresenti l'unico approdo in cui
vegetare, come su bagnasciuga senza tempo" (Domenico De Masi, sociologo).
"La protesta contro la precarietà è vicina alla soglia di esplosione
anche in Italia; il primo maggio è ribattezzato da molti giovani ‘festa di
San Precario'" (così si esprime l'economista Michele Salvati). A fronte di
tanta povertà e precarietà, stanno una sfacciata esibizione di lusso e
provocatorie speculazioni finanziarie.
32/ Con fatica e in un certo isolamento – sommersi come sono dalle numerose
televisioni – studiosi laici, spesso non credenti, indagano quotidianamente
nelle pieghe delle nostre società e ci segnalano una preoccupante mutazione
antropologica. Scrivono e dicono che il Paese è esploso. Rilevano come negli
ultimi dieci o quindici anni una forza irresistibile si è sprigionata dentro la
nostra società, come un impulso che ha fatto scoppiare le psicologie e i
comportamenti, proiettandoli in frantumi sulla scena e sulle platee della
post-Italia. Perciò, di fronte allo show nazionale, si potrebbe cadere nel
moralismo più cupo. Si ha l'impressione di un Paese senza: senza istituzioni,
senza etica, senz'anima. Imperano i reality shows, dai quali vengono proposti
"progetti di vita".
33/ Contemporaneamente siamo consapevoli della presenza di molte potenzialità
positive, di grandi forze vive e sane in tanti settori della società, di
energie generose capaci di spendersi per il Paese, per la legalità, per la
giustizia sociale, per la solidarietà, per la pace nel mondo. Tra queste molte
realtà – speranza per il futuro - vogliamo in particolare sottolineare la
presenza di una vasta e davvero preziosa rete del volontariato sociale,
religioso e non, che impegna centinaia di migliaia di uomini e donne, ragazzi e
ragazze. Una tale realtà non si può né dimenticare né sottovalutare. E,
tuttavia, essa non oscura il segno che grava sulla società del nostro Paese:
quello di un Paese smarrito. Una tale mutazione del Paese è anche responsabilità
dei gruppi dirigenti politici e istituzionali: una responsabilità raramente
denunciata e contrastata con forza dai vertici della Chiesa cattolica italiana,
forse paghi delle "facilitazioni" fiscali e normative ottenute dai
governanti. Noi pensiamo comunque che sia dovere comunitario dell'intera Chiesa
italiana, nella varietà delle sue componenti e nella distinzione dei compiti e
delle responsabilità, scrutare questi "segni dei tempi", per
rispondervi con franchezza, umiltà e prontezza di conversione. Senza la pretesa
di avere, essa sola, ricette pronte, risolutive e definitive.
34/ La domanda è: come è potuta avvenire questa mutazione? Mentre nel contempo
la Chiesa italiana celebrava trionfante il Grande Giubileo del 2000? Mentre la
popolarità di Giovanni Paolo II, quotidianamente, occupava i notiziari
televisivi? Mentre l'episcopato italiano veniva ogni giorno fatto oggetto di
venerata attenzione e mentre politici con incarichi istituzionali di prim'ordine
si genuflettevano dinanzi ai valori identitari della religione cattolica che si
voleva e si vuole a fondamento anche delle Costituzioni degli Stati, quando poi
dai loro comportamenti emerge chiaramente il carattere strumentale dei loro
inchini? Sono domande che ci interpellano tutti e tutte, dalla base ai vertici.
Sono interrogativi che ci bruciano dentro, mentre sentiamo risuonare
l'avvertimento del Maestro: "Guai quando tutti gli uomini diranno bene di
voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti!" (Lc
6, 26).
35/ Negli Orientamenti pastorali dell'episcopato italiano per il primo decennio
2000 (29 giugno 2001) si afferma: "Guardiamo con interesse alla ricerca di
senso che sta, almeno un poco, riavvicinando molti uomini e donne del nostro
Paese all'esperienza religiosa e in particolare a Gesù Cristo". Quindi, si
formula il proposito di un "progetto culturale orientato in senso
cristiano"; e si esplicita questa missione: "Tutte le Chiese
particolari e ciascuna delle nostre piccole o grandi comunità devono prestare
attenzione a questa conversione culturale, in modo che il Vangelo sia incarnato
nel nostro tempo, per ispirare la cultura e aprirla all'accoglienza integrale di
tutto ciò che è autenticamente umano". Il percorso di preparazione verso
Verona prevede che il Servizio nazionale per il Progetto culturale (una nuova
istituzione ecclesiale?, ci domandiamo) attivi una serie di iniziative ad hoc.
