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dibattito sul libro di Joseph Ratzinger "Gesù di Nazaret"

Gesù non era cristiano

Riccardo Calimani

Da Micromega 4/2007

chi è Riccardo Calimani

«Ognuno è libero di contraddirni», ha dichiarato Joseph Ratzinger parlando del suo ultimo libro dedicato a Gesù di Nazaret.  Di fronte a questa aperta dichiarazione di intenti non ci devono essere dubbi: conviene approfittarne perchè, non si sa mai, potrebbe cambiare idea.  Gesù di Nazaret, un saggio di ben 446 pagine, prende in esame la vita pubblica di Gesù, dal giorno del battesimo sul fiume Giordano fino alla Trasfigurazione. Un secondo volume dedicato esclusivamente all’ultima parte della vita di Gesù dovrebbe uscire successivamente.  Obiettivo esplicito dell’autore è quello di ripristinare un corretto rapporto tra il Gesù della storia e il Cristo della fede. Per ottenere questo risultato egli dichiara, quindi, di accingersi ad una vera ricerca storica, ma a me pare che, nonostante i suoi sforzi, quasi fatalmente direi, Ratzinger non sia riuscito a liberarsi dalla teologia e dall’ideologia perchè queste pagine sono a mio modo di vedere, dominate, sia pure inconsapevolmente, dal meccanismo del post hoc, propter hoc e da un abito mentale che non riesce mai a prescindere dalla fede, neanche quando tenta di divincolarsi un poco dal suo abbraccio.

La lettura del volume ha suscitato in me numerose perplessità perchè mi sento molto lontano, direi estraneo, sia al metodo che è stato adoperato nella ricerca sia alle sue finalità. Ho infatti avuto l’impressione che nelle pagine di Ratzinger la storia resti troppo vincolata al servizio delle fede.  Non voglio dire che tutto questo non possa essere comprensibile; mi pare però che questo condizionamento sia tale da non consentire una ricerca storicamente feconda.

Discutere questi temi affascinanti, tuttavia, non è solo un esercizio intellettuale, ma anche il tentativo di gettare le basi per una reciproca comprensione fra individui che manifestano opinioni differenti.

L’ebraicità di Gesù: il Sabato

«Gesù è un ebreo che è andato oltre l’ebraismo» ha dichiarato Ratzinger.  Questa frase esprime una opinione comune all’interno del mondo cristiano che sembra volerne mettere in ombra un’altra, altrettanto importante, quella della Nostra aetate (Concilio Vaticano II) in cui fu scritto: «Gesù è ebreo e lo è per sempre».

Appare evidente la forte dissonanza tra queste due affermazioni. 

Si tenga conto che queste dichiarazioni ufficiali vengono rese pubbliche dopo attenta riflessione e che le sfumature sono molto, molto importanti.

A Ratzinger, che ha considerato Gesù come un ebreo che ha superato il suo ebraismo, si potrebbe rispondere facilmente con una frase che può dare scandalo, ma che è inconfutabile: Gesù non è mai stato cristiano nel corso di tutta la sua vita terrena !

Eppure seguendo un criterio di fede, l’autore dichiara che in ogni caso l’uomo Gesù era un predestinato: affermazione storicamente non plausibile, ma che può essere sostenuta solo da una visione ideologica aprioristica.  Da parte mia credo che ci sia un solo modo di analizzare storicamente la figura di Gesù.

Occorre conoscere la storia dell’intero popolo di Israele, per coglierne gli aspetti ideali più originali, connessi alle manifestazioni profetiche e a quelle messianiche: temi complessi che, quando vengono presi in considerazione, richiedono grande delicatezza.

Occorre analizzare con grande e meticolosa attenzione l’ambiente sociale, culturale, religioso e politico degli anni in cui visse Gesù.  Occorre prendere in considerazione la figura di Gesù come è stata elaborata nei secoli in bilico tra storia e mito. Occorre fino in fondo capire che cosa significasse per Gesù essere ebreo in quel tempo. Questo è il metodo usato nella elaborazione del mio libro Gesù ebreo - la cui parte centrale è stata ripresa nel volume Il volto del Cristo con prefa-zione di Giovanni Paolo II - e in quello successivo dedicato a Paolo Saul di Tarso (Paolo. L’ebreo che fondò il cristianesimo, Mondadori, Milano 1999. A questo e al Gesù ebreo, edito sempre da Mondadori nel 1998, rimando il lettore per un ulteriore approfondimento dei temi qui trattati).  Questo metodo di analisi totale, magari un poco banale, non vuole affatto suscitare alcuno scandalo (peraltro molto utile nella vendita dei libri), ma vuole piuttosto, con meticolosa pignoleria, mettere a posto ogni casella, partendo proprio da una puntuale lettura dei Vangeli e dai contenuti storici che essi racchiudono.

