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Ecco cosa resta del berlusconismo». Intervista a Marco Revelli

 

Roberta Carlini

 

il manifesto, 3 maggio 2006

Berlusconi non ha prodotto una nuova antropologia, l'ha sdoganata. Nel profondo metà paese rimane quello dei Caimani. «Oggi è giusto festeggiare perché il Berlusconi politico se ne va. Ma il problema è capire cosa ci resta come zavorra del paese: non solo e non tanto nella politica, quanto nel carattere nazionale del quale Berlusconi è stato specchio, maschera e grande sdoganatore». Nell'ultimo giorno del governo Berlusconi, parliamo con Marco Revelli, storico e sociologo, di quel resta e di quello che è cambiato nell'Italia del Caimano. In un arco di tempo che Revelli divide in due periodi: quello dello sdoganamento della ricchezza come valore, e quello della paura di perderla.

 

Quando dici che Berlusconi è un pezzo del carattere della nazione e non solo una parentesi politica, tracci un parallelo con i giudizi storici sul fascismo?

Sì, penso alla definizione di Gobetti sul fascismo come autobiografia e antropologia di una buona metà della nazione, come una delle forme che le tare storiche del carattere degli italiani hanno assunto. Partiamo dal momento dell'ascesa del berlusconismo, il '94; ripensiamo allo choc che tutti abbiamo provato quando questo partito istantaneo, appena quotato alla borsa della politica, si è rivelato subito maggioritario. Lì si vede chiaramente che Berlusconi non ha prodotto una nuova antropologia, l'ha sdoganata. Ha prestato la sua faccia a una parte dell'Italia che si credeva impresentabile e l'ha legittimata.

 

Non stai parlando di Fini e dell'ex-Msi, credo.

No. Il primo messaggio di Berlusconi fu molto semplice: ricco è bello, la ricchezza è un valore senza se e senza ma. E' la misura del proprio valore. Non c'è da vergognarsene, comunque sia stata guadagnata. Altre erano state le culture politiche della prima repubblica - almeno quelle pubbliche, al di là dei vizi privati. D'un colpo, quest'Italia barbara vede i suoi istinti animali esaltati come pubbliche virtù. Ricordo di aver letto con sorpresa un articolo sul Corriere nel quale Angelo Panebianco diceva che il merito di Berlusconi è nell'aver legittimato il capitalismo in Italia, al contrario della prima repubblica: mi colpì, perché il capitalismo, quello della grande fabbrica e dell'impresa pubblica, la prima repubblica l'aveva costituita. In realtà quel che Berlusconi legittimava era la ricchezza, non il capitalismo. Era uno specchio, lo specchio del grande ricco nel quale anche il piccolo ricco può trovare la giustificazione del proprio privilegio. E chi ricco non è, può aspirarvi, come i tanti che vanno sulle banchine di Porto Cervo per guardare i ricchi passare.

 

Quanto dura quel sogno?

Finisce quando si infrange sulle mancate promesse del turbo-capitalismo, quando si scopre che l'«arricchitevi» non funziona per tutti. Ma sulla crisi di quel sogno si inserisce il secondo Berlusconi, quello della «mors tua vita mea». Il messaggio cambia, diventa il «si salvi chi può», ossia: i tuoi frammenti di ricchezza li puoi salvare se non badi ai mezzi con cui li difendi.

 

Questo avviene quando nell'economia arriva la fase recessiva?

Certo, una fase in cui aumenta l'incertezza per tutti, e con essa la paura di una parte d'Italia non più sicura della propria ricchezza, che teme di tornare indietro, di tornare sotto la linea del galleggiamento ma non si rassegna a fare uno sforzo collettivo per uscirne. Anzi, il messaggio che Berlusconi interpreta e lancia allo stesso tempo è: individualmente ciascuno ce la può fare, in una lotta crudele per la sopravvivenza. La popolarità del discorso sulle tasse sta in questa logica di sopravvivenza individuale. Sulla scena politica, il «si salvi chi può» porta a qualsiasi mezzo, anche alla guerra ai propri alleati. Sulla scena sociale, mostra una lotta tra atomi predatori che non tollerano più nessun «noi»: qualsiasi processo collettivo viene vissuto come limite alla libertà personale.

 

In tutte e due le fasi, pensi che l'operazione di Berlusconi sia stata solo quella di «metterci la faccia»? Ha solo assecondato una tendenza?

Dai luoghi del potere, ne è diventato anche un formidabile acceleratore. Come dicevo prima, ha sdoganato un'Italia che prima non si presentava. Ne è diventato banditore e le ha fatto conquistare pezzi di insediamento sociale che prima non le appartenevano: c'è stata un'Italia povera conquistata da questo discorso.

 

La conquista, iniziata nel Nord, lì è stata mantenuta, come mostra il voto. Come spieghi l'arroccamento del Nord sul berlusconismo?

Perché lì il processo di individualizzazione è andato più avanti, con le trasformazioni della produzione tipiche della modernità, dove convivono residui del fordismo con capitalismi personali e delocalizzazioni. Dove gli «istinti animali» del capitalismo sono entrati nella realtà delle relazioni interpersonali.

 

Come agirà su questo scenario il cambiamento politico? In altre parole, con la caduta di Berlusconi entra in crisi anche la metà del paese che in lui si rispecchia?

Ormai il cambiamento è avvenuto, e nel profondo. E' una mutazione antropologica e non politica. Il cambio di gestione rende più respirabile l'aria nello spazio pubblico, ma l'autobiografia prosegue, perché la crisi della dimensione del «noi» non riguarda solo i Caimani, ma anche la buona società del centrosinistra e un pezzo del suo ceto politico che ha la tentazione di usare gli stessi codici, fare appello alle stesse pulsioni. Quel che è successo è il sintomo di una società completamente malata: e l'Italia non è nuova a queste malattie, in passato purtroppo le cure e gli anticorpi li ha trovati solo nelle catastrofi. Se vogliamo pensare e sperare in una via d'uscita meno tragica, a una nuova ricostruzione etica, non resta che un lavoro nei territori con un'alternativa di pratica e stile di vita. Uscire dal Grande fratello, per ritrovare un po' di realtà. E sobrietà.