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MESSAGGIO O MESSAGGERO? DAL SUPERAMENTO DEL CRISTOCENTRISMO ALLA CONVERSIONE A GESÙ


ADISTA n. 52 del 8.7.2006

DOC-1752. ROMA-ADISTA. "Ogni volta che indico la luna, qualcuno si ferma a guardarmi il dito". Per il teologo della Liberazione José María Vigil, il proverbio cinese fotografa bene quanto avvenuto nel cristianesimo: la trasformazione del messaggero del Regno in messaggio. O, per dirla con il teologo francese Alfred Loisy, anche lui citato da Vigil, "Gesù annunciò il Regno, ma quello che è venuto è stata la Chiesa". Nel suo intervento dal titolo "Verso una spiritualità pluralista della liberazione", contenuto nel terzo libro della serie "Per i molti cammini di Dio" (di cui Adista ha riportato ampi stralci nel n. 46/06), Vigil, curatore del libro insieme a Marcelo Barros e a Luiza Tomita, sottolinea con forza come "le principali affermazioni che costituiscono il nucleo del cristianesimo non solo sono estranee a Gesù, ma, in un certo senso, sono contrarie alle sue parole e persino ai suoi fatti". La ricerca di una spiritualità pluralista della liberazione, secondo il teologo, passerebbe proprio da qui, dal compito di de-assolutizzare il dogma cristologico, di superare il cristocentrismo in direzione di un "geocentrismo gesuanico", di un ritorno a Gesù che è al tempo stesso "una vera ‘conversione' al Gesù reale".
Se poi è vero che l'assunzione del paradigma pluralista sembra mettere in discussione, dal punto di vista dell'ortodossia romana, addirittura l'essenza del cristianesimo, Vigil ricorda come tante volte, in passato, affermazioni considerate prima essenziali siano state successivamente abbandonate o esplicitamente negate: "le tensioni si daranno, o sono già qui, nell'Inquisizione di turno. Ci troviamo come negli ultimi anni di Pio XII: in poco tempo, quello che oggi è soggetto a persecuzione ed esilio sarà riabilitato e riconosciuto. Tempo al tempo. Intanto, quanti non hanno visione storica e sufficiente ampiezza di vedute stanno soffrendo e fanno soffrire". Di seguito l'intervento, nella sua quasi integralità, di Vigil in una nostra traduzione dallo spagnolo. (claudia fanti)

VERSO UNA SPIRITUALITÀ PLURALISTA DELLA LIBERAZIONE


 di José María Vigil

chi è Josè Maria Vigil

Il proposito di questo libro è quello di elaborare un primo abbozzo di "teologia cristiana pluralista della liberazione". In questo quadro, il presente capitolo intende analizzare teologicamente il tema di una possibile "spiritualità pluralista della liberazione". È evidente che, fino ad oggi, la spiritualità cristiana è stata esclusivista e inclusivista. Al momento, una spiritualità cristiana pluralista della liberazione è più una ricerca che una realtà, ma è anche uno spirito nuovo, che va germogliando e crescendo in modo impercettibile ma incontenibile, sebbene non abbia ancora trovato chi lo formuli e lo esprima compiutamente. Non che qui si stia intraprendendo una tale avventura, che rimane tutta in questione e che reclama che qualcuno l'assuma. Suggeriremo solo piste, squarci, intuizioni… che ci parlano di questa spiritualità pluralista della liberazione, la cui formulazione esplicita è sempre più vicina.

Punto di partenza
Partiamo da una constatazione di principio. La spiritualità della liberazione e la teologia della liberazione latinoamericane sono state chiaramente inclusiviste. Qui vogliamo, tuttavia, parlare di una spiritualità "pluralista" della liberazione. È logico che fra una spiritualità inclusivista e una pluralista devono esserci differenze notevoli. Queste differenze sono l'oggetto del nostro studio.
Non pensiamo che queste differenze siano di dettaglio o possano consistere in piccole aggiunte o ritocchi a latere poco rilevanti per una sostanza centrale, identica in entrambe le forme di spiritualità. No. Inclusivismo e pluralismo sono due "paradigmi" diversi e, in quanto tali, sono concezioni globali distinte, cosmovisioni differenti, strutture generali di pensiero diverse. Non ci sono differenze più grandi che le differenze di paradigma. I dati, le parole, le categorie… possono essere le stesse; ma la loro organizzazione, la loro strutturazione e il loro senso… sono profondamente altro.