In questo senso va condivisa l’opinione di Ratzinger che i Vangeli esprimono, pur nelle contraddizioni che li contraddistingono, una visione storica affidabile anche se non si deve dimenticare che esistono fonti altrettanto importanti, anche se non canoniche.

Parlando sempre di metodo, appare evidente che la ricerca non può essere fatta per arrivare a dimostrare che le deliberazioni prese a Nicea e a Calcedonia, qualche secolo dopo, sono in coerenza con l’analisi storica, perchè tali sviluppi posteriori non possono ne debbono interferire con lo studio di avvenimenti di molto anteriori.

Capisco bene che Ratzinger sia più interessato ad una visione complessiva legata a duemila anni di storia del cristianesimo che non a capire fino in fondo l’ebraicità di Gesù, ma credo che sia proprio questo a trarlo inevitabilmente in inganno, almeno sul piano squisitamente storico.

Sia pure in un modo implicito, l’autore non si preoccupa troppo di mettere in evidenza quali fossero le caratteristiche del giudaismo di quel tempo e fatalmente lo intravede come statico e quasi monolitico. Invece quel mondo era percorso da tensioni molto forti e gli ebrei erano divisi in

tante sette e gruppi differenti che polemizzavano e si scontravano duramente. Solo di farisei se ne contavano ben sette specie in disaccordo tra di loro e poi c’erano i sadducei, gli zeloti e gli esseni. Non va dimenticato inoltre che il popolo ebraico era in quegli anni impegnato in una dura lotta di resistenza contro i romani che dominavano quelle terre e suscitavano con i loro comportamenti, considerati blasfemi, sdegno e rivolte.  Come ogni altro abitante di quella terra molto tormentata, Gesù visse intensamente quei momenti storici che evidentemente lo toccarono da vicino. Pensare che seguisse un percorso tutto suo, avulso dal contesto è lecito, ma storicamente poco comprensibile, frutto piuttosto di una visione di fede: su questo terreno non posso avventurarmi perchè mi è estraneo e poco comprensibile.

Sono proprio le contraddizioni del mondo giudaico di venti secoli fa che permettono di interpretare meglio il pensiero di Gesù e di capire il suo insegnamento, come si esprime nelle parabole e in alcune preghiere di grande significato ideale.

Ratzinger, per esempio, considera le Beatitudini, il Discorso della Montagna e il Pater Noster come espressioni tra le più genuine della spiritualità cristiana. Eppure gli sfugge che, da un esame approfondito di queste preghiere compiuto da attenti esegeti moderni, ma anche contemporanei, è risultato che esse sono costruite con frasi e concetti che sono espressione autentica del mondo ebraico. Qualche esempio tra i moltissimi possibili. Nel Vangelo di Marco leggiamo: «”Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non altro comandamento più importante di questo” » .Sono alla lettera parole tratte da Shemà Israel, preghiera fondamentale e cuore spirituale dell’anima ebraica. La sua importanza è sottolineata nei primi tre capitoli, un terzo dell’intera lunghezza, del trattato Berakòt della Mishnàh e del Talmùd. I brani biblici che la compongono sono tre. Ne riprendo qui solo i passi che ci interessano: «Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno.  Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze e saranno queste parole che io ti comando oggi sul tuo cuore, le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai con loro stando nella tua casa, camminando per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai» .

Anche le diatribe sull’osservanza del Sabato e del compimento della Toràh sono il frutto di una discussione ebraica tra le più autentiche. Gesù non solo non trasgredisce mai gli insegnamenti della Legge, ma si sforza di coglierne il senso più intimo. Abbiamo già ricordato che la società ebraica di quel tempo era molto frammentata in gruppi, dai contorni oggi non sempre facilmente tracciabili e forse anche allora non chiaramente definiti. Sadducei, farisei, zeloti, sicari, esseni, divisi in set-

te e sottosette, in contrasto tra di loro e in viva opposizione nei confronti delle continue influenze sia pagane che ellenistiche, davano vita a un dibattito sempre acceso e ricco di contraddizioni che favorì la nascita e la crescita di numerose chavuròt, cioè di gruppi associati, un fenomeno sociale che si mantenne vivace per anni fino a scomparire poi completamente dopo la distruzione del secondo Tempio.  E anche l’osservanza scrupolosa delle norme relative al riposo sabbatico fu oggetto di un dibattito molto minuzioso. «E lui [il Sabato] che è stato affidato al vostro potere, non già voi che siete affidati al suo potere» .Nel Talmùd è scritto: «Il Sabato è dato a voi, non voi al Sabato./ Profana il Sabato per poterne osservare molti» .Nella Ghemarà: «È permesso di Sabato sradicare con la mano e mangiare, ma è proibito sradicare con un utensile» .

