Il
“Logos” è forse “ellenizzato”?
Giuseppe
Barbaglio
Riferimento fondamentale del discorso papale è il prologo dell’Evangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo (ho Logos, nel testo greco)». Per approfondire tale punto cruciale abbiamo intervistato Giuseppe Barbaglio, uno dei più noti biblisti cattolici italiani, autore di poderose opere su Gesù e sull’apostolo Paolo.
Benedetto
XVI afferma che «Logos» significa «Ragione». È sostenibile, biblicamente,
tale equiva-lenza?
Riterrei di no. Certamente, la parola Logos viene dalla cultura e dalla filosofia greca. E, tuttavia, nel suo prologo Giovanni non prende ispirazione dal mondo greco, ma dal mondo biblico del Primo Testamento.Forse, per rendere bene il pensiero dell’evangelista, dovremmo tradurre ho Logos con il Messaggio, cioè parola che viene comunicata. Dunque, «In principio era il Messaggio» , e questo si è incarnato, si è storicizzato in Gesù: «Il messaggio divino si è fatto essere mortale (carne)» (1, 14). E ancora al versetto 18 del prologo si afferma: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui 1o ha tratto fuori dall’oscurità» - così tradurrei il verbo greco exeghésato, solitamente reso con rivelato. Quindi, quella di Giovanni è una prospettiva rive-lativa: Dio si rivela comunicandosi all’uomo mediante il messaggio ultimo e definitivo incarnato in Gesù. Mi pare, dunque, che non sia sostenibile rendere Logos con Ragione.
È vero che il papa cerca di collegare Ragione e Parola, notando, «Logos significa insieme ragione e parola, una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi». Ma non mi sembra che questa connessione sia presente nel prologo di Giovanni, che ha una prospettiva rivelazionistica.
Ma non
si potrebbe ipotizzare che l’autore del quarto Vangelo abbia intenzionalmente
usato la parola «Logos» per gettare un ponte verso il mondo greco e la sua
cultura?
Certamente, l’ambiente in cui è situato
Giovanni è greco, la gente parlava il greco. Ma - per riferirci a quel
contesto: siamo verso il 100/120 dopo Cristo - vorrei rilevare che già Filone
di Alessandria, autorevole esponente della comunità ebraica della grande città
egiziana, e morto verso la metà del primo secolo, aveva un concetto non del
tutto puro ed assoluto dell’unico Dio. Egli, infatti, poneva quasi una scala
degradante da Dio verso l’intera creazione, mettendo nel mezzo tutta una serie
di esseri intermedi: il Logos,
Il
papa afferma che la «ellenizzazione» del cristianesimo è di fatto costitutiva
di esso. Significa, in parole povere, che il rivestimento greco nel quale è
stato inserito il messaggio di Gesù è normativo, ed esemplare, per sempre?
Benedetto XVI sostiene che il cristianesimo ha avuto la prima incarnazione culturale nel mondo greco. Prima e, in concreto, unica ed esclusiva, tanto è vero che il papa contrasta tutti i tentativi di dis-ellenizzazione. Perciò, alla radice, esclude ogni possibilità di altra vera inculturazione del cristianesimo. Egli afferma, infatti: «Il patrimonio greco, criticamente purificato, è una parte integrante della fede cristiana» .Così il pontefice scalza dalle fondamenta le ipotesi di quei filosofi e teologi cristiani che dicono «1iberiamo il cristianesimo dall’ellenizzazione, e torniamo al puro evangelo di Gesù di Nazareth» , per renderne così possibili altre incarnazioni culturali. Nel ragionamento di tali pensatori vi è, secondo me, un elemento ingenuo: l’idea di tornare al cristianesimo primitivo, intonso, non ellenizzato. Il problema, mi pare, non è quello di tornare indietro ma, piuttosto, quello di andare avanti. Cioè, da un’inculturazione si deve passare ad altre inculturazioni, egualmente importanti e legittime.