In questo studio, ci concentreremo su due differenze che crediamo siano le maggiori nel caratterizzare la spiritualità pluralista della liberazione rispetto alla precedente classica spiritualità inclusivista della liberazione. E aggiungeremo una riflessione finale sul carattere "cristiano" di tale spiritualità pluralista della liberazione. Saranno queste le tre parti del nostro studio.

I. Una più umile autostima
(…) Al punto di evoluzione della coscienza spirituale cristiana cui siamo giunti oggi, crediamo che non si possa più parlare, come allora, dell'"ordine di conoscenza della salvezza", ossia della conoscenza al singolare. È evidente che dobbiamo parlare dell'ordine delle "conoscenze" della salvezza. Non esiste solo la conoscenza cristiana della salvezza, ne esistono molte altre, almeno tante quante sono le religioni. Noi non siamo i "depositari esclusivi" né della salvezza né della sua conoscenza.
Ma continuiamo con le nostre domande. Se ammettiamo che ci sono conoscenze - al plurale - della salvezza, possiamo domandarci: la nostra conoscenza della salvezza è "una di più" o è quella luce peculiare della cui fonte partecipano le altre, quella che conterrebbe in sé tutte le altre, quella che, per ciò stesso, sarebbe chiamata a sovrabbondare sulle altre luci per completarle e condurle a pienezza?
Da un parte, è chiaro che una spiritualità sarà pluralista nella misura in cui supererà la "teoria del compimento o fine": se continuiamo a pensare che la luce della fede cristiana è "la luce peculiare, speciale, chiamata a sussumere in se stessa tutte le altre…", rimarremo chiaramente all'interno dell'inclusivismo. Il paradigma pluralista implica l'accetta-zione di una reale pluralità di vie della salvezza autonome, senza che una includa e rinchiuda le altre. Ma, d'altra parte, il paradigma pluralista non esige una simmetria assoluta, in base alla quale tutte le vie della salvezza sarebbero uguali, interamente equiparabili, indifferentemente intercambiabili… I teologi pluralisti di oggi - praticamente tutti - adottano un pluralismo che chiamano "asimmetrico": considerano che tutte le religioni non sono uguali di fatto, che alcune hanno raggiunto un grado di profondità o di altezza maggiore di altre e che le loro forme, categorie e idiomi propri abbiano tabelle tra loro "incommensurabili", per cui anche la comparazione non è sempre possibile (può esserlo in qualche caso).
Riprendiamo le domande e riassumiamole risposte.
La nostra conoscenza della salvezza è "una fra altre"? In un certo senso sì, lo è.
La nostra luce è una "luce peculiare"? Sì, certamente, ma non è l'unica peculiare: tutte le luci dell'arco multicolore che Dio irradia in questo mondo sono peculiari, ognuna con una unicità peculiare, tutte "uniche" ognuno a proprio modo.
Partecipano tutte le altre della nostra luce? Rispondiamo: la fonte dalla quale germoglia la nostra luce è la stessa dalla quale germogliano tutte le altre luci. Ma le altre luci non procedono dalla nostra, ma direttamente dalla fonte.
È la nostra luce quella chiamata a completare e condurre a pienezza le altre? Sì, è chiamata a questo, ma non solo lei, tutte le luci. Dato che tutte le luci sono peculiari e che la loro peculiarità è incomparabile e incommensurabile, è logico pensare che tutte possano contribuire all'arcobaleno della luce totale. Tutte sono chiamate a portare il loro contributo. E tutte chiamate ad arricchirsi accogliendo l'appor-to altrui.
Andiamo un po' più in là: ce n'è una che non deve attendere nulla dalle altre perché è già tutta in se stessa? Non ce n'è. Dupuis cercherà di giustificare questa visione distinguendo tra una pienezza quantitativa e una pienezza qualitativa… Nei fatti, ricorderemmo l'apporto che il cristianesimo sta ricevendo dalle religioni orientali negli ultimi decenni, come mette in evidenza il boom di pubblicazioni a riguardo.