Alla luce di queste opinioni la frase evangelica attribuita a Gesù: «II sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del Sabato», rientra con pieno diritto nel dibattito all’interno del mondo giudaico del tempo tra formalisti e antiformalisti, anzi appare come un tipico prodotto del mondo fariseo. Gesù non solo non pensò mai di violare questo precetto, ma semmai, in linea con le correnti riformatrici, si sforzò di dargli quel valore originario che un dibattito troppo sottile poteva aver fatto dimenticare, e di santificarlo in modo vero e autentico.

Si può osservare che non Gesù, ma i suoi discepoli sono accusati di aver violato il Sabato; inoltre egli nega che tale violazione vi sia stata e si sforza di dimostrarlo: «Entrò di nuovo nella sinagoga. C’era un uomo che aveva una mano inaridita, e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato per poi accusarlo. Egli disse all’uomo che aveva la mano inaridita: “Mettiti nel mezzo!”. Poi domandò loro: “E lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?”. Ma essi tacevano. E guardandoli tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell’uomo: “Stendi la mano!”. La stese e la sua mano fu risanata. Ma il capo della sinagoga, sdegnato perchè Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, rivolgendosi alla folla disse: “Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare, e non in giorno di sabato”. Il Signore replicò: “Ipocriti, non scioglie forse di sabato ciascuno di voi il bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi ? E questa figlia di Abramo, che satana ha tenuto legata diciott’anni, non doveva essere sciolta in giorno di sabato?”» (M c 3, 15; una versione quasi identica in Lc 6,6-10 e con lievi variazioni in Mt 12,9-13).  Davanti,a lui stava un malato e Gesù disse ai dottori della Legge e ai farisei: «”E lecito o no curare di sabato?”. Ma essi tacquero. Egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò. Poi disse: “Chi di voi, se un asino o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà subito fuori in giorno di sabato ? “ » (Lc 14, 3-5 ).

Nei testi di Qunram è stato rinvenuto uno scritto che riecheggia queste parole, anche se con un significato diverso: «Nel giorno di sabato nessuno aiuti una bestia a partorire e se cade in una cisterna o in una fossa di sabato, non la tiri su [ ... ] se una qualsiasi persona cade in un luogo pieno di acqua o in un altro luogo, nessuno la faccia risalire con una scala, con una corda o con qualsiasi altro oggetto».  In un’altra occasione Gesù ricorre ad un diverso argomento: « Voi circoncidete un uomo anche di sabato. Ora se un uomo riceve la circoncisione di sabato perchè non sia trasgredita la Legge di Mosè, voi vi sdegnate contro di me perchè ho guarito interamente un uomo di sabato ? » .  Nella risposta di Gesù ai suoi critici farisei è possibile cogliere una saggezza ebraica di tipo popolare, considerata patrimonio comune a vasti strati contadini e anche a esponenti meno formalisti del mondo intellettuale del tempo. Nel Levitico si può leggere: «Osserverete dunque le Mie leggi e i Miei statuti, seguendo i quali l’uomo ha la vita; io sono il Signore».  I comandamenti erano stati dati perchè l’uomo potesse vivere grazie ad essi e i rabbini interpretarono queste parole esprimendo l’opinione che, in nome della vita, in condizioni di necessità di emergenza, si potessero compiere violazioni della Legge altrimenti proibite.

La legge del riposo del Sabato poteva essere trasgredita in caso di pericolo per una vita umana (piquàch nèfeshe). Questa decisione, secondo la Mishnàh , poteva essere presa anche in caso di dubbio, ovvero anche quando non si fosse stati completamente certi di eventuali condizioni di emergenza.

