NOTE AL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA
"Simboli della fede" o compromessi teologici?
Ortensio da Spinetoli
da Tempi di Fraternità
La tradizione cristiana fin dalle origini ha ritenuto opportuno fermare l’attenzione dei fedeli su "brevi formule normative" che racchiudessero l’ "essenziale" del loro credo (n° 186). La designazione ha un nome ben noto.
La parola greca "symbolon" era originariamente un oggetto (per es. la metà di un sigillo) che potesse servire come segno di riconoscimento (n° 188). In pratica i simboli sono, per il Catechismo, "le principali verità" che salvaguardano l’appartenenza cristiana (n° 188). Tutto ciò che il credente deve ritenere vero, veramente accaduto, veramente esistito o esistente, anche se riguarda eventi a lui ignoti o realtà inconoscibili, è racchiuso nel "simboli" ai quali anche il CCC fa volentieri ricorso e da cui ama attingere poiché nessuno di essi è stato composto "secondo opinioni umane" (n° 186).
Il rispetto va a tutte le raccolte (n° 192) che segnano "le diverse tappe della storia della chiesa" (n° 193) ma la preferenza è accordata al "Simbolo degli apostoli" (n° 194) e a quello "Niceno - Costantinopolitano" (n° 195). Più al primo che al secondo anche se quest’ultimo "in molti punti è più esplicito e più dettagliato" (n° 196).
1. La genesi dei simboli
Non occorre essere specialisti della storia della chiesa per sapere che le raccolte delle "verità di fede" sono lo sfocio di intese raggiunte dopo faticose trattative tra i vari schieramenti teologici presenti nelle assemblee conciliari. La scelta finale può essere ritenuta dettata dallo Spirito santo, ma di fatto esprime la volontà, la linea della corrente maggioritaria, capeggiata da validi o abili oratori e qualche volta spalleggiata da determinanti forze esterne. Non basta sempre aver ragione per vincere una "causa", occorre insieme anche molta fortuna. Sempre i "padri" fanno riferimento alle Sacre Scritture, ma rimangono vincolati alla loro estrazione culturale e alle scuole in cui è avvenuta la loro formazione. Certamente in tutti (è da supporre) c’è il sincero desiderio di confrontarsi con il volere ultimo di Dio, con le proposte di Cristo, ma forse c’è anche la ferma preoccupazione di far valere le loro vedute, le proprie interpretazioni del messaggio "rivelato". Per quanto si voglia le risposte sono sempre particolari, quindi limitate, soggettive. La parola di Dio, la predicazione di Gesù si trova già, nel nuovo testamento, in versioni, interpretazioni contingenti (mai allo stato puro); qualsiasi ripetizione segna sempre un’ulteriore relativizzazione che ci allontana sempre più dalla forma o formulazione originaria.
Il così detto "Concilio di Gerusalemme" (At 15, 1-23), più problematico di quanto appaia, emana un decreto in nome di Dio, ma è una proposta di uomini. Ritorna qui la fatidica frase: "È parso bene allo Spirito santo e a noi" (v. 28), ma alla fine si tratta di un tentativo di giudei-cristiani di imporre loro usanze e pratiche ai convertiti dal paganesimo. La chiesa madre di Gerusalemme, guidata da Giacomo e dal collegio degli anziani (vv. 2-4), cede alle pretese degli exfarisei di assoggettare i gentili alla circoncisione e all’osservanza della legge mosaica per non urtare la suscettibilità dei loro connazionali (At 15, 5,10,19,20-21).
È il primo di una serie di compromessi in cui l’ultimo è quello che si registra nel corso del Vaticano II che pure è l’assise più democratica e più aperta che si abbia avuto nella storia della chiesa. Non di meno anche qui le varie componenti teologiche si ritrovano intersecate nei vari documenti che hanno redatto. Non c’è "Costituzione" o "Decreto" in cui le due anime del Concilio, la destra e la sinistra, i conservatori e i progressisti, non siano in un modo o in un altro presenti nella stesura finale. Lo Spirito santo non può essere posto all’origine delle aspre diatribe, dei dispacci, delle accuse che partono dall’una all’altra corrente e non appare può darsi nemmeno nella loro reale o apparente ricomposizione finale. Questa è sempre frutto di una scelta concordata tra le forze in lotta.