C'è "una" luce che "deve evangelizzare le altre", visto che è la luce superiore che completerà le altre? Risponderemo con un sì e con un no insieme. Sì, perché tutte le religioni devono "evangelizzare" le altre, tutte devono fare uno sforzo per offrire alle altre le loro ricchezze, con spirito di libertà, di rispetto dell'alterità e di accoglienza dell'identità altrui. Ma anche no, perché, dal punto di vista pluralista, assiomaticamente, nessuna deve pensare che la sua luce è superiore a quella delle altre.
È ovvio che in questo contesto la visione cristiana della "missione" deve essere riconsiderata, rifondata - anche qui - con un sì e con un no. "Sì", continua ad avere senso - e molto senso, tutto il senso - condividere le ricchezze della propria spiritualità con le altre religioni. Ma insieme "no", l'antica "missione" deve morire perché oggi è evidente che non può più avere il senso di conquista, di imposizione, di sottovalutazione dell'altro che ha avuto classicamente. Nessuna luce deve offrirsi come se fosse l'unica valida, come se fosse la luce che deve necessariamente mortificare qualsiasi altra, come se fosse una luce che non ha niente da apprendere né può arricchirsi di nessun'altra scintilla.
Paul Knitter dice: "essere profondamente religioso è, deve significare, essere ampiamente religioso". Oggi, nel nuovo contesto socio-religioso del mondo e nella vicinanza e disponibilità con la quale ci si presentano le altre religioni, non si può essere profondamente religiosi se ci si cala verticalmente solo nella propria tradizione… Oggi una persona, se è profondamente in ricerca dell'esperienza religiosa, non può che essere aperta alle molteplici esperienze religiose che ci circondano e si fanno a noi presenti e vicine.
Il movimento di "inculturazione della fede cristiana", che fu l'ultimo grido di novità nella teologia latinoamericana, sta cominciando a rivelarsi chiaramente insufficiente, non tanto perché oggi tale impostazione non smette di essere imperialista, quanto perché, nelle prospettive attuali, è necessaria non una inculturazione, ma una "inreligionazione", prospettiva che la IV Conferenza del Celam (Santo Domingo, 1992) neanche immaginò.
Riassumendo: questa trasformazione attuale della visione e della coscienza è un ponte che stiamo attraversando nel passaggio dalla spiritualità classica della liberazione, inclusivista, alla spiritualità pluralista della liberazione. La spiritualità cristiana sta cercando di togliersi dal mezzo, di spostarsi dal centro verso un lato, per lasciare al centro solo Dio, come a lui spetta. Non è che le altre religioni girino intorno a noi. Noi, con le atre spiritualità, giriamo intorno a Dio. Smettiamo di accarezzare quel presupposto incosciente per il quale noi staremmo con Dio al centro, destinati ad irradiare salvezza a tutta l'umanità, come strumento stesso eletto da Dio per salvarla, per cui l'umanità non avrebbe accesso alla salvezza se non tramite noi. Stiamo per abbandonare il "cristianocentrismo" che abbiamo trascinato incoscientemente ancora negli ultimi decenni: sapevamo che non eravamo al centro, però ci credevamo compagni immediati di chi stava al centro, per cui anche noi godevamo di uno statuto centrale… Se rinunceremo a crederci al centro, ci costerà accettare l'umiltà di guardare la pluralità religiosa non dal palcoscenico, ma dalla platea, non dall'ordine de "la" conoscenza della salvezza, ma condividendo fraternamente con gli altri molte conoscenze della salvezza...

II. Una deassolutizzazione del cristocentrismo
È questa l'altra grande caratteristica che segnerà la differenza tra la spiritualità pluralista della liberazione e la spiritualità classica (inclusivista) della liberazione. Ovviamente non si può parlare di questo tema con precisione né con sicurezza. Siamo appena all'inizio di una nuova epoca. L'esperienza tanto attuale, tanto nuova del pluralismo religioso, come abbiamo detto, comporta un cambiamento del paradigma, un cambiamento globale che si può fare solo con un discernimento continuo e per tentativi. Nessuna formulazione deve essere presentata precipitosamente come matura e non correggibile.
