334 - CHIESA PROFETICA O CHIESA DEL CULTO? |
Mentre in genere chi si professa credente, cristiano, cattolico, sembra aver chiarissimo cosa ciò significhi e comporti, e dà per scontato un determinato contenuto della propria fede, a me non pare così chiaro ciò che già si chiedeva Bonhöffer, vale a dire che cosa significhi credere oggi, che cosa voglia dire essere cristiani oggi. Per Benedetto XVI e il suo entourage il centro e il fulcro del cristianesimo oggi sembra consistere nella difesa a oltranza della tradizionale morale sessuale e familiare, nonché nella tutela esasperata della sacralità della vita nelle questioni di bioetica.
Ma
chi è Gesù?
Tutti
concordano giustamente sul fatto che la fede debba essere imprescindibilmente
cristologica, ma chi pensava di essere, Gesù? O chi affermava di essere? Egli
– perlomeno nei detti che sembrano essere autentici – non diede alcuna
chiara ed esplicita risposta. Il fulcro del problema sta nel paradosso che,
benché parlasse di rado direttamente del suo status,
Gesù implicitamente faceva di sé la
figura chiave del dramma finale che egli stava annunciando e inaugurando. Il
Regno futuro era in qualche modo già presente nella sua persona e nel suo
ministero, e nell’ultimo giorno il suo messaggio sarebbe stato il criterio in
base al quale la gente sarebbe stata giudicata.
Ma
balza subito agli occhi una differenza inquietante: per i giudeo-cristiani di
Palestina Gesù era il Messia davidico (nei suoi numerosi significati, a volte
ambigui e sfuocati), o l’ultimo profeta che inaugura il Regno di Dio, di cui
si aspettava la venuta definitiva in connessione col (ri)apparire del «Figlio
dell’uomo». Invece per i cristiani ellenistici che provenivano dal paganesimo
Gesù era soprattutto il Signore (Kyrios) venerato nel culto e nella
liturgia della comunità, la cui presenza si sperimentava nelle azioni dello
spirito. Mentre poi i giudeo-cristiani sono pieni di tensione escatologica, cioè
aspettano (almeno nel primo livello dei testi) la prossima fine del mondo, il
sorgere del Regno di Dio e del suo Messia, per i cristiani ellenisti al centro
sta invece il Signore attualmente glorificato; la loro pietà si svolge nelle
esperienze presenti, si tien desta nei “misteri” delle feste liturgiche ed
eucaristiche, e si può elevare sino a mistica vera e propria.
All’inizio
in Galilea c’è solo una connessione, anche se fortissima, fra
l’atteggiamento nei confronti di Gesù e il riconoscimento finale operato dal
Figlio dell’uomo («chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio
dell’uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio», Lc 12,9), in cui Gesù
distingue se stesso dal Figlio dell’uomo futuro (come in Mc 8,38 par). Ma la
stessa tradizione sinottica testimonia il passaggio all’identificazione fra i
due personaggi («chi mi riconoscerà…, anch’io
lo riconoscerò…», in Mt 10,32), che può essere benissimo di Gesù stesso,
il quale conoscerebbe così una maturazione del proprio pensiero e della propria
autocoscienza. Non ci sarebbe nulla di strano in uno sviluppo
interiore della sua personalità, e nella progressiva acquisizione della sua
coscienza di Messia, Profeta, Figlio dell’uomo; forse all’inizio non ne è
ancora sicuro: non solo pare nasconderla agli altri come nel vangelo di Marco
(segreto messianico), ma è nascosta forse anche a Lui stesso. Detto in altro
modo, data anche la carenza antica di categorie psicologiche tipiche dei
moderni, il fatto che all’inizio sia nascosta/inconscia pure a Lui può essere
stata espressa nella forma di nasconderla agli altri; come pure il rilanciare la
domanda sui discepoli «Voi chi dite che io sia?» può essere un modo
proiettivo per esprimere un’autocoscienza non ancora del tutto chiara.
