Autogol
Rossana Rossanda
il manifesto del 27.2.2007
Ammesso che domani o doman l'altro passi anche al Senato, il
governo Prodi bis è già spostato al centro. I dodici punti che il nostro
premier ha preteso e che gli sono stati rapidamente concessi, pena il suo ritiro
e lo scioglimento delle Camere, questo sono. E di questo è significativo il
voto annunciato di Marco Follini. Ma è un equilibrio fragile. E non solo per i
numeri, che pur qualcosa significano, ma perché è venuto in luce che quel che
lo ha messo e lo tiene insieme è l'urgenza di togliere di mezzo la Casa della
Libertà, non una idea condivisa del che fare per l'Italia. La stessa urgenza lo
ha ricomposto adesso, a contraddizioni irrisolte.
E' un caso particolare in Europa, una coalizione di centronistra che ha bisogno
di tutta la sinistra, incluso il voto dei movimenti radicali, mentre quella del
centrodestra non pone limiti a destra fino alle sue forme estreme fasciste e
razziste - cosa che non avviene in nessun altro paese dell'occidente europeo,
tanto da produrre figure atipiche come Berlusconi o alleanze indigeste a
Bruxelles come l'asse Berlusconi-Bossi. Sta di fatto che, come ha detto - non so
se con qualche rincrescimento - il presidente Napolitano, non appare possibile
una Grosse Koalition fra due blocchi così opposti, nessuno dei due ha voglia di
andare alle elezioni (malgrado gli stramazzi, anche il Cavaliere ha i suoi
problemi a tener insieme una divisa Casa della Libertà), né è maturo quel
centro del quale si sente precursore Marco Follini.
E tuttavia è in fibrillazione l'arruffato bipolarismo italiano. Primo, è
ricorrente l'incapacità di quella che chiamavamo la borghesia di darsi una
leadership pulita almeno sotto il profilo democratico, ed è permamente la sua
tentazione di ricorso a populismi come la Lega e la parte più vecchia di An. La
così anomala presenza fin nelle istituzioni di personaggi fascisti viene di
qui. E dopo gli anni '80 e la fine della Democrazia cristiana, i cosiddetti
poteri forti più moderni occhieggiano alle ex sinistre perché siano loro a
fornirgli una figura di sostituzione. Secondo, e derivato, quando le sinistre
tutte riescono a unirsi è per la priorità di togliersi di torno destra o
centrodestra impresentabili, rimandando il confronto sulle discriminanti non da
poco che esistono fra loro. E' un rinvio possibile finché si è all'opposizione
o in campagna elettorale, ma diventa impraticabile appena si è al governo, dove
le scelte stringono e si è responsabili davanti alla propria base elettorale.
E' quel che è successo anche nel corso della prima esperienza Prodi, e tenderà
a succedere nella seconda.
I ricorrenti infarti dell'Unione non hanno origini secondarie. Malgrado il mare
di personalismi, imprudenze e pochezze di cui si sono circondati per il giubilo
della stampa, hanno cause molto serie. Due di esse comuni a tutta l'Europa
occidentale - la pressione esercitata dalla globalizzazione liberista sul «modello
europeo», o renano, o come lo si voglia chiamare, che ha presieduto dal 1945
alla strutturazione delle nostre società - e la collocazione da assumere nei
confronti degli Stati Uniti una volta caduta l'Urss e finita la guerra fredda.
Il terzo è del tutto italico, ed è il peso che esercita dopo il 1989 la chiesa
cattolica sulla nostra scena politica.
E' su questi problemi che ogni volta affiora una rottura ed è su di essi che
Prodi ha dato un giro di vite nel patto prendere-o-lasciare in dodici punti. La
prima volta è stato con la finanziaria, dove la priorità data al risanamento
del debito pubblico imposto dalla Banca centrale e dalla Commissione - strumenti
continentali della deregulation - ha messo limiti cogenti a un riequilibrio
nella distribuzione che sarebbe stato necessario alla base delle sinistre e del
sindacato. Di fatto, da un lato ha significato bloccare la spesa pubblica e
dall'altro non ha toccato in alcun modo le imprese, puntando su un aumento del
salassato potere d'acquisto attraverso i risparmi che verrebbero dalle
liberalizzazioni di settori secondari (Bersani, taxi, farmacie, eccetera) invece
che da un aumento dei salari, e garantendo loro il rifinanziamento attraverso la
sottrazione del Tfr ai lavoratori e l'obbligo di versarlo ai fondi pensione -
operazione geniale di persuasione dei medesimi che è meglio una gallina
(eventuale) domani che un uovo (sicuro) oggi. Ma lo scoglio più difficile da
eludere sarà quello delle pensioni.