Senza dubbio, l'espressione "deasolutizzare il cristocentrismo" potrà sembrare strana a chi non è al corrente dei movimenti attuali della teologia; e sarà suscettibile di fraintendimenti o potrà sembrare anche provocatoria a chi non si sforzi di capire quello che si vuole dire.
Questo compito di "deassolutizzare il cristocentrismo" si collegherebbe - in negativo - a quel movimento nel quale, nella genesi del Nuovo Testamento, il messaggero del Regno si converte egli stesso in messaggio, in "autobasileia". La predicazione del Regno, che era la predicazione stessa di Gesù, è stata soppiantata dalla predicazione del Risuscitato. "Gesù annunciò il Regno, ma quella che è venuta è stata la Chiesa", dirà lamentevolmente A. Loisy. "Quando indico la luna, c'è sempre qualcuno che si ferma a guardare il dito", dice un proverbio cinese.
Se Gesù tornasse, forse ci rivolgerebbe lo stesso rimprovero di Loisy e del proverbio cinese. Bisogna che qualcuno dia una scossa ai cristiani perché si rendano conto di qualcosa di tremendamente significativo: le principali affermazioni che costituiscono il nucleo del cristianesimo non solo sono estranee a Gesù, ma in qualche modo, contrarie alle sue parole e anche ai suoi fatti. Non sono qualcosa che ha detto Gesù, ma qualcosa che noi diciamo che egli pensò sebbene non l'abbia detto, o qualcosa che possiamo attribuirgli sebbene non l'abbia mai fatta sua. Per esempio:
- Gesù non fu sacerdote, né levita, ma nettamente laico. Però noi ci siamo messi al sicuro considerandolo Sommo Sacerdote; dire, come facciamo, che lo è della Nuova Alleanza sembra già che ci dia il diritto di lasciar da parte il suo chiaro atteggiamento profetico laicale e antisacerdotale…
- Gesù fu povero, uno fra i poveri, nemico di ogni atteggiamento di potere… ma questo non ci ha impedito di dichiararlo Re dell'Universo. Anche qui, la teologia dirà che lo è in un altro senso…, ma nell'immaginario cristiano finiremo col vestirlo come un autentico re, con trono e scettro, "Cristo Re", Pantocrator…
- Per quanto le primitive comunità si siano costituite sul contenuto della predicazione di Gesù, "Gesù - come Budda o come Maometto - non predicò mai se stesso; si rimise sempre al Padre: a Dio e al suo Regno. Gesù fu, senza dubbio alcuno, ‘teocentrico'", benché su venti secoli di cristianesimo, più di diciannove siano stati di cristocentrismo esclusivo e meno di uno - almeno ufficialmente e maggioritariamente - di cristocentrismo inclusivo.
Molto probabilmente, Gesù non si confessò mai come Dio, né come Figlio metafisico di Dio, né come "Dio Figlio", né come seconda persona di una Santissima Trinità… Non entriamo ora a discutere di questi temi relativi alla "difficile espressione della sua divinità". Facciamo constatare semplicemente che il processo di assolutizzazione di Cristo è avvenuto molto dopo il Gesù storico e ha avuto momenti ben distinti, e che in questo processo si sono registrate cristologie non solo molto diverse ma anche parzialmente contraddittorie.
È stato un processo, una riflessione collettiva, un'elabo-razione teologica nella quale sono intervenuti anche il potere, i giochi di influenza e i desideri di egemonia di distinte forze e gruppi sociali, inclusi problemi e intenzioni molto umane e meno confessabili. Il divenire storico ha dato come frutto l'esclusione di alcune posizioni teologiche e la selezione di altre. E questo è stato il risultato di fatto del processo conclusosi nei secoli IV e V. Ma perché - contrariamente a tutte le leggi della storia - consideriamo chiuso quel processo e dichiariamo che è lì "la fine della storia" per quanto riguarda il discernimento teologico? Perché sacralizzare alcune conclusioni teologiche e non assumere il dovere permanente di auscultare i segni dei tempi per continuare a discernere teologicamente? Come quelle generazioni di cristiani si assunsero la responsabilità di discernere teologicamente, oggi noi dobbiamo assumerci la nostra.