Accresce a poco a poco in se stesso tale consapevolezza messianico-profetica,
così come la fa crescere nei discepoli.
Trovandosi
quindi ad affrontare un crescente rifiuto, potrebbe aver usato il titolo di
Figlio dell’uomo, oltre che per designare se stesso, anche per esprimere la
sua fiducia nel fatto che Dio, da ultimo, lo avrebbe sostenuto e gli avrebbe
fatto assistere al suo trionfo finale.
In
ambedue i modi (palestinese ed ellenistico) la salvezza fa perno su ciò che Dio
ha operato nella persona e nelle vicende di Gesù; nell’uno e nell’altro
caso essa è intesa come un “oltre”: ma nella visione palestinese si tratta
di un “oltre” temporale, storico e futuro, nell’attesa/speranza
dell’evento salvifico della fine del tempo (comunque esso sia più
precisamente inteso), che l’uomo sente in qualche modo già spuntare e
germogliare; mentre nella visione ellenistica abbiamo un “oltre” spaziale
puntato verso l’alto, in cui la salvezza si risolve qui e ora nella
partecipazione prevalentemente liturgica alla vita (eterna in senso giovanneo)
del Signore risorto, innalzato e glorificato. È questa la differenza
sostanziale, in genere non trattata e discussa, e non tanto la controversia
sulla figliolanza divina di Gesù: infatti, giunti a questo punto, normalmente
ci si impantava nelle infinite ed eterne discussioni se Gesù sia il Figlio di
Dio, nel senso palestinese o in quello ellenizzato, nel significato delle
controversie trinitarie e/o in quello della tradizionale interpretazione
catechistica.
Resta
il fatto che l’interpretazione palestinese (molto più vicina al Gesù
storico) non è così facilmente conciliabile con quella ellenistica: in se
stesse le due idee di un Signore
attualmente glorificato e di un Regno messianico futuro non hanno alcuna
connessione intrinseca. In effetti in Occidente l’attesa si è smorzata
ritualizzandosi nella celebrazione dell’anno liturgico (Avvento e Quaresima).
Ad es. la giusta e vibrante protesta di Aldo Bodrato nei confronti delle
promesse che tardano a realizzarsi nella storia, quasi un fallimento per Dio e
il suo regno di giustizia e di pace, ha senso solo in una visione gesuana e
palestinese, mentre non ne ha alcuno in quella ellenistica paolino-giovannea; se
la salvezza, la vita eterna e il Regno di Dio si risolvono nella comunione
prevalentemente mistico/liturgica col Signore glorificato, sfuma
nell’irrilevanza qualsiasi tensione messianica verso un futuro regno storico e
intramondano.
Anche
se il primo Paolo ha conservato l’attesa dell’imminente parusia (che
non è propriamente il Regno di Dio annunciato da Gesù; col grave abbaglio sul
fatto che non tutti moriranno, «noi che saremo ancora in vita per la venuta del
Signore», 1Ts 4,15), egli, ignorando quasi completamente il Gesù pre-pasquale,
fonda tutto il suo messaggio sulla celebrazione del mistero pasquale tramite
l’incorporazione al Cristo glorioso. Con Giovanni poi qualsiasi tensione
escatologica si spegne nella cosiddetta escatologia realizzata.