36/ Ma – siamo convinti – la Chiesa non ha un suo progetto culturale. Cristo
Risorto non è un progetto culturale. Egli non ci ha chiamati ad una conversione
culturale. Pensiamo infatti che la Chiesa non annuncia se stessa, non comunica
un suo sistema valoriale né una sua propria saggezza. Se – in quanto comunità
di credenti (uomini e donne, con diversi carismi e differenti ministeri) –
essa, per quanto faticosamente ed imperfettamente, vive la sua appartenenza a
Cristo, allora diviene luogo e punto di incontro della storia con il Risorto: e
sta tutta qui la sua "pastoralità". L'atto di fede e di umiltà,
permanente, che è richiesto alla Chiesa – sempre, attraverso i secoli, in
tutte le diverse civiltà e culture (culture, al plurale!) – è far parlare
Lui, resistendo alla tentazione di frapporsi. La Chiesa, insomma, dovrebbe
sempre imitare Giovanni Battista che, rispetto a Gesù, diceva: "Egli deve
crescere, e io invece diminuire" (Gv 3, 30). Un concetto che l'indimenticato
p. Ernesto Balducci traduceva così: "Qual è il peccato della Chiesa? È
di credersi necessaria. È di identificare se stessa con il mistero di Dio, di
considerarsi l'arca della salvezza: chi non entra è perduto. Dio è troppo più
grande delle arche di salvezza" (da Gli ultimi tempi, vol. II, Anno B,
Borla, Roma 2003, p. 39).
37/ Comunque, intanto che veniva progettato e comunicato questo progetto
culturale, cos'è avvenuto nel cattolicesimo italiano? Un'indagine molto
approfondita sui cattolici nel nostro Paese (Programma di ricerca, diretto da
Ilvo Diamanti, Università di Urbino, La Polis, Laboratorio di Studi Politici e
Sociali; www.agcom.it, sito dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni;
cf. Cattolici in un Paese smarrito, Il Mulino, 5/2005) segnala una realtà
composita e contraddittoria. Una situazione dove la "forza della
religione" si combina con una grande "debolezza della fede"; dove
"cattolici si nasce, ma dove credenti si diventa, semmai con più difficoltà";
dove "il riferimento diffuso ai valori del cattolicesimo denota i tratti di
una prassi culturale più che spirituale". In questa situazione è in corso
- affermano i ricercatori - una "ridefinizione degli equilibri tra
cattolicesimo e società".
38/ Oggi forte incombe una tentazione sulla gerarchia cattolica italiana: quella
di una sorta di volontà di "rivincita". Sconfitta nei referendum
sulle leggi sul divorzio nel ‘74 e sull'aborto nell'81 (quando essa, salvo
eccezioni, si spese per far prevalere il Sì all'abolizione delle rispettive
leggi), ma galvanizzata dalla "vittoria" del referendum sulla
procreazione medicalmente assistita, nel giugno 2005 (quando essa esortò
cattolici e non cattolici a disertare le urne, per far mancare il quorum e
quindi rendere nulla la consultazione) cerca in ogni modo di dimostrare quanto
la Chiesa cattolica conti nella formazione della coscienza, anche civile, del
Paese. Si sostiene, nei fatti, una specie di religione civile degli italiani,
che sarebbe appunto il riferimento al cristianesimo così come interpretato dai
vertici ecclesiastici, e come applaudito dai teocon nostrani che, privi di altri
ancoraggi culturali, si aggrappano – pur professandosi arditamente non
credenti – alle mitrie papali ed episcopali. Un cristianesimo visto come
l'unica religione che abbia un'etica degna di questo nome, e perciò considerato
dirimente per orientare le decisioni di coscienza della gente, cristiana e non,
cattolica e non, partendo dal principio che le indicazioni etiche proposte dalla
Conferenza episcopale italiana non sono postulati legati alla professione di
fede cattolica, ma esplicitazioni dell'etica umana universalmente valida,
un'etica la cui chiave di interpretazione Dio avrebbe affidato solo al magistero
ecclesiastico cattolico. Né questa presunzione è scossa dal fatto che altre
Chiese cristiane – pur esse gelosissime della Parola del Signore – ritengono
eticamente fondate delle scelte che per la Cei sono, invece, inammissibili.