Paradossale, e determinato più da propensioni e idiosincrasie interne che da un
ragionamento sulle tendenze effettive della scena internazionale, la
collocazione dell'Italia rispetto all'amministrazione americana. Diversamente da
alcuni anni fa, quando l'attacco dell'11 settembre e la risposta di Bush con la
guerra all'Afghanistan e poi all'Iraq parevano obbligare il pianeta al «siamo
tutti americani», l'impantanamento in Medioriente, l'aggravarsi in Iraq della
guerra civile e il degradarsi crescente della questione israelo-palestinese,
nonché la scelta iraniana di dotarsi del nucleare civile, hanno gettato la
quotazione di Bush al livello più basso mai raggiunto da un presidente Usa.
Minoritario nell'opinione e nelle elezioni del Senato e del Congresso, è la sua
escalation che è messa radicalmente in causa, e le conseguenze che il Patriot
Act ha avuto nella vita interna degli States e nei suoi rapporti con il resto
del mondo.
E' sembrato che Massimo D'Alema, come ministro degli esteri, cercasse di
disincagliarsene senza una plateale rottura - così si è mantenuto l'impegno
dell'Unione sul ritiro dall'Iraq, sono state rinviate al mittente le pressioni
dei sei ambasciatori e si sarebbe dovuta articolare una discontinuità
dall'Afghanistan, meno facile a causa della copertura che all'impresa aveva dato
a cose fatte l'Onu - ma non è chiaro, a chi è fuori dal palazzo, perché
Romano Prodi abbia d'improvviso avallato la concessione di Berlusconi di una
seconda base americana a Vicenza e messo come condizione al suo restare in scena
il rifinanziamento della nostra presenza in Afghanistan. Alla prima non lo
obbligava alcun trattato, contava solo la partecipazione a una Nato i cui
compiti saranno sicuramente ridiscussi alla scadenza di Bush, e la seconda non
tiene in alcun modo dei nuovi sviluppi della situazione in Afghanistan. Perché
manifestare disprezzo, egli stesso e Giuliano Amato, ai pacifisti di Vicenza, i
cui voti gli erano stati necessarissimi?
Ma qui si sono cumulati gli errori: perché, se il governo si è mosso con
arroganza, non risulta che le sinistre in parlamento abbiano avanzato alcuna
iniziativa di discussione e aggiornamento sulla situazione internazionale che
forse avrebbe portato a uno scontro, ma senza la quale non era possibile neanche
una mediazione su un terreno, come si diceva una volta, più avanzato. Il
governo è stato per cadere all'ombra d'un Afghanistan mentre - ma pare che
nessuno lo abbia notato - Karzai era oggetto dell'attacco non dei talebani ma
dei signori della guerra suoi alleati, e come lui assassini di Massud, nonché,
come lui, profittatori del papavero.
Con chi stiamo in Afghanistan, per quale fine concreto ci siamo, quali alleanze
sosteniamo oltre che essere contro i talebani e fino a ieri - ma non sarà così
domani - in zone relativamente difese dalla loro guerriglia? Ne discute mai il
parlamento, ne discutono fra loro i gruppi dell'Unione, ne discutono i partiti
in qualche sede? Da fuori, l'impressione è che tutto, in Italia, si riduca ai
numeri della politica interna e nient'altro.
Ultimo, per quale ragione fra i dodici punti voluti da Prodi sta il ritiro di
quei Dico, versione edulcorata dei Pacs, dopo che era stato raggiunto un accordo
fra le parti, la cattolica Bindi e la fin troppo mitemente laica Pollastrini?
Quando i Pacs sono stati votati in Francia i vescovi non erano contenti né lo
era Giovanni Paolo II, ma non sono stati minacciati fulmini e saette su chi li
votava, eppure è un paese cattolico - di tiepidi cattolici, tale e quale noi. I
soli ferventi di ubbidienza stanno, si direbbe, nel ceto politico, che dopo il
1948 aveva rifiutato di inginocchiarsi di fronte al sacro seggio e dopo il 1989
ha ricominciato a farlo. Più oltre, che idea ha l'Unione della separazione dei
poteri fra stato e chiesa, «abc» delle moderne democrazia? Ratzinger può
tuonare tutti i giorni contro il governo italiano perché, differentemente da
quello francese e da quello spagnolo, questo dà all'oltretevere libertà di
pascolo.
