dibattito sul libro di Joseph Ratzinger "Gesù di Nazaret"
Teologia da cucinino
Franco Barbero
Micromega n.4/2007
chi è Franco Barbero
Joseph Ratzinger, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, pagg. 446, € 19,50.
Può essere imprudente o prematuro esprimere una valutazione complessiva della ponderosa opera di Joseph Ratzinger prima che compaia il secondo volume. Ma già questa prima parte sollecita un confronto che, purtroppo, non è così vasto e coinvolgente come lo scritto meriterebbe. Non solo le pagine dedicate alle parabole e alle beatitudini testimoniano la passione sincera e profonda di Joseph Ratzinger. Mi piace riconoscerlo senza mezzi termini all’inizio di questa recensione critica.
Ma nella lettura di queste pagine ho trovato più l’autore che non Gesù di Nazareth. Si tratta, a mio avviso, di uno scritto in cui Ratzinger, credente appassionato e teologo dogmatico militante, ha stampigliato a chiare lettere il suo ritratto spirituale e psicologico di uomo, di filosofo, di credente. Il timbro della sua personalità e i chiaro scuri della sua riflessione emergono ad ogni pagina. Questo “incombere” della personalità di Ratzinger, a mio avviso, comporta il prevalere di una tesi precostituita sulla documentazione di una ricerca rigorosa, seriamente confrontata. Di tanto in tanto le preoccupazioni pastorali, ben visibili nel suo esercizio del primato romano, fanno capolino e si esprimono con chiarezza ed allora affiorano le vibrazioni della tonalità apologetica dei discorsi e delle prediche papali che conosciamo: “E’ in gioco il primato di Dio. Si tratta di riconoscerlo come realtà, una realtà senza la quale nient’altro può essere buono. Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio. Se il cuore dell’uomo non è buono, allora nessun’altra cosa può diventare buona. E la bontà di cuore può venire solo da Colui che è Egli stesso la Bontà, il Bene” (pag. 56). Subito dopo diventa ancor più esplicito il pensiero di Ratzinger: “Il Signore risorto raduna i suoi “sul monte”….e in quel momento dice effettivamente: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt. 28,18). Due aspetti qui sono nuovi e diversi: il Signore ha potere in cielo e in terra. E solo chi ha tutto questo potere ha il potere autentico, il potere salvifico. Senza il cielo, il potere terreno resta ambiguo e fragile. Solo il potere che si pone sotto il criterio e sotto il giudizio del cielo, cioè di Dio, può diventare potere a fin di bene. E solo il potere che sta sotto la benedizione di Dio può essere affidabile” (pagg. 61-62).
Nel corso del volume si trovano inserite tutte le “battaglie” che caratterizzano la “militanza” teologica e pastorale di Ratzinger. Occorre scegliere tra “una libertà cieca ed arbitraria” e “una libertà illuminata”: “Questa libertà è stata interamente sottratta allo sguardo su Dio…la libertà per la giusta laicità dello Stato si è trasformata in qualcosa di assolutamente profano, in “laicismo”, per il quale l’oblio di Dio e l’esclusivo orientamento verso il successo sembrano diventati elementi costitutivi” (pag. 147).
Né poteva mancare il riferimento alla famiglia: “Ma per la Chiesa nascente come per quella successiva, fin dall’inizio è stato fondamentale difendere la famiglia come il cuore di ogni ordinamento sociale, impegnarsi per l’attuazione del quarto comandamento nell’intera ampiezza del suo significato: vediamo come oggi la lotta della Chiesa sia incentrata su questo punto” (pag.149).
Potrei proseguire citando queste “attualizzazioni” che, si dirà, non rappresentano nulla di nuovo rispetto alle catechesi settimanali. Ma queste affermazioni, si noti, sono rese particolarmente pesanti dal fatto che esse vengono presentate come logiche deduzioni e stringenti conseguenze dell’insegnamento di Gesù.
Le mie perplessità riguardo a questo libro crescono quando si entra sul terreno esegetico ed ermeneutico. Al riguardo, se lo spazio lo consentisse, avrei una valanga di osservazioni critiche da avanzare sul terreno dell’interpretazione.
