MESSAGGIO O MESSAGGERO? DAL SUPERAMENTO DEL CRISTOCENTRISMO ALLA CONVERSIONE A GESÙ
DOC-1752. ROMA-ADISTA. "Ogni volta che indico la luna,
qualcuno si ferma a guardarmi il dito". Per il teologo della Liberazione
José María Vigil, il proverbio cinese fotografa bene quanto avvenuto nel
cristianesimo: la trasformazione del messaggero del Regno in messaggio. O, per
dirla con il teologo francese Alfred Loisy, anche lui citato da Vigil, "Gesù
annunciò il Regno, ma quello che è venuto è stata la Chiesa". Nel suo
intervento dal titolo "Verso una spiritualità pluralista della
liberazione", contenuto nel terzo libro della serie "Per i molti
cammini di Dio" (di cui Adista ha riportato ampi stralci nel n. 46/06),
Vigil, curatore del libro insieme a Marcelo Barros e a Luiza Tomita, sottolinea
con forza come "le principali affermazioni che costituiscono il nucleo del
cristianesimo non solo sono estranee a Gesù, ma, in un certo senso, sono
contrarie alle sue parole e persino ai suoi fatti". La ricerca di una
spiritualità pluralista della liberazione, secondo il teologo, passerebbe
proprio da qui, dal compito di de-assolutizzare il dogma cristologico, di
superare il cristocentrismo in direzione di un "geocentrismo gesuanico",
di un ritorno a Gesù che è al tempo stesso "una vera ‘conversione' al
Gesù reale".
Se poi è vero che l'assunzione del paradigma pluralista sembra mettere in
discussione, dal punto di vista dell'ortodossia romana, addirittura l'essenza
del cristianesimo, Vigil ricorda come tante volte, in passato, affermazioni
considerate prima essenziali siano state successivamente abbandonate o
esplicitamente negate: "le tensioni si daranno, o sono già qui,
nell'Inquisizione di turno. Ci troviamo come negli ultimi anni di Pio XII: in
poco tempo, quello che oggi è soggetto a persecuzione ed esilio sarà
riabilitato e riconosciuto. Tempo al tempo. Intanto, quanti non hanno visione
storica e sufficiente ampiezza di vedute stanno soffrendo e fanno
soffrire". Di seguito l'intervento, nella sua quasi integralità, di Vigil
in una nostra traduzione dallo spagnolo. (claudia fanti)
VERSO UNA SPIRITUALITÀ PLURALISTA DELLA LIBERAZIONE
Il proposito di questo libro è quello di elaborare un primo
abbozzo di "teologia cristiana pluralista della liberazione". In
questo quadro, il presente capitolo intende analizzare teologicamente il tema di
una possibile "spiritualità pluralista della liberazione". È
evidente che, fino ad oggi, la spiritualità cristiana è stata esclusivista e
inclusivista. Al momento, una spiritualità cristiana pluralista della
liberazione è più una ricerca che una realtà, ma è anche uno spirito nuovo,
che va germogliando e crescendo in modo impercettibile ma incontenibile, sebbene
non abbia ancora trovato chi lo formuli e lo esprima compiutamente. Non che qui
si stia intraprendendo una tale avventura, che rimane tutta in questione e che
reclama che qualcuno l'assuma. Suggeriremo solo piste, squarci, intuizioni…
che ci parlano di questa spiritualità pluralista della liberazione, la cui
formulazione esplicita è sempre più vicina.
Punto di partenza
Partiamo da una constatazione di principio. La spiritualità della liberazione e
la teologia della liberazione latinoamericane sono state chiaramente
inclusiviste. Qui vogliamo, tuttavia, parlare di una spiritualità
"pluralista" della liberazione. È logico che fra una spiritualità
inclusivista e una pluralista devono esserci differenze notevoli. Queste
differenze sono l'oggetto del nostro studio.
Non pensiamo che queste differenze siano di dettaglio o possano consistere in
piccole aggiunte o ritocchi a latere poco rilevanti per una sostanza centrale,
identica in entrambe le forme di spiritualità. No. Inclusivismo e pluralismo
sono due "paradigmi" diversi e, in quanto tali, sono concezioni
globali distinte, cosmovisioni differenti, strutture generali di pensiero
diverse. Non ci sono differenze più grandi che le differenze di paradigma. I
dati, le parole, le categorie… possono essere le stesse; ma la loro
organizzazione, la loro strutturazione e il loro senso… sono profondamente
altro.