Ma, per riprendere il discorso di Ratisbona, quello che trovo sorprendente - sono rimasto di sasso - è che il papa praticamente ritiene che, primo, la ellenizzazione è originaria e, secondo, che è esclusiva; perciò essa, logicamente, diviene normativa. Insomma, il cristianesimo è essenzialmente infeudato nell’ellenismo. Ma se tale è, allora vuol dire che gli africani, i cinesi, gli indiani, i popoli autoctoni dell’America Latina che hanno tutt’altre culture e sensibilità rispetto a quelle greche, dovrebbero in qualche modo grecizzarsi. Ma 1’Evangelo è universale, il che significa che può incar-narsi in ogni cultura. Del resto, la vera ellenizzazione del cristianesimo è avvenuta a partire dal terzo secolo, anche se qualche elemento era presente pure prima; e allora come non vedere la sua relatività?
Con la
sua insistenza sull’«ellenizzazione», il
papa voleva forse salvaguardare i primi Concili ecu-menici, in particolare
quelli di Nicea (de1325) e di Calcedonia (451), che hanno appunto usato
ca-tegorie filosofiche - «natura», «persona» - prese dalla cultura greca per
definire i misteri della Tri-nità e dell’Incarnazione?
Noi non dobbiamo eliminare i Concili; il problema è cercare di capire che cosa volevano dire, essi, quando affermavano - come a Calcedonia - che in Cristo vi sono due nature e una persona. Formulazioni, queste, che oggi non ci dicono praticamente più niente, perche differente è la nostra sensibilità culturale. Il significato profondo che, sedici secoli fa, a Calcedonia - nel contesto della cultura greca - si riteneva di affermare con la formula «due nature, divina ed umana, ed una persona in Cristo», noi dovremmo cercare di coglierlo e poi tradurlo con categorie culturali oggi comprensibili.
A mio parere, comunque, il papa non voleva tanto riferirsi alla questione dei primi Concili ecumenici, quanto piuttosto rispondere ad un altro problema, perché - è importante notarlo - egli parlava all’università, in un’università. Forse, nelle polemiche seguite al discorso di Ratisbona, non si è riflettuto abbastanza sul fatto che il titolo della lectio magistralis fosse, appunto: «Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni».
Vogliamo approfondire questo aspetto?
Se valutiamo il discorso come «limitato» all’àmbito universitario di Ratisbona, di quella particolare università dove Ratzinger aveva antichi colleghi ed alunni della facoltà teologica in cui era stato docente, allora potremmo forse dire che il papa voleva soprattutto sottolineare ai professori e agli studenti che la teologia è quella disciplina in cui fede e ragione si trovano intimamente collegate. E che vi è «ragionevolezza» nel credere.
Ma, seppure vogliamo tener nel debito conto questa intenzione del papa, resta sempre, secondo me, una forte critica alla sua comprensione del Logos come Ragione, e alla sua valutazione della ellenizzazione normativa per il cristianesimo.
Come
comprendere il fatto che il papa all’ebraismo accenna solamente?
In effetti, Benedetto XVI parte affermando che la prima incarnazione culturale del cristianesimo fu quella greca; ma anche questo è discutibile. Nell’Ottocento - ad esempio - si insisteva molto sul fatto che l’apostolo Paolo fosse un ellenista, che aveva in qualche modo adottato la concezione dei «misteri greci»; ma oggi nessuno più sostiene questa tesi. Paolo resta un ebreo, di tradizione ebraica; è vero che egli veniva da un ambiente -Tarso - impregnato di cultura greca, e che lui stesso parlava anche il greco. E, tuttavia, il grosso del suo bagaglio culturale è ebraico. E anche il bagaglio dell’autore del quarto Evangelo proviene da ambiente ebraico, quello dell’Asia minore, seppure è più mistico, mentre Paolo è più raziocinante. Cristo, afferma Giovanni, è il Rivelatore del Padre. E il tema della Rivelazione è tipico del mondo ebraico, non di quello greco.
Gli dèi - secondo la mitologia e la cultura
greca - appaiono spesso circonfusi di gloria, e poi scompaiono, ma non parlano.
Infatti, non si conoscono parole proclamate dagli dèi al mondo.
(intervista
a cura di David Gabrielli)