Già la identificazione del Gesù reale con il Gesù storico è problematica. Studiosi cattolici come Salas e Meier ci mettono in guardia dal rischio di simili approssimazioni: “Il Gesù storico non è il Gesù reale. Il Gesù reale non è il Gesù storico. Sottolineo questo paradosso fin dall’inizio perché nella “ricerca sul Gesù storico” nasce una confusione senza fine quando non si distinguono chiaramente questi due concetti” (J. P. Meier, Un ebreo marginale I, Queriniana, Brescia 2001, pag. 25).
Ma il libro, anziché documentare una storia ed un percorso, procede enunciando e ripetendo continuamente la tesi della divinità ontologica di Gesù e cerca di dimostrarla con le argomentazioni che l’esegesi più tradizionale e conservatrice gli fornisce. Tutto questo avviene con un confronto talmente ristretto da non rispecchiare in alcun modo la vastità della ricerca in atto, la pluralità delle voci, la molteplicità dei percorsi cristologici e la svolta ermeneutica che caratterizzano il lavoro storico, esegetico, interdisciplinare ed ecumenico che da almeno due secoli è in pieno svolgimento e che negli ultimi 50 anni ha subito una accelerazione ed una espansione davvero feconde da parte di moltissimi teologi, studiosi e credenti appassionati, spesso innamorati di Gesù.
Non è sufficiente riconoscere meriti e demeriti, frutti e limiti dei metodi storici e critici, se poi ci si limita ad una ricerca tra quattro o cinque amici e qualche autore dissenziente. Questa è teologia da cucinino che stupisce non poco in un Autore come il nostro. Guardando anche solo la modesta rassegna delle 2780 opere espressamente cristologiche della mia biblioteca personale, ho spiacevolmente constatato che Ratzinger non si è messo a confronto con gran parte di queste ricerche con le quali oggi, a mio avviso, è doveroso misurarsi. Mi sembra poco decoroso e per nulla rigoroso non fare i conti con gli scritti di Patterson, Barbaglio, Sanders, Theissen, Rendtorff, Charlesworth, Boismard, Ortensio da Spinetoli, Pesce, Destro, Pikaza, Dupuis, Haight, Pannikar, Dotolo, Kung, Queiruga, Knitter, Kuschel, Hick, Schussler Fiorenza, Gilkey, Schillebeeckx, Amaladoss, Ruether, Filoramo, Borg, Crossan, E. Johnson, Wengst, Vouga, Geffré, Tamayo, Tepedino, Duquoc, Gianotto, Sobrino, Balasuriya, Prabhu, Scaccaglia, Wright e tanti altri.
Sembra per il nostro Autore che l’Asia e l’Africa non abbiano prodotto studi e che le teologhe femministe non esistano. La ricerca per Ratzinger sembra fermarsi poco oltre i confini della sua Germania e, per giunta, ad alcuni - pochissimi - autori. A questa cristologia manca il coraggio di raccogliere le sfide della ricerca recente e contemporanea. A volta mi sono trovato più vicino alla retorica catechistica che all’esegesi: “Nell’enigmatica espressione “Figlio dell’Uomo” incontriamo da vicino l’essenza propria della figura di Gesù, della sua missione e del suo essere. Egli proviene da Dio. Egli è Dio” (pag. 383). Affermazioni che, a mio avviso, risultano di un semplicismo impressionante dopo gli studi di Vermès, di Lapide, di Calimani e di centinaia di biblisti ebrei e cristiani sulla metafora “Figlio dell’Uomo”.
Ci si accorge spesso che Ratzinger non è un esegeta, ma le pagine dedicate al vangelo di Giovanni dimostrano la lontananza del nostro Autore dalle ricerche più accreditate. A pag. 284 addirittura cita la I° Lettera di Giovanni 5,6-8 come testo originario quando, per unanime consenso degli studiosi, siamo di fronte ad un’aggiunta che risale al periodo delle formulazioni trinitarie. E’ evidente la sua incompetenza sul testo critico del Secondo o Nuovo Testamento.