In questo studio, ci concentreremo su due differenze che crediamo siano le
maggiori nel caratterizzare la spiritualità pluralista della liberazione
rispetto alla precedente classica spiritualità inclusivista della liberazione.
E aggiungeremo una riflessione finale sul carattere "cristiano" di
tale spiritualità pluralista della liberazione. Saranno queste le tre parti del
nostro studio.
I. Una più umile autostima
(…) Al punto di evoluzione della coscienza spirituale cristiana cui siamo
giunti oggi, crediamo che non si possa più parlare, come allora,
dell'"ordine di conoscenza della salvezza", ossia della conoscenza al
singolare. È evidente che dobbiamo parlare dell'ordine delle
"conoscenze" della salvezza. Non esiste solo la conoscenza cristiana
della salvezza, ne esistono molte altre, almeno tante quante sono le religioni.
Noi non siamo i "depositari esclusivi" né della salvezza né della
sua conoscenza.
Ma continuiamo con le nostre domande. Se ammettiamo che ci sono conoscenze - al
plurale - della salvezza, possiamo domandarci: la nostra conoscenza della
salvezza è "una di più" o è quella luce peculiare della cui fonte
partecipano le altre, quella che conterrebbe in sé tutte le altre, quella che,
per ciò stesso, sarebbe chiamata a sovrabbondare sulle altre luci per
completarle e condurle a pienezza?
Da un parte, è chiaro che una spiritualità sarà pluralista nella misura in
cui supererà la "teoria del compimento o fine": se continuiamo a
pensare che la luce della fede cristiana è "la luce peculiare, speciale,
chiamata a sussumere in se stessa tutte le altre…", rimarremo chiaramente
all'interno dell'inclusivismo. Il paradigma pluralista implica l'accetta-zione
di una reale pluralità di vie della salvezza autonome, senza che una includa e
rinchiuda le altre. Ma, d'altra parte, il paradigma pluralista non esige una
simmetria assoluta, in base alla quale tutte le vie della salvezza sarebbero
uguali, interamente equiparabili, indifferentemente intercambiabili… I teologi
pluralisti di oggi - praticamente tutti - adottano un pluralismo che chiamano
"asimmetrico": considerano che tutte le religioni non sono uguali di
fatto, che alcune hanno raggiunto un grado di profondità o di altezza maggiore
di altre e che le loro forme, categorie e idiomi propri abbiano tabelle tra loro
"incommensurabili", per cui anche la comparazione non è sempre
possibile (può esserlo in qualche caso).
Riprendiamo le domande e riassumiamole risposte.
La nostra conoscenza della salvezza è "una fra altre"? In un certo
senso sì, lo è.
La nostra luce è una "luce peculiare"? Sì, certamente, ma non è
l'unica peculiare: tutte le luci dell'arco multicolore che Dio irradia in questo
mondo sono peculiari, ognuna con una unicità peculiare, tutte
"uniche" ognuno a proprio modo.
Partecipano tutte le altre della nostra luce? Rispondiamo: la fonte dalla quale
germoglia la nostra luce è la stessa dalla quale germogliano tutte le altre
luci. Ma le altre luci non procedono dalla nostra, ma direttamente dalla fonte.
È la nostra luce quella chiamata a completare e condurre a pienezza le altre? Sì,
è chiamata a questo, ma non solo lei, tutte le luci. Dato che tutte le luci
sono peculiari e che la loro peculiarità è incomparabile e incommensurabile,
è logico pensare che tutte possano contribuire all'arcobaleno della luce
totale. Tutte sono chiamate a portare il loro contributo. E tutte chiamate ad
arricchirsi accogliendo l'appor-to altrui.
Andiamo un po' più in là: ce n'è una che non deve attendere nulla dalle altre
perché è già tutta in se stessa? Non ce n'è. Dupuis cercherà di
giustificare questa visione distinguendo tra una pienezza quantitativa e una
pienezza qualitativa… Nei fatti, ricorderemmo l'apporto che il cristianesimo
sta ricevendo dalle religioni orientali negli ultimi decenni, come mette in
evidenza il boom di pubblicazioni a riguardo.