E' in atto un raddrizzamento al centro del voto del 2006, cui danno fiato i
grandi giornali, in primis La Repubblica e Il Corriere della Sera. Essi premono
esplicitamente su Prodi perché sbarchi Rifondazione e i Comunisti italiani,
convinti che questo faciliterebbe lo scioglimento del sacro vincolo della Casa
della Libertà. La gazzarra che s'è levata contro Turigliatto e Rossi, e il
rispettoso silenzio sul voto delle vecchie volpi Andreotti e Cossiga (tipico
l'editoriale dell'abitualmente ragionante Ezio Mauro) ha superato i limiti del
ridicolo, parevano due inaspettati pugnalatori della Repubblica. Chi
sostituirebbe i voti di Rifondazione e Pcdi? I grandi editorialisti non si
soffermano su questa piccolezza, come se Berlusconi fosse un ostacolo minore. Né
su chi sostituirebbe Prodi, che non è uomo per tutte le stagioni: forse hanno
già un candidato. La brusca accelerazione del Partito democratico ne è un
ulteriore segnale. Quel che conta è liberarsi di ciò che resta di
rappresentanza del conflitto sociale, nelle istituzioni in modo da dare en
passant anche un colpo decisivo ai sindacati.
E qui viene al dunque un discorso anche fra quelli di noi, per i quali visibilità
e agibilità del conflitto sociale è la sola ragione di essere faticosamente ma
ancora in scena. La storia del Novecento dovrebbe averci insegnato che una
sinistra classista, sia pur vagamente marxista, in Italia è sempre stata
minoritaria. Siamo un paese moderato che non ha mai dato una maggioranza neppure
a comunisti, socialisti e socialdemocratici tutti assieme, e che sia stato così
perché i comunisti erano troppo forti, è un ragionamento che lasciamo a il
Riformista. E' un fatto che, finché c'è stato, il Partito comunista ha
condizionato dall'opposizione molti e decisivi sviluppi del paese, e appena si
è liquefatto in meno d'una socialdemocrazia siamo precipitati in un'inedita
avventura di destra.
Adesso, all'inizio del terzo millennio e in piene declamazioni liberiste, da noi
le sinistre radicali arrivano sì e no al 10 per cento del voto. Sono assai più
forti nella società, perché, diversamente dalla massa atomizzata, sono
fortemente motivate, ma quella storia ci ha insegnato anche che non è
augurabile eludere quell'esprimersi indifferenziato che è il momento
elettorale, a rischio di degradare al di qua d'una democrazia formale.
Non se ne deve conseguire che la sinistra-sinistra deve operare principalmente
sulla società, conoscendola, imparandone e conquistandola e badando in pari
tempo che la scena istituzionale non degeneri? Essa infatti non le rappresenterà
mai nella loro interezza e potenzialità ma può precluderne ogni spazio ed
espressione. Anche a non prevedere facili ritorni al fascismo, a questa chiusura
siamo andati molto vicini con Berlusconi.
Ne viene, mi pare, che si tratta di muoversi sui due livelli senza confonderli.
Alle camere i gesti eroici del tipo «Muoia Sansone con tutti i filistei»
buttano di regola nella morte di Sansone e i filistei più vispi di prima. Sia
detto senza offesa per nessuno, il voto dei due ribelli di Rifondazione
comunista e dei Comunisti italiani, questo è stato. Siamo andati felicemente
indietro. Inutile strillare; ma la destra, ma Andreotti, ma Prodi, ma D'Alema -
non siamo nati ieri. Ancora più sciocco agitare la propria luminosa coscienza.
Chi vuole difendere quella in uno splendido isolamento, non si metta in politica
- che è un fare collettivo, o non è. Più seccamente, in Italia una sinistra
che conti va ricostruita, e credo anche altrove. La fine del secolo è passata
su di noi come uno tsunami. Non ci ha distrutti. Minoranze importanti crescono.
Ma minoranze. Vediamo di coltivarle invece che affogarle. Anche il lievito è
minoritario rispetto alla farina. Ma se non fa crescere l'impasto che lievito è