Ma torniamo alla tesi della divinità di Gesù. Nel libro, se ho letto bene, l’ho trovata espressa in modo esplicito ben 49 volte: “Proprio come uomo egli era Dio” (pag.19), “Soltanto colui che è Dio, vede Dio” (pag. 309), “Quell’uomo che è Dio” (pag. 124), “Egli è Dio” (pag. 383)…anzi, “Questa affermazione va intesa letteralmente: sì, in Dio stesso vi è dall’eternità il dialogo tra Padre e Figlio che, nello Spirito Santo, sono davvero il medesimo e unico Dio” (pag.368). E siamo al dogma della Trinità…
Non riempirò la pagina con ulteriori citazioni, ma il nostro Autore collega tutti i titoli cristologici alla divinità di Gesù in modo diretto, perentorio.
Non è qui il caso di prolungarci sul significato dei titoli cristologici che, come scrive Barbaglio, hanno una valenza funzionale, cioè vogliono illustrare la funzione che Dio ha assegnato a Gesù: “A scanso di malintesi possibili ed anche esistenti, pare necessario precisare che la fede in Gesù dei primi cristiani non ha preso il posto della fede in Dio; essi non hanno per nulla abiurato il monoteismo ebraico, la confessione cioè dell’unico Dio esistente. Hanno esaltato oltre ogni dire Gesù…ma non si sono mai spinti a fare di lui un secondo Dio”. (G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, Dehoniane, pag. 618).
Gesù non ha mai applicato a se stesso i titoli di gloria che i discepoli gli hanno conferito: “Gesù non avrebbe mai parlato di se stesso in quei termini: non pretendeva affatto di essere Dio incarnato. Ma affermava la presenza del Regno di Dio. Tale è l’origine della fondamentale convinzione cristiana secondo cui Dio è presente nella condizione umana. Questo è il significato dell’incarnazione” (St. Patterson, Il Dio di Gesù, Claudiana, pag. 138).
Questa maniera di pensare la “divinità” di Gesù non in modo essenzialista-ontologico, ma funzionale, è oggi propria di molti biblisti che non leggono il Secondo Testamento attraverso gli occhiali dogmatici o i linguaggi filosofici di Nicea e Calcedonia.
Il compito dei biblisti è proprio quello di segnalare le distanze ed i percorsi che separano le formulazioni dogmatiche dai dati scritturali, ricollocando il tutto nei contesti storici e linguistici appropriati, compiendo un’opera di filologia delle religioni. Nei mesi scorsi suscitò scalpore e reazioni avvelenate l’opera preziosa di Augias-Pesce che ha avuto il merito di divulgare conoscenze pacificamente acquisite nelle riviste per addetti ai lavori: “All’interno della letteratura giudaica l’appellativo “Figlio di Dio” non ha il significato che assumerà in seguito per i dogmi cristiani, vale a dire una persona che sia un uomo e nello stesso tempo Dio. Significa solo una persona a cui Dio ha affidato un incarico, oppure una persona che segue la volontà ed i disegni divini e in questo senso ne è figlio, pur restando integralmente ed esclusivamente uomo…Insomma il termine in quanto tale non esprime la natura divina di Gesù” (Inchiesta su Gesù, Mondadori, pag. 91).
Se non si esce dalla prigione di formule che hanno avuto un senso nel loro tempo e non si rinnovano i linguaggi della fede, è possibile oggi la predicazione cristiana? Queste comuni ed acquisite informazioni, sempre suscettibili di ulteriori approfondimenti, sono anche il frutto di un dialogo con l’ebraismo che non si limiti, come fa Ratzinger, ad un generico riconoscimento dell’ebraicità di Gesù. “Non c’è una sola idea o consuetudine, una sola delle principali iniziative di Gesù che non siano integralmente ebraiche. Egli crede in un Dio unico…Noi sappiamo che Gesù si alzava presto al mattino per pregare…è un’altra testimonianza del suo rispetto dell’ebraicità…Gesù è un uomo ebreo che non si sente identico a Dio. Non si prega Dio se si pensa di essere Dio. Gesù, come ogni ebreo religioso, prega ed interpella Dio”. (Mauro Pesce, op. cit., pag. 28).