C'è "una" luce che "deve evangelizzare le altre", visto che
è la luce superiore che completerà le altre? Risponderemo con un sì e con un
no insieme. Sì, perché tutte le religioni devono "evangelizzare" le
altre, tutte devono fare uno sforzo per offrire alle altre le loro ricchezze,
con spirito di libertà, di rispetto dell'alterità e di accoglienza
dell'identità altrui. Ma anche no, perché, dal punto di vista pluralista,
assiomaticamente, nessuna deve pensare che la sua luce è superiore a quella
delle altre.
È ovvio che in questo contesto la visione cristiana della "missione"
deve essere riconsiderata, rifondata - anche qui - con un sì e con un no.
"Sì", continua ad avere senso - e molto senso, tutto il senso -
condividere le ricchezze della propria spiritualità con le altre religioni. Ma
insieme "no", l'antica "missione" deve morire perché oggi
è evidente che non può più avere il senso di conquista, di imposizione, di
sottovalutazione dell'altro che ha avuto classicamente. Nessuna luce deve
offrirsi come se fosse l'unica valida, come se fosse la luce che deve
necessariamente mortificare qualsiasi altra, come se fosse una luce che non ha
niente da apprendere né può arricchirsi di nessun'altra scintilla.
Paul Knitter dice: "essere profondamente religioso è, deve significare,
essere ampiamente religioso". Oggi, nel nuovo contesto socio-religioso del
mondo e nella vicinanza e disponibilità con la quale ci si presentano le altre
religioni, non si può essere profondamente religiosi se ci si cala
verticalmente solo nella propria tradizione… Oggi una persona, se è
profondamente in ricerca dell'esperienza religiosa, non può che essere aperta
alle molteplici esperienze religiose che ci circondano e si fanno a noi presenti
e vicine.
Il movimento di "inculturazione della fede cristiana", che fu l'ultimo
grido di novità nella teologia latinoamericana, sta cominciando a rivelarsi
chiaramente insufficiente, non tanto perché oggi tale impostazione non smette
di essere imperialista, quanto perché, nelle prospettive attuali, è necessaria
non una inculturazione, ma una "inreligionazione", prospettiva che la
IV Conferenza del Celam (Santo Domingo, 1992) neanche immaginò.
Riassumendo: questa trasformazione attuale della visione e della coscienza è un
ponte che stiamo attraversando nel passaggio dalla spiritualità classica della
liberazione, inclusivista, alla spiritualità pluralista della liberazione. La
spiritualità cristiana sta cercando di togliersi dal mezzo, di spostarsi dal
centro verso un lato, per lasciare al centro solo Dio, come a lui spetta. Non è
che le altre religioni girino intorno a noi. Noi, con le atre spiritualità,
giriamo intorno a Dio. Smettiamo di accarezzare quel presupposto incosciente per
il quale noi staremmo con Dio al centro, destinati ad irradiare salvezza a tutta
l'umanità, come strumento stesso eletto da Dio per salvarla, per cui l'umanità
non avrebbe accesso alla salvezza se non tramite noi. Stiamo per abbandonare il
"cristianocentrismo" che abbiamo trascinato incoscientemente ancora
negli ultimi decenni: sapevamo che non eravamo al centro, però ci credevamo
compagni immediati di chi stava al centro, per cui anche noi godevamo di uno
statuto centrale… Se rinunceremo a crederci al centro, ci costerà accettare
l'umiltà di guardare la pluralità religiosa non dal palcoscenico, ma dalla
platea, non dall'ordine de "la" conoscenza della salvezza, ma
condividendo fraternamente con gli altri molte conoscenze della salvezza...
II. Una deassolutizzazione del cristocentrismo
È questa l'altra grande caratteristica che segnerà la differenza tra la
spiritualità pluralista della liberazione e la spiritualità classica (inclusivista)
della liberazione. Ovviamente non si può parlare di questo tema con precisione
né con sicurezza. Siamo appena all'inizio di una nuova epoca. L'esperienza
tanto attuale, tanto nuova del pluralismo religioso, come abbiamo detto,
comporta un cambiamento del paradigma, un cambiamento globale che si può fare
solo con un discernimento continuo e per tentativi. Nessuna formulazione deve
essere presentata precipitosamente come matura e non correggibile.
Senza dubbio, l'espressione "deasolutizzare il cristocentrismo" potrà
sembrare strana a chi non è al corrente dei movimenti attuali della teologia; e
sarà suscettibile di fraintendimenti o potrà sembrare anche provocatoria a chi
non si sforzi di capire quello che si vuole dire.