Quasi che l'etica proposta da tali Chiese, come del resto dalle varie religioni,
fosse inesistente o irrilevante. Eppure il dialogo su problemi così complessi,
e nuovi, come quelli della bioetica, dovrebbe invece essere aperto in tutte le
direzioni; ma, soprattutto, in modo stabile e ufficiale, con le Chiese non
cattoliche che, come la Chiesa romana, intendono annunciare il Cristo Risorto
con coerente fedeltà all'Evangelo.
39/ Noi ci sentiamo a disagio in una proclamazione del cristianesimo civile, e
ci lascia molto perplessi un tipo di magistero che sembra sostenerlo (il che,
del resto, emerge soprattutto nel nostro Paese, considerato forse dal Vaticano
un sorvegliato speciale nel contesto europeo). Riteniamo poi del tutto
improponibile che l'episcopato – parliamo di esso come corpo, a prescindere
dalle poche, coraggiose eccezioni di singoli vescovi – si appelli, nel-l'esercizio
del suo ministero, alla Costituzione italiana. La magna charta, infatti,
rappresenta, potremmo dire, la bibbia civile sulla base della quale uomini e
donne di diverso orientamento politico e culturale e di diverse religioni e fedi
organizzano la comune convivenza. In nome di essa è possibile l'affermazione e
la pratica di posizioni anche di parte ma non prevaricanti; mai, neppure in nome
del Vangelo. Con questo fondamentale approccio e con questo prioritario metodo,
i cristiani – qualunque sia la funzione profetica e ministeriale che esse ed
essi sono chiamati a svolgere nella Chiesa di Gesù risorto – devono
affrontare, di fronte e insieme agli altri e alle altre, uomini e donne, le
complesse questioni dell'etica individuale e pubblica, della convivenza delle
diverse culture, della compresenza delle diverse religioni e dello stare insieme
nello stesso spazio pubblico, di tutti e di tutte. D'altronde, di fronte al
grande numero di pronunciamenti episcopali riguardanti la morale sessuale,
familiare, ed embrionale, vi è stata, soprattutto negli ultimi cinque anni,
l'assenza dell'incidenza cattolica sulle grandi questioni dell'ethos pubblico,
tra cui - sempre più drammaticamente - la perdita di una cultura dei diritti e
della legalità.
40/ In particolare, poi, dobbiamo rilevare la drammatica latitanza di un
pronunciamento inequivocabile sulla questione delle guerre in Afghanistan e in
Iraq. In proposito, nessuno può dimenticare che la presidenza della Cei nel
2003 diede l'avallo morale alla cosiddetta "missione di pace" militare
italiana a Nassiriya, una "missione" che moltissimi italiani, e
cattolici italiani, hanno considerato e considerano un appoggio alla guerra,
illegale e immorale, intrapresa dagli anglo-americani contro Baghdad.
41/ In tale contesto è motivo di speranza la presenza, anche in Italia, di
molti gruppi cattolici, associazioni e singoli – vescovi, preti, laici, uomini
e donne – che in questi anni hanno gridato forte la profezia della pace, e si
sono impegnati opportune et importune per ricordare a tutti, alle Chiese come
alla società civile, le esigenze imprescindibili della pace nella giustizia in
Iraq, nel conflitto israelo-palestinese, nelle guerre in Africa nelle regioni
dei Grandi Laghi e del Darfur, in Centro-America. E, per quanto riguarda i
problemi più propriamente italiani, come dimenticare quei laici e preti di
frontiera che si sono opposti (anche a prezzo della vita) contro le varie mafie?
Come non esprimere solidarietà, carica di affetto, a vescovi come quello
attuale [mons. Giancarlo Bregantini] di Locri, dove da anni è impegnato in
prima persona, malgrado aspre difficoltà e tante insidie, a sollecitare le
genti calabresi a mantenere salda la legalità, e a contrastare con tenacia la
dilagante ‘Ndrangheta?
42/ Un altro problema – distinto da quello della religione civile, ma per
molti aspetti ad esso collegato – bussa alle porte anche della Chiesa
cattolica: una sorta di "rivincita" della dimensione religiosa. Siamo
naturalmente consapevoli che il secolo appena concluso ci consegna profonde
trasformazioni sociali: crisi della forma tradizionale della famiglia; una
diversa consapevolezza, individuale e sociale, della sessualità; il femminismo;
la nascita della società di massa; la globalizzazione (prima incipiente con la
internazionalizzazione dell'economia, poi pervasiva con la rivoluzione
informatica e delle comunicazioni); l'espropriazione e la privatizzazione dei
beni comuni globali come l'acqua e l'outer space (lo spazio esterno alla
terra)… che hanno generato e consolidato una psicologia di massa
dell'incertezza, con una perdita di senso nella vita collettiva e individuale.