Egli era un ebreo, non un cristiano.
Il Gesù di Ratzinger, al più nasce ebreo, ma presenta i tratti del primo cristiano. Del resto, per il nostro Autore “Ciò che in Gesù dava scandalo era proprio il fatto che egli sembrava mettersi sullo stesso piano del Dio vivente” (pag. 350). In Lui le grandi parole messianiche erano vere in modo sconcertante ed inaspettato: “Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato” (Sal. 2,7). In istanti significativi i discepoli, sconvolti, percepivano: “Questi è Dio stesso” (pag. 352).
La Scrittura antica convergeva verso questa affermazione: “Mosè ed i Profeti parlano tutti di Gesù” (pag. 355), anzi Mosè ed i Profeti confluiscono in Lui (pag. 395).
Questo mettere le mani sulla Bibbia ebraica, dopo le acquisizioni degli anni conciliari e dopo il documento Nostra Aetate, mi sembra figlio della “teologia del compimento” per cui l’ebraismo è praeparatio evangelii. Per me è improponibile. E che dire di una “lettura della Bibbia e soprattutto dei Vangeli come unità e totalità, che in tutte le sue stratificazioni storiche esprime tuttavia un messaggio intrinsecamente consequenziale” (pag. 228)? Forse la ricchezza vulcanica dei due Testamenti non sta, invece, nella loro irriducibilità ad un pensiero armonizzabile, componibile in unità?
Vorrei concludere con alcuni accenni. Anche le donne sono servite. A Ratzinger preme soprattutto sottolineare che “La differenza tra il discepolato dei Dodici ed il discepolato delle donne è evidente; i due compiti sono decisamente diversi” (pag. 216). Altrettanto sbrigative e banalizzanti sono alcune righe dedicate alla preghiera: “Anche se non possiamo dare delle ragioni assolutamente cogenti, resta per noi normativo il linguaggio della preghiera di tutta la Bibbia, nella quale, nonostante le grandi metafore dell’amore materno, “Madre” non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto” (pag. 171).
Di questo passo…saremo più fedeli alla Scrittura se lo invocheremo come Dio degli eserciti?
Tutto è troppo chiaro: dalla fondazione della chiesa al “primato” di Pietro (pag. 344).
Ma, a lettura conclusa, sembra che due siano i principali nemici del cristianesimo: il mondo moderno e i biblisti cristiani. Non manca nemmeno un pizzico di disprezzo. Coloro che cercano le vie della pace, se non sono credenti, non fanno che mettere insieme “chiacchiere utopistiche” (pag. 78). Chi si addentra nell’enorme dibattito dell’esegesi moderna “si ritrova in un cimitero di ipotesi contrastanti” (pag. 370).
Mentre ritengo completamente infondata l’accusa rivolta ai biblisti di lasciar cadere la dimensione storica della fede, leggo in queste frasi del teologo Ratzinger la scarsa considerazione della ricerca, con la sua fatica, i suoi travagli, i suoi errori, la sua fecondità. E’ la chiesa della paura e della diffidenza che si aggrappa ai dogmi.
La vera ricerca è sempre un inoltro nei territori del rischio, ma senza di essa la teologia diventa un mausoleo pieno di muffa e/o una dogmatica popolata di certezze scadute.
Ora, anche se questo libro, per espressa e onesta dichiarazione del suo Autore, non costituisce in alcun modo un atto magisteriale, è indubbio che in esso troviamo l’orizzonte teologico e pastorale che l’attuale pontificato “impone” per altre vie alla chiesa cattolica.
Dal Gesù di Ratzinger mi sono congedato da molto tempo. Il Gesù dei dogmi non mi interessa, quando esso viene a trovarsi in contrasto con il Gesù ebreo, che secoli di studi ci aiutano ad avvicinare e a comprendere un po’ meglio.
Nel rigoroso rispetto di questa interpretazione ratzingeriana di Gesù, constato il mio ampio dissenso e penso che sia assolutamente normale essere diversi nella stessa chiesa. Non si è un’altra chiesa, ma una chiesa “altra”.