Questo compito di "deassolutizzare il cristocentrismo" si
collegherebbe - in negativo - a quel movimento nel quale, nella genesi del Nuovo
Testamento, il messaggero del Regno si converte egli stesso in messaggio, in
"autobasileia". La predicazione del Regno, che era la predicazione
stessa di Gesù, è stata soppiantata dalla predicazione del Risuscitato.
"Gesù annunciò il Regno, ma quella che è venuta è stata la
Chiesa", dirà lamentevolmente A. Loisy. "Quando indico la luna, c'è
sempre qualcuno che si ferma a guardare il dito", dice un proverbio cinese.
Se Gesù tornasse, forse ci rivolgerebbe lo stesso rimprovero di Loisy e del
proverbio cinese. Bisogna che qualcuno dia una scossa ai cristiani perché si
rendano conto di qualcosa di tremendamente significativo: le principali
affermazioni che costituiscono il nucleo del cristianesimo non solo sono
estranee a Gesù, ma in qualche modo, contrarie alle sue parole e anche ai suoi
fatti. Non sono qualcosa che ha detto Gesù, ma qualcosa che noi diciamo che
egli pensò sebbene non l'abbia detto, o qualcosa che possiamo attribuirgli
sebbene non l'abbia mai fatta sua. Per esempio:
- Gesù non fu sacerdote, né levita, ma nettamente laico. Però noi ci siamo
messi al sicuro considerandolo Sommo Sacerdote; dire, come facciamo, che lo è
della Nuova Alleanza sembra già che ci dia il diritto di lasciar da parte il
suo chiaro atteggiamento profetico laicale e antisacerdotale…
- Gesù fu povero, uno fra i poveri, nemico di ogni atteggiamento di potere…
ma questo non ci ha impedito di dichiararlo Re dell'Universo. Anche qui, la
teologia dirà che lo è in un altro senso…, ma nell'immaginario cristiano
finiremo col vestirlo come un autentico re, con trono e scettro, "Cristo
Re", Pantocrator…
- Per quanto le primitive comunità si siano costituite sul contenuto della
predicazione di Gesù, "Gesù - come Budda o come Maometto - non predicò
mai se stesso; si rimise sempre al Padre: a Dio e al suo Regno. Gesù fu, senza
dubbio alcuno, ‘teocentrico'", benché su venti secoli di cristianesimo,
più di diciannove siano stati di cristocentrismo esclusivo e meno di uno -
almeno ufficialmente e maggioritariamente - di cristocentrismo inclusivo.
Molto probabilmente, Gesù non si confessò mai come Dio, né come Figlio
metafisico di Dio, né come "Dio Figlio", né come seconda persona di
una Santissima Trinità… Non entriamo ora a discutere di questi temi relativi
alla "difficile espressione della sua divinità". Facciamo constatare
semplicemente che il processo di assolutizzazione di Cristo è avvenuto molto
dopo il Gesù storico e ha avuto momenti ben distinti, e che in questo processo
si sono registrate cristologie non solo molto diverse ma anche parzialmente
contraddittorie.
È stato un processo, una riflessione collettiva, un'elabo-razione teologica
nella quale sono intervenuti anche il potere, i giochi di influenza e i desideri
di egemonia di distinte forze e gruppi sociali, inclusi problemi e intenzioni
molto umane e meno confessabili. Il divenire storico ha dato come frutto
l'esclusione di alcune posizioni teologiche e la selezione di altre. E questo è
stato il risultato di fatto del processo conclusosi nei secoli IV e V. Ma perché
- contrariamente a tutte le leggi della storia - consideriamo chiuso quel
processo e dichiariamo che è lì "la fine della storia" per quanto
riguarda il discernimento teologico? Perché sacralizzare alcune conclusioni
teologiche e non assumere il dovere permanente di auscultare i segni dei tempi
per continuare a discernere teologicamente? Come quelle generazioni di cristiani
si assunsero la responsabilità di discernere teologicamente, oggi noi dobbiamo
assumerci la nostra.