Siamo altresì consapevoli che una superficiale e sbrigativa concezione della
modernità porta a sottovalutare che questa incertezza genera un forte bisogno
di significato, cui una delle risposte sta proprio nella proliferazione dei
nuovi movimenti religiosi, registrata dalla fine degli anni Sessanta in poi. A
questa incertezza e alla richiesta di significato che le è sottesa, la Chiesa
italiana ha cercato finora di rispondere con una serie di interventi precettivi
intenti a garantire la soluzione precostituita di ogni specifico problema di
ordine bioetico. È mancato viceversa un appello alla maturazione delle
coscienze capace ad un tempo di fare fronte all'illusione deterministica che il
progresso tecnico-scientifico potesse risolvere di per sé i problemi via via
sollevati e di incoraggiare una più consapevole assunzione di responsabilità
da parte di ciascuno, nel contesto di un'autentica e necessariamente
pluralistica ricerca di soluzioni ispirate alla fede comune ma anche alla
diversità delle situazioni e delle esperienze. Inoltre – come bene ha
evidenziato Gustavo Zagrebelski su La Repubblica del 7 maggio 2006 – anche
l'episcopato italiano (come il magistero papale), soprattutto sui problemi in
qualche modo legati alla sessualità, appare più incline a proclamare verità
astratte che a mostrare amore, carità e comprensione per le persone in carne ed
ossa spesso schiacciate da "proclamazioni di princìpi" che ignorano
totalmente la complessità e la sofferenza delle intricate situazioni concrete.
43/ Insomma, in un mondo caratterizzato da una mutazione frenetica e rapidissima
– antropologica, sociale, economica, tecnologica e culturale – che origina
anche confusioni, smarrimenti, ribellioni e deliri, ci sembra che la Conferenza
episcopale italiana se ne stia ferma in un dogmatismo astorico, perché immobile
nella storia e nel suo divenire. Questa è la grande contraddizione della Chiesa
che, pur vivendo nel terzo millennio, sembra non voler davvero inserirsi in
esso: per non "adattarsi a questo mondo" essa dice; ma, piuttosto, ci
sembra, per non lasciarsi porre da esso in crisi salutare. Forse dimentica di
quanto affermava il Concilio Vaticano II nella costituzione pastorale Gaudium et
spes (n. 44), e cioè che se la Chiesa molto dà al mondo, molto anche riceve da
esso. Una tale chiusura impedisce che la confusione della torre di Babele
diventi verace effusione della Pentecoste. Ma, più la Chiesa si arrocca ai
simboli, ai segni, ai riti funzionali al "vedere e toccare" del
materialismo religioso, più la Parola, il Logos da annunciare diventa
indecifrabile. Perché Dio non è nella tenda, nel sacro recinto, ma è sulla
strada del viandante che cammina.
44/ In tale contesto, tra le molte sfide che oggi si pongono alla Chiesa
italiana, una delle più grandi, ci sembra, è la crescente presenza nel nostro
Paese di genti provenienti da altri Paesi, anche extraeuropei, e portatrici
quindi di patrimoni culturali e religiosi diversi dai nostri. Cessata, si spera,
ogni velleità di riduzione a uno di ciò che è diverso, mediante
indottrinamento più o meno forzato, dovremmo invece riandare alle origini della
nostra fede, tornare ad essere lievito e sale, senza pretendere di essere il
tutto. Dovremmo dunque saper offrire una testimonianza credibile e coerente
della nostra fede ai fratelli e sorelle che l'evolvere della storia ci pone
accanto come compagni di viaggio. Del tutto negativa ci pare perciò la
tentazione di arroccarsi in una difesa ostinata di una verità che noi cristiani
per primi dovremmo sapere di non possedere mai totalmente, visto che essa è una
meta verso la quale ci accompagna e sospinge lo Spirito Consolatore (Gv 14, 26),
forse anche attraverso questi incontri con genti diverse. Incontri che, a
livello di convivenza civile, richiedono l'accettazione di regole comuni, da
adattarsi naturalmente alla nuova situazione mediante gli organi democratici a
ciò preposti; e, a livello di fede, richiedono rispetto e attenzione reciproca
ma non uniformità; anzi, dal confronto le varie fedi dovrebbero trarre stimolo
per una riflessione su se stesse e per una vera e propria conversione che non è
più quella da una fede all'altra ma da una fede sterile a quella operante
mediante l'amore, perché le fedi non sono al servizio di se stesse, ma delle
persone (non esiste la fede, da sola; esistono i/le credenti!). Per fare alcuni
esempi: non bastano certo un velo o un saio per rendere chi li indossa
timorato/a di Dio secondo la rispettiva fede; non basta un crocifisso imposto
per legge sulla parete per santificare un consiglio di amministrazione dove si
gioca sulla pelle dei poveri; o un tribunale dove non si dà giustizia ai
deboli; o una sala d'ospedale dove la sofferenza è lasciata a se stessa. In
quei casi la memoria del Risorto è profanata. Quindi, prima di fare lotte per
non perdere posizioni sui muri, ci si impegni per iscrivere quel segno, con
tutto ciò che rappresenta, nei nostri cuori. La circoncisione della carne non
conta nulla, diceva inascoltato Paolo di Tarso, se la nostra fede cristiana non
è visibile; e se è visibile come deve essere, cioè come servizio e non come
potere, nessuno ne sarà scandalizzato, anzi si troveranno sorprendenti affinità
tra le fedi e le culture, che oggi sono sbandierate come spauracchi e temute
assai più del peccato.