Negli
scritti giovannei, soprattutto nei capitoli del Vangelo dal 13 al 17 (i famosi
«discorsi di rivelazione» che culminano nella cosiddetta «preghiera
sacerdotale») ove non v’è il minimo accenno all’amore verso gli uomini in
generale, si annidano un particolarismo e un dualismo pericolosi: chi appartiene
al gregge di Cristo, costui crede ed è salvo, chi non vi appartiene non può
credere e ricevere lo Spirito. Tale dualismo culmina nella nota espressione: «Non
prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato» (17,9). Negli elaborati
discorsi giovannei non vi è quel Gesù che cerca i peccatori, la pecora
smarrita, il figliol prodigo ecc. In Giovanni l’amore di Dio e del Cristo non
è diretto a tutti, ma ad una parte eletta, e la sublime compassione dei
sinottici è totalmente assente. Si tratta di amore fraterno (fra confratelli e
amici nella fede comunitaria), che esclude necessariamente i peccatori e quelli
“di fuori”. Sì, Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito
(3,16), ma poi, in seguito al fatto che il mondo tenebroso non lo ha
riconosciuto e accolto (1,10s), sembra scattare un simmetrico contro-rifiuto
(3,18) per cui il Gesù del quarto evangelista non ama e non prega per il mondo,
ma ama e prega solo per i suoi amici. Ama e ama molto, ma solo i discepoli, gli
amici, Maria, Marta e Lazzaro di Betania: cioè quelli che sono i “suoi”. Se
i rabbini sono stati accusati di avere interpretato in modo troppo
particolaristico il precetto levitico dell’amore del prossimo (Lev 17,19), la
stessa cosa vale di Giovanni: un amore ristretto dentro i limiti di una razza è
forse più incompleto di un amore ristretto dentro i limiti di un “credo”?
Il
cosiddetto nuovo comandamento («amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato»,
13,34) è in aperto contrasto con le parole del Gesù sinottico, perché tale
amore è ristretto ai soli credenti (cfr. la prima lettera): i cristiani cioè
si devono amare a motivo della loro unione in Dio per mezzo del Cristo e della
loro compartecipazione alla vita eterna. Affascinati e abbagliati dalla forza,
dallo splendore e dalla bellezza delle espressioni giovannee sull’amore, non
vi abbiamo forse scorto e riconosciuto l’esclusivismo strisciante. Giovanni
traccia un circolo e vi rinchiude la sua agape restringendola a coloro
che in esso si trovano. Il Dio e il Logos-Cristo di Giovanni hanno amore solo
per coloro che si trovano nella ristretta cerchia degli amici, senza nemmeno
l’apertura del Levitico (19,34) per lo straniero. Al «nessuno ha maggior
amore di colui che dà la vita per i propri amici» (15,13), il Gesù sinottico
potrebbe controbattere: ha un amore ancor più grande colui che dà la vita per
i nemici, o anche per i non-amici. Colui che difende la storicità del quarto
Vangelo e l’autenticità del Cristo giovanneo, non fa un buon servizio a Gesù
di Nazareth.
In conclusione, nei Sinottici si parla poco di amore, ma ci è presentato un Dio che ama anche i nemici, i cattivi, gli ingiusti, gli ingrati e malvagi. Giovanni invece parla molto di amore intrattenendoci parecchio su di esso, ma con una unilateralità particolaristica ed esclusiva: Dio ama, il Cristo ama, amano i cristiani, ma solo coloro dai quali sono amati (incappando nel rimprovero di Gesù «se amate quelli che vi amano, che merito ne avete?», Mt 5,46). Per la salvezza bisogna entrare, attraverso i riti di iniziazione e sacramentali (Battesimo ecc.), nella cerchia degli “amici” e confratelli di fede, nella circolazione dell’amore e della grazia all’interno del proprio circolo riservato. Il cristianesimo cattolico, italico-romano, sia nella coscienza non riflessa dei fedeli che in quella della gerarchia, si è fondamentalmente strutturato nella prospettiva paolino-giovannea-ellenistica: il Regno e la salvezza si conseguono nella celebrazione liturgica e nella comunione col Cristo Signore glorificato. Tutta la spiritualità è stata permeata in tal senso. Ma come passare dall’«extra ecclesiam nulla salus» al «extra spem, extra adventum Regni nulla salus»? Si tratta in fondo di ripensare e rivivere l’escatologia, superando (che non significa buttare via del tutto) la bimillenaria visione ellenistica.