Siamo in un momento di ripiegamento, in un cambiamento radente del divenire
civile della storia. Nuovi orizzonti, inediti, si aprono davanti a noi e ci
spingono a rifondare le precedenti opinioni teologiche, comprese quelle
cristologiche. "Il mutamento di atteggiamento rispetto alle altre religioni
che si è andato affermando a partire dal Vaticano II implica una rivalutazione
dottrinale del punto nodale del cristianesimo: la cristologia". Duquoc ha
elaborato pochi anni fa una teologia che è stata molto bene accolta nella
comunità teologica; oggi riconosce che la visione cristologica del suo nuovo
libro "a malapena si rifà a quella scritta nel 1968-1972" e che
questo nuovo approccio cristologico "si scontra ora con una questione più
radicale: il carattere centrale di Cristo, messo in questione dalla pluralità
religiosa", per cui quello che spetta fare non è più "un
aggiornamento della sua precedente opera", ma un'esplora-zione nuova. Non
si tratta di rinnovare modelli, ma di cambiare paradigmi: il cristocentrismo
assolutizzato che la nostra generazione ha ereditato è in crisi; "non si
può più parlare, senza sfumature né riserve, semplicemente di ‘cristocentrismo'":
"è obbligatorio rivederlo con assoluta serietà".
Tutto ciò significa che, nel campo cristologico, la spiritualità pluralista
della liberazione sta operando una trasformazione della spiritualità classica
della liberazione che non deve sorprenderci. La spiritualità pluralista della
liberazione sta deassolutizzando il cristocentrismo (come poteva essere
altrimenti se diciamo che non è inclusivista, ma pluralista?), ma non sta
lasciando in nessun modo Gesù ai margini. Al contrario: sta tornando sempre più
a Gesù, riassumendo con rinnovata forza e coscienza il suo teocentrismo e il
suo regnocentrismo, la sua apertura macroecumenica, il suo rigore teopratico e
anticultuale, il suo superamento dell'eccle-siocentrismo e il suo desiderio di
condurci addirittura "più in là della stessa religione". Seguitiamo
a tornare a Gesù, questo scrigno inesauribile di sorprese che, in questo nuovo
"tempo assiale" che stiamo vivendo, ci stupisce con un messaggio
interamente compatibile con il paradigma pluralista e di dialogo interreligioso.
Concludendo l'approccio di questa seconda parte, potremmo dire che la
spiritualità pluralista della liberazione sembra evolvere verso una:
- demetafisicizzazione della spiritualità cristologica: si può essere
cristiani senza essere aristotelici, né tomisti, anche senza credere nella
metafisica, come uomini e donne di una cultura "postmetafisica" o di
una cultura semplicemente non occidentale;
- dedogmatizzazione della cristologia, che significa anche "deassolutizzazione
dei dogmi" o mantenimento dell'aper-tura alla costante reinterpretazione
nella quale consistono la teologia e la vita di fede;
- demitizzazione generale del cristianesimo: se - oggi lo sappiamo - non c'è
stato peccato originale, non c'è potuta essere redenzione, né tantomeno c'è
stato un "Redentore" in quel preciso senso mitico, né l'umanità ne
ha bisogno… La spiritualità pluralista della liberazione è una spiritualità
per questa epoca pluralista, per un tempo nel quale è sorta una nuova
cosmologia e una nuova visione del mondo, per l'uomo e per la donna di oggi, di
una società che non è più agraria e non ha bisogno (né tollera) le
"credenze". Per questo fa bene a purificarsi delle aderenze
mitologiche (è un tema distinto ma concomitante con quello del pluralismo);
- superamento del cristocentrismo, avanzando verso un "teocentrismo
gesuanico";
- ritorno a Gesù: la spiritualità pluralista della liberazione continua quel
ritorno verso Gesù già intrapreso dalla spiritualità classica della
liberazione, in aspetti e dimensioni che allora ci sembrarono sconcertanti (Gesù
come "non fondatore" di una religione e che supera le religioni
stesse, come "non fondatore della missione universale"…). Un ritorno
a Gesù che è insieme una vera "conversione" al Gesù reale…
III. Paradigma pluralista e identità cristiana
Il tema su cui vogliamo riflettere in questo punto finale non è esclusivo della
spiritualità pluralista della liberazione, ma di tutta la teologia pluralista.
Se lo poniamo qui è per generosità nell'assumere una spinosa responsabilità
comune.