Gesù radicalizzava queste idee, ritenendo che si dovesse guarire di Sabato anche se non vi fosse stata alcuna urgenza. La chirurgia era proibita di Sabato, ma il Sabato stesso veniva sospeso per operare una mitzwàh tenuta in grande considerazione, la circoncisione appunto. Così, usando lo stesso argomento, per analogia, Gesù riteneva che una guarigione fosse da considerarsi anch’essa una grande mitzwàh e che non si dovesse mai ritardare un atto di pietà. Del resto, se si potevano «rompere» le regole del Sabato per salvare un animale, tanto più si doveva farlo per alleviare il dolore a un essere umano: questo modo di argomentare era tipicamente rabbinico e può essere sintetizzato in una regola ermeneutica detta qalwa-chomer, che deduce quello che può essere pesante da quello che è meno pesante e viceversa. Gesù in ogni caso non volle ammettere di essere fuori dalla Legge, ma cercò con argomenti scelti ad hoc di dimostrare che era all’interno della logica di Israele, pur mostrandosi meno rigido di altri.

L’ebraicità di Gesù: le Beatitudini

Ma affrontiamo uno dei momenti più universalmente noti della predica zione di Gesù, e considerato tipico ed originalissimo della sua religiosità: le “”beatitudini”. Anche qui, il carattere tipicamente ebraico risulta in modo impressionante dal confronto testuale: secondo i Sinottici Gesù, prima di cominciare la predicazione, si ritirò nel deserto dove restò per quaranta giorni e digiunò. Ancora una volta viene riproposta in piena identità la tradizione ebraica del libro dell’Esodo: «Ed egli trascorse là [ sul Sinai] quaranta giorni e quaranta notti non mangiando pane ne bevendo acqua». E del primo libro dei Re: «Il messo divino tornò un’altra volta e, toccatolo, disse: “Alzati e mangia, perchè dovrai percorrere un lungo cammino”. Egli si alzò, mangiò e bevette, e con la forza datagli da quel che aveva mangiato camminò per quaranta giorni e quaranta notti, finchè giunse al Chorev, monte di Dio». I Vangeli riprendono completamente questa narrazione ebraica: « Subito dopo lo Spirito lo sospinse nel deserto e vi rimase quaranta giorni, tentato da satana. Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame». Per difendersi dalle tentazioni, l’uomo di Nazaret rispose con parole di Mosè tratte dalla Toràh: «L’uomo non vive di solo pane, ma [… ] può vivere di tutto ciò che esce dalla volontà espressa dal Signore». Gesù percorse la Galilea insegnando nelle sinagoghe, predicando il «vangelo del regno» e curando ogni malattia e ogni infermità nel popolo. Nel momento culminante della sua popolarità salì sulla montagna e pronunciò il suo discorso più maturo, il Discorso della Montagna:

 

Felicità all’uomo che non suole procedere secondo il consiglio dei malvagi.

Felicità a colui la cui colpa è stata rimessa, il cui peccato è stato condonato. 

Felicità all’uomo il cui peccato non viene tenuto in considerazione dal Signore perchè nel suo spirito non vi è inganno. 

Felicità a chi provvede al meschino; nel giorno del male lo scamperà il Signore.

Beatitudine a chi osserva le leggi, che si comporta con giustizia in ogni momento.

Felicità all’uomo che teme il Signore, che ama molto i suoi precetti. 

Beato l’uomo che ha pietà e dà prestiti, che organizza i suoi affari con giustizia, infatti il giusto non vacillerà mai.

Felicità a coloro che seguono integralmente la via, che camminano nella Toràh del Signore.

Felicità a coloro che osservano i suoi statuti e che lo ricercano con tutto il loro cuore.

 

Questi versetti, straordinariamente simili a quelli delle Beatitudini pronunciate da Gesù e riferite da Matteo, sono tratti dai Salmi. Ecco invece le Beatitudini:

Beati i poveri in spirito, perchè di essi è il regno dei cieli.

Beati gli afflitti, perchè saranno consolati.

Beati i miti, perchè erediteranno la terra.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perchè saranno saziati.

Beati i misericordiosi, perchè troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore, perchè vedranno Dio.

Beati gli operatori di pace, perchè saranno chiamati figli di Dio.

Beati i perseguitati per causa della giustizia, perchè di essi è il regno dei cieli. 