45/ In questo panorama – che abbiamo appena sfiorato – come testimoniare la
fede nel Cristo risorto con l'umiltà e la sincerità di chi si mette alla
sequela di Gesù senza pretendere di avere la soluzione a tutte le attese
dell'umanità e, anzi, accrescendo il rispetto e la simpatia verso ogni forma di
ricerca di senso, e riconoscendo con gioia che anche persone che si proclamano
"atee", o "agnostiche" sanno impegnare la loro vita per la
giustizia, la solidarietà, la pace, a ciò spinte semplicemente dall'amore per
chi soffre e per chi è oppresso? Come resistere alla tentazione – secondo le
parole indimenticabili di Dietrich Bonhoeffer (in Resistenza e resa, Bompiani,
Milano 1969, pp. 241 e 259) – di "far comparire Dio come tappabuchi dei
nostri vuoti di conoscenza", e considerando come peccato quella metodologia
di comunicazione del nostro essere cristiani che, nota ancora il teologo
luterano tedesco, "fiuta la pista dei peccati umani, per poter prendere in
castagna" la debolezza e le sconfitte dell'umanità di cui siamo parte? Noi
cristiani e cristiane di base esprimiamo la duplice consapevolezza che:
camminare quotidianamente con tutte le persone di buona volontà nell'impegno
per la progressiva e incessante umanizzazione della società sia anche una
testimonianza di fede nel Risorto; e che – citiamo il teologo domenicano
francese Claude Geffré, il cui pensiero bene dipinge quale dovrebbe essere oggi
il mutamento di prospettiva anche della Chiesa cattolica in una Italia ove in
pochissimi anni l'Islam è divenuto numericamente la seconda religione del Paese
– "(assistiamo) a grandi mutazioni all'interno del pensiero cristiano,
dove occorre riconoscere che stiamo vivendo una svolta teologica che si pone
sotto il segno di un nuovo paradigma, quello del pluralismo religioso. È la
risposta a una situazione storica nuova caratterizzata non più, come nel secolo
scorso, dall'indifferenza religiosa e da una secolarizzazione sempre trionfante,
ma dalla pluralità delle fedi religiose" (Concilium, 3/2005). È in tale
contesto che dobbiamo interrogarci se sia possibile annunciare in modo credibile
"Cristo è davvero risorto" se poi, insieme, non c'è l'uomo nuovo, la
nuova creatura che sorge in e da questo annuncio.
IV. Verso un Concilio della Chiesa cattolica italiana?
46/ Per la Chiesa, per ogni Chiesa, e per ogni comunità ecclesiale, la fede in
Cristo veramente risorto è motivo di immensa gioia. Esse, infatti, dovrebbero
essere inebriate di felicità, credendo che, nel Suo amore inesauribile, Dio non
ci abbandona nelle mani ossute della morte, ma con Cristo ci trascina nella
beatitudine eterna. Quanti e quante, nei due millenni, con sincerità di cuore
hanno proclamato Cristo è davvero risorto, e con limpida coerenza hanno
tradotto questa pregnante affermazione nella vita, a costo anche di dare la vita
per le sorelle e i fratelli più sofferenti o più oppressi, dimostrano la
potenza della risurrezione di Cristo. Perché questa sarebbe
"inefficace", e svuotata, se non fosse inverata in questo mondo, qui e
ora. Come Paolo ricorda (I Cor 11, 20-34) ai cristiani di Corinto che la Cena
del Signore sarebbe la "condanna" di chi, in essa, non condividesse
anche il suo proprio pane materiale con i più poveri, così, analogamente, ci
sembra di poter dire che la risurrezione di Cristo diventa "presente"
su questa terra solo quando donne e uomini, credendola, la incarnano in una vita
spesa nella solidarietà e nell'amore.