Il problema posto suonerebbe così: non pochi teologi hanno paura del paradigma
pluralista perché, dicono, "se questa posizione teologica si afferma,
rimane fuori dai limiti dell'essenza del cristianesimo. Se una teologia pensa
che il cristianesimo non è ‘la' (unica) verità rivelata e che le altre
religioni non sono semplici partecipazioni alla salvezza cristiana (essendo
questa l'unica reale salvezza, alla quale ridurre le altre), questa teologia non
è cristiana". Così dicono.
Non sempre nelle discussioni teologiche è in gioco l'ac-cusa di essere "al
di fuori della fede cristiana". Questo succede quando si attraversano
congiunture trasformatrici che esigono una ristrutturazione generale del nucleo
del pensiero cristiano che fino ad allora era ritenuto tradizionalmente come
essenziale e non negoziabile, oltre i cui limiti si incorrerebbe in una
"trasgressione identitaria". È il caso tipico dei "cambiamenti
di paradigma". E l'attuale passaggio dall'inclu-sivismo al pluralismo è
anche un cambiamento di paradigma. Per questo è assolutamente normale che i
pensatori ancorati alla vecchia visione inclusivista sentano che il nuovo
paradigma pluralista "esce" dal quadro di quelli che "fino ad
ora" sono stati i limiti dell'identità cristiana, oltre i quali "non
potremmo più parlare propriamente di cristianesimo".
Questo, come dicevamo, sta succedendo oggi in questo momento di passaggio dall'inclusivismo
al pluralismo, e non tanto né principalmente nel campo della spiritualità,
quanto in tutti i rami teologici. La denunciata avversione della Congregazione
per la Dottrina della Fede (continuatrice storica e legittima erede
dell'Inquisizione) verso i teologi pluralisti, fino a considerarli il suo
peggior nemico (tanto che in questo avrebbero soppiantato i teologi della
liberazione dei decenni passati), è il caso più grave di questo fenomeno che,
per il resto, è naturale, inevitabile e vecchio come la storia stessa delle
religioni.
Si tratta del tema dell'identità cristiana, o della "sostanza del
cristianesimo". Ci hanno insegnato che si trattava di una sostanza
definita, stabile, di più, "immutabile"… ma oggi percepiamo che in
realtà è tutto il contrario: un'essenza storica in evoluzione, in
trasformazione continua e incessante. E ci riferiamo proprio alla sostanza, non
agli accidenti… Dimensioni, affermazioni che in passato sono state considerate
"sostanziali" (oltre le quali non si poteva parlare veramente di
cristianesimo) e a causa delle quali sono stati lanciati anatemi contro coloro
che vi contravvenivano, successivamente sono state abbandonate o addirittura
esplicitamente negate. Sono molti i casi in questo senso nella storia della
Chiesa, e questo dovrebbe farci riflettere per non ripetere oggi lo stesso
deplorevole spettacolo di conflitti, anatemi e sofferenze inutili:
- c'è stato un tempo in cui l'affermazione che "fuori dalla Chiesa non c'è
salvezza" è stata considerata così certa ed essenziale che furono
dichiarati formalmente e solennemente fuori dalla salvezza "quelli che si
trovano fuori dalla Chiesa cattolica, non solo i pagani, ma anche gli ebrei, gli
eretici e gli scismatici". Costoro, è stato assicurato impegnando
l'autorità massima della Chiesa, "andranno al fuoco eterno che è stato
preparato per il diavolo e i suoi angeli, a meno che, prima del termine della
loro vita, siano incorporati alla Chiesa… Nessuno, per grandi che siano le sue
elemosine, o malgrado effonda il suo sangue per Cristo, potrà salvarsi se non
nel seno e nell'unità della Chiesa cattolica". Ebbene, nella metà del
secolo XX tale affermazione è stata considerata innanzitutto obsoleta, e poi
chiaramente falsa. I limiti di quello che era "essenziale" alla
salvezza cristiana - tanto chiari nel Medio Evo - subirono un notevole
spostamento, fino ad includere all'interno del cristianesimo l'affermazione
semplicemente contraria: che anche fuori dalla Chiesa c'è salvezza;
- Galileo è stato processato per aver sostenuto un'opi-nione scientifica allora
chiaramente contraria alla rivelazione biblica, incompatibile con la verità
cristiana, cosa considerata più che sufficiente per dichiararlo fuori dai
limiti del cristianesimo. E i cardinali avevano ragione: secondo il loro modo di
vedere (all'interno del loro paradigma) l'afferma-zione di Galileo era
incompatibile con "la verità cristiana rivelata", così come essi la
intendevano. Più tardi, la stessa affermazione di Galileo "fu fatta
rientrare nel cristianesimo". Come? Ampliando i limiti di questa sostanza
presuntamente immutabile;
- quando, negli anni '50, la Chiesa attraversava un'epoca da "fine
pontificato", con tutti i rinserramenti e gli anchilosamenti che tappe
simili comportano, i migliori teologi europei hanno patito il discredito, la
riduzione al silenzio, la persecuzione, l'isolamento. Le loro opinioni erano
considerate eretiche, incompatibili con "l'insegnamento della Chiesa",
gravemente pregiudizievoli per la fede cristiana. Saranno riabilitati dieci anni
dopo, riconosciuti come maestri del pensiero teologico ecclesiale, e la loro
teologia - quella stessa che prima era stata condannata - passerà a diventare
parte dell'insieme teologico del Vaticano II. Quello che prima era stato
considerato gravemente contrario alla fede cattolica, in pochi anni è diventato
la sua migliore espressione.