Lo Spirito santo è troppo rispettoso della libertà dell’uomo per intromettersi nelle sue decisioni, tanto più quando queste sono prevalentemente o esclusivamente accademiche. Il credente può scorgere una presenza dello Spirito di Dio nell’aula conciliare, ma questa non si confonde con le voci più autorevoli o più autoritarie che qui riescono a farsi sentire e a dominare. I documenti del Vaticano II non sono da ritenersi né dettati, né proposti dallo Spirito santo, anche se una sua imprecisa azione possa, debba essere, a livello di fede, ipotizzata.
2. La scelta di Nicea (325)
Gesù è stato un problema per la chiesa di tutti i tempi. Il "figlio di un falegname" (Mt 13, 55) e falegname a sua volta (Mc 6, 3) è chiamato contemporaneamente "figlio di Dio", "Verbo incarnato". Titoli contraddittori che superano la comune comprensione. I primi cristiani (= nuovo Testamento) li ripetono senza discuterli ma quando entrano nella chiesa i sapienti dell’Ellade e si aprono le prime scuole teologiche ci si interroga sulla loro portata originaria e più ancora sulla loro possibile conciliazione. Hanno così origine le dispute cristologiche e più tardi trinitarie che occuperanno le migliori energie dei primi tre, quattro secoli della storia della chiesa. Sinodi e concili si alternano in Egitto, in Asia minore per dire la parola definitiva. Alcuni di essi sono rimasti più memorabili degli altri; quello di Nicea (325), di Costantinopoli (381), di Efeso (430), di Calcedonia (451).
I vangeli anche se scritti in greco hanno un’impronta semitica; passando ad altre culture si prestano a malintesi. C’è chi partendo dalla realtà umana di Gesù cerca di tenerla ancorata alla comune famiglia degli esseri creati (Ario, Eusebio, i padri antiocheni) ma altri prendono avvio dai titoli nobiliari (il Verbo di Dio, l’immagine del Padre) fino a lasciare in second’ordine o dimenticare la realtà umana (Cirillo, Anastasio, ecc.).
Tutti fanno appello alle Scritture ma non tengono sempre conto della loro natura, della portata del suo linguaggio, del senso preciso delle designazioni con cui presentano la persona di Gesù. Le diatribe sono interminabili, la taccia di eresia passa da un gruppo all’altro, le soluzioni adottate e proposte non sono sempre il risultato di un nuovo, sereno approfondimento delle fonti, ma scaturiscono il più delle volte da pressioni esterne.
Si sa che il Concilio di Nicea fu convocato dall’imperatore Costantino, che il papa Silverio sia stato appena avvertito e sia stato rappresentato da due semplici preti i quali hanno firmato il documento conclusivo dopo il rappresentante imperiale, Osio di Cordova. E dei 318 vescovi presenti quasi tutti erano orientali, solo tre europei e uno africano. Il Concilio fu tenuto nel palazzo imperiale e i padri vi giungevano a spese dell’erario pubblico come funzionari dello stato. Il discorso di apertura fu tenuto da Costantino per il quale quello che contava era che i cristiani, ormai sudditi dell’impero, non fossero divisi tra di loro. Se la maggioranza è contro Ario è contro anche l’imperatore. Il raduno si chiude con un simposio a corte e con donativi ai partecipanti. Le decisioni (la "consustanzialità" di Gesù con il Padre) sono trasmesse alle chiese dall’imperatore e i vescovi sono "esortati" ad accettarle, pena l’esilio.