47/ Quest'ampia schiera delle e dei testimoni, ci consola; ma, in controluce,
essa obbliga a porsi una domanda inquietante: come mai per molti cristiani, ieri
e oggi, la fede nella risurrezione di Cristo non ha significato e non significa
praticamente nulla? Come mai è cresciuta in tanti cristiani la religione (ciò
che si pensa di dover dare a Dio, per acquistare meriti; essa dà sicurezza ma
toglie libertà), ma non invece la fede (il riconoscimento di ciò che Dio ci
dona gratuitamente; essa toglie sicurezza ma dà libertà)? Come mai le Chiese,
come istituzioni, troppo spesso non si sono lasciate scuotere nell'intimo dalla
proclamazione della risurrezione, ragione ultima del loro esistere? Per dare una
risposta adeguata bisognerebbe fare la storia della Chiesa e delle Chiese. Senza
osare quest'impresa impervia, a noi pare di poter intravedere una prima
spiegazione del fatto che, troppo spesso, la Chiesa - come corpo complessivo, e
senza voler e poter sapere che cosa accade nella coscienza dei singoli e come
essa accolga la grazia divina - si comporta etsi resurrectio non daretur, come
se la risurrezione non ci fosse.
48/ L'esame di coscienza non esime nessuno; ma qui ci limitiamo a parlare di noi
stessi, e della Chiesa cattolica italiana. Per quanto riguarda noi stessi – in
quanto Comunità cristiana di base – abbiamo spesso constatato non solo
l'asperità teorica a credere in Cristo veramente risorto, ma anche la
resistenza pratica a tradurre nella vita quotidiana l'annunciata proclamazione.
Ci è infatti difficile mantenere viva e squillante la fede nel Risuscitato (una
fede, beninteso, che non esclude dubbi e inquietudini, soprattutto di fronte a
morti dolorose o improvvise) e, nel contempo, trarre da essa, con serena
costanza, le conseguenze che ne dovrebbero derivare. Per ognuno e ognuna di noi,
e per noi come Comunità, spontanea allora ci sgorga dal cuore la preghiera a
Gesù del padre del ragazzo epilettico: "Credo [che tu possa guarire mio
figlio], aiutami nella mia incredulità" (Mc 9, 24).
49/ Grandi domande, poi, ci sentiamo di dover porre alla Chiesa istituzionale e
all'episcopato italiano. È possibile, a 40 anni dal Vaticano II, continuare ad
ignorare, in concreto, le conseguenze che dovrebbero derivare dall'affermazione
della Gaudium et spes, e cioè che "la Chiesa non pone la sua speranza nei
privilegi offertile dall'autorità civile. Anzi essa rinunzierà all'esercizio
di certi diritti legittimamente acquisiti ove constatasse che il loro uso
potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza" (n. 76)? È
possibile proclamarsi messaggeri al mondo di una verità indicibile e bellissima
- la morte, per grazia di Dio, non è l'ultima parola nella e sulla nostra vita
- e poi essere i primi a puntellare tale grandioso annuncio con sostegni
mondani? È possibile strutturare la Chiesa come uno Stato, mantenendo in
sottofondo un impianto costantiniano di sovranità temporale con le conseguenze
anti-evangeliche che obiettivamente ne derivano, o come una Chiesa (quasi) di
Stato, e poi, potere tra poteri, pretendere di essere presi sul serio quando si
proclama solennemente urbi et orbi, tanto meglio se attraverso una selva di
canali televisivi, che Cristo è risorto?