Siamo in un momento di ripiegamento, in un cambiamento radente del divenire civile della storia. Nuovi orizzonti, inediti, si aprono davanti a noi e ci spingono a rifondare le precedenti opinioni teologiche, comprese quelle cristologiche. "Il mutamento di atteggiamento rispetto alle altre religioni che si è andato affermando a partire dal Vaticano II implica una rivalutazione dottrinale del punto nodale del cristianesimo: la cristologia". Duquoc ha elaborato pochi anni fa una teologia che è stata molto bene accolta nella comunità teologica; oggi riconosce che la visione cristologica del suo nuovo libro "a malapena si rifà a quella scritta nel 1968-1972" e che questo nuovo approccio cristologico "si scontra ora con una questione più radicale: il carattere centrale di Cristo, messo in questione dalla pluralità religiosa", per cui quello che spetta fare non è più "un aggiornamento della sua precedente opera", ma un'esplora-zione nuova. Non si tratta di rinnovare modelli, ma di cambiare paradigmi: il cristocentrismo assolutizzato che la nostra generazione ha ereditato è in crisi; "non si può più parlare, senza sfumature né riserve, semplicemente di ‘cristocentrismo'": "è obbligatorio rivederlo con assoluta serietà".
Tutto ciò significa che, nel campo cristologico, la spiritualità pluralista della liberazione sta operando una trasformazione della spiritualità classica della liberazione che non deve sorprenderci. La spiritualità pluralista della liberazione sta deassolutizzando il cristocentrismo (come poteva essere altrimenti se diciamo che non è inclusivista, ma pluralista?), ma non sta lasciando in nessun modo Gesù ai margini. Al contrario: sta tornando sempre più a Gesù, riassumendo con rinnovata forza e coscienza il suo teocentrismo e il suo regnocentrismo, la sua apertura macroecumenica, il suo rigore teopratico e anticultuale, il suo superamento dell'eccle-siocentrismo e il suo desiderio di condurci addirittura "più in là della stessa religione". Seguitiamo a tornare a Gesù, questo scrigno inesauribile di sorprese che, in questo nuovo "tempo assiale" che stiamo vivendo, ci stupisce con un messaggio interamente compatibile con il paradigma pluralista e di dialogo interreligioso.
Concludendo l'approccio di questa seconda parte, potremmo dire che la spiritualità pluralista della liberazione sembra evolvere verso una:
- demetafisicizzazione della spiritualità cristologica: si può essere cristiani senza essere aristotelici, né tomisti, anche senza credere nella metafisica, come uomini e donne di una cultura "postmetafisica" o di una cultura semplicemente non occidentale;
- dedogmatizzazione della cristologia, che significa anche "deassolutizzazione dei dogmi" o mantenimento dell'aper-tura alla costante reinterpretazione nella quale consistono la teologia e la vita di fede;
- demitizzazione generale del cristianesimo: se - oggi lo sappiamo - non c'è stato peccato originale, non c'è potuta essere redenzione, né tantomeno c'è stato un "Redentore" in quel preciso senso mitico, né l'umanità ne ha bisogno… La spiritualità pluralista della liberazione è una spiritualità per questa epoca pluralista, per un tempo nel quale è sorta una nuova cosmologia e una nuova visione del mondo, per l'uomo e per la donna di oggi, di una società che non è più agraria e non ha bisogno (né tollera) le "credenze". Per questo fa bene a purificarsi delle aderenze mitologiche (è un tema distinto ma concomitante con quello del pluralismo);
- superamento del cristocentrismo, avanzando verso un "teocentrismo gesuanico";
- ritorno a Gesù: la spiritualità pluralista della liberazione continua quel ritorno verso Gesù già intrapreso dalla spiritualità classica della liberazione, in aspetti e dimensioni che allora ci sembrarono sconcertanti (Gesù come "non fondatore" di una religione e che supera le religioni stesse, come "non fondatore della missione universale"…). Un ritorno a Gesù che è insieme una vera "conversione" al Gesù reale…

III. Paradigma pluralista e identità cristiana
Il tema su cui vogliamo riflettere in questo punto finale non è esclusivo della spiritualità pluralista della liberazione, ma di tutta la teologia pluralista. Se lo poniamo qui è per generosità nell'assumere una spinosa responsabilità comune.