Il vangelo era stato tradotto in termini filosofici greci. Le parole homoousios (consustanziale), ousia (sostanza), physis (natura), hypostasis, prosopon (persona) entrano o cominciano ad entrare nel "deposito della fede" con il significato che esse avevano nelle loro lingue originarie anche se estraneo alla Bibbia e agli autori evangelici. Si era andati più in là di quanto le Scritture consentivano, ma si era arrivati alla risposta che la pace della chiesa esigeva.
3. L’accordo di Calcedonia (451)
Il "Simbolo niceno" segnò una pausa, non la fine delle dispute teologiche. Una volta stabilita la "consustanzialità", il problema che si affacciava era quello del rapporto di Gesù con il Padre e con la sua stessa umanità. L’unità di Dio sembrava andare in crisi e Gesù non appariva un normale, perfetto uomo. A dieci anni da Nicea la cristianità è di nuovo in subbuglio. C’era anche chi si chiedeva se Maria era madre di un uomo, del Cristo o di Dio. Ario e i suoi seguaci non si davano per vinti, meno ancora i loro avversari. Gli imperatori avvalendosi del loro antico titolo di "Pontefice massimo" intervengono nel dibattito, ma inutilmente. Costante e Costanzo sono dalla parte di Ario, contro Atanasio. Ma alla fine Teodosio si schiera con i vincitori di Nicea; convoca un altro raduno di vescovi, come sempre quasi esclusivamente orientali, per calmare le acque. È il Concilio di Costantinopoli (381) che ripropone e sancisce la "formula di fede" raggiunta a Nicea. È il "Simbolo niceno - costantinopolitano". Solo che il frazionamento del popolo cristiano aumenta.
Le controversie continuano sul riferimento di Gesù con Dio Padre e con lo Spirito santo, ma più ancora sul rapporto del Verbo con l’uomo Gesù. Si tratta di un’umanità reale o fittizia; c’è anche una volontà, un’intelligenza umana, ci sono le passioni dell’uomo o sono assorbite da Dio? Queste risse preoccupano gli imperatori che si sentono costretti a intervenire per sopirle. Così nel 451 Marciano si provò a pacificare gli animi con un nuovo concilio a Calcedonia con l’intento, in contrasto con il legato papale, di arrivare a un nuovo simbolo in cui dovevano convergere le tesi che contrastavano tra di loro.
La formula "due nature e una persona" chiudeva "definitivamente" secoli di controversie cristologiche. Gesù era vero uomo, come voleva una volta Ario e i suoi latenti o aperti seguaci, e vero Dio, come chiedeva Atanasio e la sua scuola. Vi saranno nuovi concili, tre a Costantinopoli, ma la formulazione calcedonese non verrà più sostituita. In essa ognuno trova ciò che cercava. Anche se vi erano affermazioni oscure, ciò valeva anche per gli avversari. Più che risolvere il problema si preferì differire a tutti i costi la soluzione. La classica definizione di "compromesso".
L’uomo Gesù di Nazareth scompariva così dalla storia della chiesa e al suo posto entrava la "natura umana di Cristo"; la sua stessa "dimensione trascendente" si occultava dietro una problematica "natura divina". Il "vivente" per eccellenza (Lc 24, 5) rimaneva come imprigionato nei paradigmi della filosofia greca che aveva preso il nome di teologia.
Conclusione
L’appello ai "Simboli della fede" può essere pertinente, ma può risultare ambiguo, perché si fa ricorso a formule in sé e per sé sempre relative, a diciture che non hanno perso nulla della loro precarietà originaria e che allontanandosi nel tempo sono diventate sempre più astruse.
L’esegesi dei testi conciliari, ammesso che possano avere un valore decisivo, è più ardua di quella dei testi biblici. Si può sempre dire che si tratta di tentativi per "capire la fede", legittimi e rispettabili, ma non di "definizioni uniche e irreformabili" della medesima. Rievocano un’interpretazione, non la comprensione in assoluto. È la "comprensione" dei padri e dei teologi che l’hanno elaborata, perché loro sono le categorie, i veicoli culturali su cui e con cui si articolano, come è egualmente "loro" la comprensione della fede che danno al momento attuale gli autori del "Catechismo della chiesa cattolica".