50/ È troppo evidente che non esiste annuncio credibile della risurrezione –
annuncio testimoniale che deve essere dato dalla Chiesa nel suo insieme e, in
essa, anche dall'episcopato come corpo – se non accompagnato dalla decisione
di mantenere la Chiesa in stato di perpetua riforma. Che, in altre parole,
significa la decisione di "adorare solo il Signore" (Mt 4, 10),
respingendo gli idoli e le loro suggestioni. A proposito, noi riteniamo che la
questione seria sollevata dalla Riforma del secolo XVI sul primato della Parola
e del Regno di Dio non sia stata debitamente ascoltata dalla Chiesa romana. Ma,
senza affrontare qui tema tanto ponderoso, indichiamo almeno qualcuna delle
riforme che, a nostro parere, urgono. Perché l'appello alla Ecclesia semper
reformanda vale per tutti, e sempre.
51/ A 40 anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II manca ancora, nella
Chiesa italiana, un organo pubblico e canonicamente garantito ove sia
istituzionalmente possibile il dialogo tra le varie componenti della comunità
ecclesiale. Sarebbe già un passo attivare davvero a livello nazionale -
applicando il principio della sussidiarietà - un Consiglio presbiterale (solo
preti) e un Consiglio pastorale (preti e laici) della Chiesa italiana. Questi
organismi dovrebbero di norma essere interpellati dall'episcopa-to su tutti i
problemi - istituzionali, pastorali, teologici, canonici - che interessano
l'intera Chiesa italiana; e le discussioni in tali organismi dovrebbero essere
pubbliche. Infatti, se i vescovi ritengono loro compito esclusivo, infine,
decidere, non si vede perché, prima, non possano e non debbano ascoltare
formalmente preti e laici, come era pur buona norma nei primi secoli della
Chiesa.
52/ A 40 anni dalla conclusione del Vaticano II i dibattiti interni alla
Conferenza episcopale italiana - Assemblee generali comprese - continuano ad
essere riservati. Al "popolo di Dio", in Italia, non viene
riconosciuto il diritto-dovere di sapere se, e perché, un vescovo ha approvato,
o respinto, una certa proposta. "Non si vogliono pressioni, o
strumentalizzazioni", si ripete. Ma, allora, che cosa significa quella
"partecipazione" di tutti alla vita della Chiesa così caldamente
raccomandata dal Concilio?
53/ A quarant'anni dal Vaticano II le voci critiche, i teologi e teologhe, e i
cenacoli, gruppi e comunità che pongono problemi fastidiosi all'establishment
ecclesiastico sono sempre tenuti alla larga. La Cei proclama la necessità del
dialogo al popolo italiano polarizzato tra Centrodestra e Centrosinistra, ma si
guarda bene dal favorire realmente un dialogo aperto, franco e coraggioso
all'interno della Chiesa italiana. Del resto, i mass-media controllati
direttamente o indirettamente dalla gerarchia ecclesiastica ben raramente fanno
filtrare voci "disomogenee". La parola che piace è solo Amen;
l'atteggiamento desiderato è l'applauso verso i Vertici; e apologetico il
commento richiesto. Altrimenti scatta la censura.
54/ Si dirà: queste critiche sono ingenerose, visto che è imminente la
convocazione del IV Convegno ecclesiale. Ma ci si perdoni se – guardando la
storia dei tre precedenti Convegni, e osservando i documenti ufficiali
preparatori dell'appuntamento veronese – noi riteniamo di non poter fare a
meno di evidenziare i limiti costitutivi di tale organismo. Un vero dibattito e
un vero confronto, infatti, non si possono fare su affermazioni generalissime e
vaghe, ma solo su problemi concreti e precisi. Ricordiamo, certo, che al
convegno di Roma, trent'anni fa, erano emerse voci critiche, sia dal palco dei
relatori ufficialmente invitati, che dalla base; ed erano spuntate, qua e là,
proposte operative per favorire davvero la collegialità e la partecipazione. Ma
poi tali voci e proposte furono inghiottite dal nulla. Ricordiamo, ancora, che
al convegno di Loreto, ventuno anni fa, l'allora presidente della Cei, card.
Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino, fece intravedere la fine del
collateralismo della Chiesa italiana con la Democrazia cristiana. Ma
l'intervento di Giovanni Paolo II "raddrizzò" l'orientamento,
spiacente a Roma, del porporato; il quale pochi mesi dopo non fu più rinominato
dal papa presidente della Cei, e Wojtyla affidò il vertice della Conferenza -
presidente e segretario - a mani più "sicure". E ricordiamo, infine,
le proposte di riforma suggerite da persone sagge come padre Michele Pellegrino,
arcivescovo di Torino, e mai raccolte.