Non è questo il momento per fare un elenco delle molte altre affermazioni che
lungo la storia del cristianesimo si sono ritenute essenziali e immutabili e
che, col tempo, sono diventate obsolete o, come dicevamo, soppiantate da
opinioni contrarie. Ma è il momento per convincersi che non deve succedere lo
stesso a noi in questo nuovo cambiamento di paradigma attualmente in corso, il
passaggio del paradigma dall'inclusivismo a quello del pluralismo. (…)
C'è stato un cristianesimo esclusivista (il cui ricordo ci causa orrore) e c'è
un cristianesimo inclusivista (che in molti di noi provoca profonda
insoddisfazione). Il futuro – non abbiamo dubbi – sarà pluralista, per
quanto possa dispiacere a molti inclusivisti di oggi. Questo vuol dire che si
produrrà un nuovo spostamento della "sostanza" del cristianesimo.
Dato che questo passaggio dall'inclusivismo al pluralismo riguarda la fede
cristologica come punto più sensibile, alcuni logicamente dichiareranno il
cristianesimo pluralista come "post-cristiano" (la qual cosa
ovviamente, sebbene molto meno grave che considerarlo "fuori dalla
salvezza" o colpirlo con anatemi, come si è fatto storicamente in
situazioni di transizione simili, suona molto peggio).
In ogni caso, "tutto è secondo il colore del vetro attraverso il quale si
guarda". Ossia, tutto dipende da dove ognuno vede il limite del
cristianesimo, un limite che è in costante movimento storico, pur se molti lo
ignorano.
Le tensioni arrivano, o sono già lì, nell'Inquisizione di turno. La situazione
ricorda quella degli ultimi anni di Pio XII: entro poco tempo, quello che oggi
è soggetto a persecuzione ed esilio sarà riabilitato e riconosciuto. Tempo al
tempo. Intanto, coloro che non hanno visione storica e sufficiente ampiezza di
vedute stanno soffrendo e fanno soffrire.
Concludiamo. La teologia della liberazione e la spiritualità della liberazione
stanno cercando di avvicinarsi alla soglia della civiltà che l'umanità intera
sta attraversando, entrando in un nuovo paradigma pluralista in tutti i campi.
Cosa inevitabile in questa tappa della storia che registra un processo
accelerato di globalizzazione, di unificazione, di incontro di tutte le identità
che fino ad ora, da sempre, erano vissute isolate e autoesaltate. Il momento
attuale non è un momento qualsiasi, non è una tappa "normale" del
processo, ma un cambiamento all'interno del cambiamento, un cambiamento d'epoca,
un "tempo assiale", cambiamento di paradigma, soglia di civiltà,
salto qualitativo, mutazione, metamorfosi globale. Le identità, che sono sempre
state in evoluzione storica, stanno subendo anche ora gravi e accelerate
trasformazioni, forse mutazioni identitarie sostanziali. Sbagliano coloro che
pensano di poter fermare il sole come Giosuè. Non sbagliano coloro che, invece
di ostinarsi, si decidono a cavalcare questo temerario cavallo e cercano di
vedere dall'alto della groppa verso dove ci porta, per adeguarsi meglio alla
direzione e avanzare verso il futuro, per dare anche ad esso, se possibile, il
nostro umile contributo.