Il problema posto suonerebbe così: non pochi teologi hanno paura del paradigma pluralista perché, dicono, "se questa posizione teologica si afferma, rimane fuori dai limiti dell'essenza del cristianesimo. Se una teologia pensa che il cristianesimo non è ‘la' (unica) verità rivelata e che le altre religioni non sono semplici partecipazioni alla salvezza cristiana (essendo questa l'unica reale salvezza, alla quale ridurre le altre), questa teologia non è cristiana". Così dicono.
Non sempre nelle discussioni teologiche è in gioco l'ac-cusa di essere "al di fuori della fede cristiana". Questo succede quando si attraversano congiunture trasformatrici che esigono una ristrutturazione generale del nucleo del pensiero cristiano che fino ad allora era ritenuto tradizionalmente come essenziale e non negoziabile, oltre i cui limiti si incorrerebbe in una "trasgressione identitaria". È il caso tipico dei "cambiamenti di paradigma". E l'attuale passaggio dall'inclu-sivismo al pluralismo è anche un cambiamento di paradigma. Per questo è assolutamente normale che i pensatori ancorati alla vecchia visione inclusivista sentano che il nuovo paradigma pluralista "esce" dal quadro di quelli che "fino ad ora" sono stati i limiti dell'identità cristiana, oltre i quali "non potremmo più parlare propriamente di cristianesimo".
Questo, come dicevamo, sta succedendo oggi in questo momento di passaggio dall'inclusivismo al pluralismo, e non tanto né principalmente nel campo della spiritualità, quanto in tutti i rami teologici. La denunciata avversione della Congregazione per la Dottrina della Fede (continuatrice storica e legittima erede dell'Inquisizione) verso i teologi pluralisti, fino a considerarli il suo peggior nemico (tanto che in questo avrebbero soppiantato i teologi della liberazione dei decenni passati), è il caso più grave di questo fenomeno che, per il resto, è naturale, inevitabile e vecchio come la storia stessa delle religioni.
Si tratta del tema dell'identità cristiana, o della "sostanza del cristianesimo". Ci hanno insegnato che si trattava di una sostanza definita, stabile, di più, "immutabile"… ma oggi percepiamo che in realtà è tutto il contrario: un'essenza storica in evoluzione, in trasformazione continua e incessante. E ci riferiamo proprio alla sostanza, non agli accidenti… Dimensioni, affermazioni che in passato sono state considerate "sostanziali" (oltre le quali non si poteva parlare veramente di cristianesimo) e a causa delle quali sono stati lanciati anatemi contro coloro che vi contravvenivano, successivamente sono state abbandonate o addirittura esplicitamente negate. Sono molti i casi in questo senso nella storia della Chiesa, e questo dovrebbe farci riflettere per non ripetere oggi lo stesso deplorevole spettacolo di conflitti, anatemi e sofferenze inutili:
- c'è stato un tempo in cui l'affermazione che "fuori dalla Chiesa non c'è salvezza" è stata considerata così certa ed essenziale che furono dichiarati formalmente e solennemente fuori dalla salvezza "quelli che si trovano fuori dalla Chiesa cattolica, non solo i pagani, ma anche gli ebrei, gli eretici e gli scismatici". Costoro, è stato assicurato impegnando l'autorità massima della Chiesa, "andranno al fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e i suoi angeli, a meno che, prima del termine della loro vita, siano incorporati alla Chiesa… Nessuno, per grandi che siano le sue elemosine, o malgrado effonda il suo sangue per Cristo, potrà salvarsi se non nel seno e nell'unità della Chiesa cattolica". Ebbene, nella metà del secolo XX tale affermazione è stata considerata innanzitutto obsoleta, e poi chiaramente falsa. I limiti di quello che era "essenziale" alla salvezza cristiana - tanto chiari nel Medio Evo - subirono un notevole spostamento, fino ad includere all'interno del cristianesimo l'affermazione semplicemente contraria: che anche fuori dalla Chiesa c'è salvezza;
- Galileo è stato processato per aver sostenuto un'opi-nione scientifica allora chiaramente contraria alla rivelazione biblica, incompatibile con la verità cristiana, cosa considerata più che sufficiente per dichiararlo fuori dai limiti del cristianesimo. E i cardinali avevano ragione: secondo il loro modo di vedere (all'interno del loro paradigma) l'afferma-zione di Galileo era incompatibile con "la verità cristiana rivelata", così come essi la intendevano. Più tardi, la stessa affermazione di Galileo "fu fatta rientrare nel cristianesimo". Come? Ampliando i limiti di questa sostanza presuntamente immutabile;
- quando, negli anni '50, la Chiesa attraversava un'epoca da "fine pontificato", con tutti i rinserramenti e gli anchilosamenti che tappe simili comportano, i migliori teologi europei hanno patito il discredito, la riduzione al silenzio, la persecuzione, l'isolamento. Le loro opinioni erano considerate eretiche, incompatibili con "l'insegnamento della Chiesa", gravemente pregiudizievoli per la fede cristiana. Saranno riabilitati dieci anni dopo, riconosciuti come maestri del pensiero teologico ecclesiale, e la loro teologia - quella stessa che prima era stata condannata - passerà a diventare parte dell'insieme teologico del Vaticano II. Quello che prima era stato considerato gravemente contrario alla fede cattolica, in pochi anni è diventato la sua migliore espressione.