55/ Per tali ragioni, mentre di cuore auspichiamo che anche a Verona emergano
voci e testimonianze che innervino la piattaforma ufficiale davvero povera di
proposte innovative, abbiamo l'impressione che la stagione dei Convegni
ecclesiali, come finora celebrati, sia esaurita. Bisognerebbe (questo il nostro
desiderio, che abbiamo motivo di pensare condiviso da molti e molte nella Chiesa
italiana) voltare pagina, finalmente, e volare alto. Dopo Verona non sarebbe
dunque il caso di cominciare ad ipotizzare un percorso conciliare che sbocchi
poi effettivamente in un Concilio della Chiesa cattolica italiana? Questo
cammino, e poi questo evento – se aperti all'ascolto di tutte le voci, e
capaci di accogliere rappresentanze delle varie componenti della Chiesa
italiana, senza settarie preclusioni – sarebbero il luogo e lo strumento
opportuno ove affrontare problemi nodali e incombenti: la laicità dello Stato;
il Concordato e le Intese applicative; il rapporto tra normative ecclesiastiche
e leggi civili; la connessione tra il ministero del vescovo di Roma,
"primate d'Italia", e la Chiesa italiana; lo statuto della donna nella
Chiesa (senza eludere il problema dei ministeri ordinati); lo statuto del
presbitero e la sua formazione alla sessualità; il rapporto clero/laicato; la
questione dei divorziati risposati e delle coppie di fatto, etero e gay; il
pluralismo teologico; l'ecumenismo; il dialogo interreligioso; la profezia della
pace, con un appello solenne contro gli armamenti nucleari e la minaccia del
loro uso come first strike "dissuasivo"; la povertà della e nella
Chiesa. Ciascuno di tali (e altri!) problemi dovrebbe essere affrontato –
invitando i battezzati, uomini e donne, a parteciparvi responsabilmente – a
livello parrocchiale, di "unità pastorale", e poi a livello
diocesano; e, quindi, con delegate e delegati eletti, o comunque scelti con
ampia rappresentatività, dal Concilio vero e proprio.
56/ La Chiesa cattolica italiana avviata a Concilio, convocata a Concilio, e in
stato di Concilio, sarebbe una stagione straordinariamente bella: tempo di
grazia, un vero kairòs (momento propizio) per ascoltare ciò che lo Spirito
dice oggi a questa Chiesa; un tempo forte analogo a quello che fu per l'intera
Chiesa cattolica la convocazione del Vaticano II da parte di papa Giovanni, e
poi la sua celebrazione. E, del resto, l'auspicato Concilio italiano non
potrebbe che rapportarsi - come a stella polare - al Vaticano II, per
interrogarsi su quell'evento e su quello che, sulla sua scia, e naturalmente e
necessariamente alla luce dei quarant'anni trascorsi, delle esperienze maturate,
e nelle mutate condizioni, oggi è tenuta a compiere la Chiesa italiana per
riformare se stessa in vista di un unico scopo: essere umile, lieta, consapevole
pellegrina e coerente messaggera della risurrezione di Cristo.
57/ A conclusione delle nostre riflessioni vogliamo riportare alcuni brani del
Mio prefazio a Pasqua (da Il sesto Angelo, Mondadori, Milano 1976, pp. 387-388),
una poesia di un grande testimone cristiano del nostro tempo, padre David Maria
Turoldo, con l'auspicio che essa sia inserita nella cartella delle delegate e
dei delegati al IV Convegno ecclesiale. Infatti, ci sembra che queste parole,
cariche di irruenza profetica, bene delineino quello che non dovrebbe essere, e
fare, e quello che invece dovrebbe essere e fare, una Chiesa che creda:
"Cristo è veramente risorto".
Io voglio sapere
se Cristo è veramente risorto
se la Chiesa ha mai creduto
che sia veramente risorto.
Perché allora è una potenza,
schiava come ogni potenza?
Perché non batter le strade
come una follia di sole,
a dire: Cristo è risorto, è risorto?
Perché non si libera dalla ragione
e non rinuncia alle ricchezze
per questa sola ricchezza di gioia?
[…]
Mia Chiesa amata e infedele,
mia amarezza di ogni domenica,
Chiesa che vorrei impazzita di gioia
perché è veramente risorto.
E noi grondare luce
perché vive di noi:
noi questa sola umanità
bianca a ogni festa
in questo mondo del nulla e della morte.
Amen.
Roma, 19 maggio 2006,
memoria liturgica di papa san Celestino V
La Comunità cristiana di base di san Paolo in Roma