Non è questo il momento per fare un elenco delle molte altre affermazioni che lungo la storia del cristianesimo si sono ritenute essenziali e immutabili e che, col tempo, sono diventate obsolete o, come dicevamo, soppiantate da opinioni contrarie. Ma è il momento per convincersi che non deve succedere lo stesso a noi in questo nuovo cambiamento di paradigma attualmente in corso, il passaggio del paradigma dall'inclusivismo a quello del pluralismo. (…)
C'è stato un cristianesimo esclusivista (il cui ricordo ci causa orrore) e c'è un cristianesimo inclusivista (che in molti di noi provoca profonda insoddisfazione). Il futuro – non abbiamo dubbi – sarà pluralista, per quanto possa dispiacere a molti inclusivisti di oggi. Questo vuol dire che si produrrà un nuovo spostamento della "sostanza" del cristianesimo. Dato che questo passaggio dall'inclusivismo al pluralismo riguarda la fede cristologica come punto più sensibile, alcuni logicamente dichiareranno il cristianesimo pluralista come "post-cristiano" (la qual cosa ovviamente, sebbene molto meno grave che considerarlo "fuori dalla salvezza" o colpirlo con anatemi, come si è fatto storicamente in situazioni di transizione simili, suona molto peggio).
In ogni caso, "tutto è secondo il colore del vetro attraverso il quale si guarda". Ossia, tutto dipende da dove ognuno vede il limite del cristianesimo, un limite che è in costante movimento storico, pur se molti lo ignorano.
Le tensioni arrivano, o sono già lì, nell'Inquisizione di turno. La situazione ricorda quella degli ultimi anni di Pio XII: entro poco tempo, quello che oggi è soggetto a persecuzione ed esilio sarà riabilitato e riconosciuto. Tempo al tempo. Intanto, coloro che non hanno visione storica e sufficiente ampiezza di vedute stanno soffrendo e fanno soffrire.
Concludiamo. La teologia della liberazione e la spiritualità della liberazione stanno cercando di avvicinarsi alla soglia della civiltà che l'umanità intera sta attraversando, entrando in un nuovo paradigma pluralista in tutti i campi. Cosa inevitabile in questa tappa della storia che registra un processo accelerato di globalizzazione, di unificazione, di incontro di tutte le identità che fino ad ora, da sempre, erano vissute isolate e autoesaltate. Il momento attuale non è un momento qualsiasi, non è una tappa "normale" del processo, ma un cambiamento all'interno del cambiamento, un cambiamento d'epoca, un "tempo assiale", cambiamento di paradigma, soglia di civiltà, salto qualitativo, mutazione, metamorfosi globale. Le identità, che sono sempre state in evoluzione storica, stanno subendo anche ora gravi e accelerate trasformazioni, forse mutazioni identitarie sostanziali. Sbagliano coloro che pensano di poter fermare il sole come Giosuè. Non sbagliano coloro che, invece di ostinarsi, si decidono a cavalcare questo temerario cavallo e cercano di vedere dall'alto della groppa verso dove ci porta, per adeguarsi meglio alla direzione e avanzare verso il futuro, per dare anche ad esso, se possibile, il nostro umile contributo.