 

Considerato a ragione il manifesto spirituale dei seguaci di Gesù, questo discorso tuttavia è un brano di dottrina ebraica, un vero e proprio Bet Midràsh Yèshu: in Isaia, nell’Ecclesiastico, nei Proverbi, in alcuni trattati del Talmùd, nei Testamenti dei Dodici Patriarchi è possibile, del resto, ritrovare ulteriori assonanze parziali o addirittura identità totali con questi versetti contenuti nei Vangeli: un’ulteriore conferma che le preghiere di Gesù scaturivano da testi ebraici di quel tempo.  La scelta del luogo, la montagna, ha un significato evocativo. «Io alzo i miei occhi verso i monti e chiedo: di dove verrà l’aiuto per me?», dice il salmista.  La prima Beatitudine, dedicata ai poveri di spirito, sembra riferirsi a quelli che in Israele venivano chiamati anawè ha-rùach, cioè coloro che sono rimasti poveri per amore dello spirito, un’idea di provenienza essena: «Che cosa potrebbe giovare all’uomo se ottenesse il mondo intero, ma perdesse la propria anima?», ma presente anche nei Salmi, nell’Ecclesiastico e nei Proverbi, e che assomiglia inoltre ai precetti di rabbi Levitas contenuti nel trattato Avòt e a quelli di rabbi ‘ Aqiva nel trattato Ketubbòt sul «giusto mezzo desiderabile».

La seconda e la terza Beatitudine riprendono motivi presenti in Isaia e nei Salmi, ma anche pensieri dei trattati del Talmùd ‘Eruvin, secondo cui «il dolore riscatta le anime», e Sukkòt, in cui è scritto che «gli umili possiedono la terra e godono una pace inalterabile».  La quarta, «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia...», evoca la profezia di Amos e può essere interpretata come il momento politico dell’intero discorso; essa riprende ciò che il trattato Baba Batra dice a proposito della giustizia e della carità.

«Beati i misericordiosi, poichè troveranno misericordia» si collega alle parole che si possono leggere in Shabbàt 151b: «Rabbi Gamaliel ben Rabbi diceva: “Chi ha misericordia del proprio prossimo, di costui si ha misericordia nel cielo, e chi non ha misericordia del proprio prossimo, di costui non si ha misericordia nel cielo”» .

Le altre tre Beatitudini, «Beati i puri di cuore ...» , «Beati gli operatori di pace..., «Beati i perseguitati per causa della giustizia...», evocano pensieri e idee che hanno corrispondenza e origine nei Salmi e nel pensiero dei profeti e, in particolare, si collegano a Isaia.  Come è stato detto: «La densità e il numero delle formule talmudiche in un testo così importante dimostrano quanto durante gli anni oscuri Gesù  si era impregnato del commento tradizionale della Legge» (R. Aron, Gli anni oscuri di Gesù, Mondadori, Milano 1963, p. 239).

Perfino quello che passa per il «rovesciamento» più radicale operato da Gesù è perfettamente collocabile all’interno della dialettica religiosa ebraica del suo tempo: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perchè siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.  Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete ? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». Queste parole di Gesù, giustamente famose, hanno la loro sorgente ebraica nel celebre verso del Levitico: «Desidera per il tuo prossimo quello che desideri per te», nel Deuteronomio: «Amerete lo straniero perchè anche voi foste stranieri» , e nei Proverbi: «Se il tuo nemico ha fame dagli da mangiare, se ha sete dagli da bere» .

L’ebraicità di Gesù: il Padre nostro

Per non parlare poi del carattere integralmente ebraico della più famosa preghiera cristiana, il Padre nostro:

Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.

È una bella preghiera, una preghiera popolare, fervente, breve e devota: ciascuna frase trova la sua corrispondente nelle preghiere di Israele e nelle sentenze talmudiche. «Nostro Padre che sei nei cieli» è un’espressione ebraica che si ritrova in numerose preghiere: Avìnu malkènu shè bashamayim (Nostro padre, nostro re che sei nei cieli) ; un’espressione ricorrente: il Talmùd la mette in bocca a rabbi ‘ Aqiva e queste parole vengono pronunciate durante il canto alla vigilia di Kippùr.

Gesù non si allontana neanche un poco dall’idea ebraica di Dio; ai suoi ascoltatori offre una concezione a loro del tutto familiare; Marco gli fa ricordare in modo esplicito la definizione accettata da tutto il popolo ripetendo le classiche parole dell’Esodo: «lo sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe» .

«Che il tuo Nome sia santificato e che il tuo Regno arrivi» fa parte della preghiera del Qaddish diffusa sin dai tempi antichi in Israele e che contiene alcune parti molto antiche: «Che il suo grande Nome sia esaltato e santificato nel mondo che Egli ha creato e che faccia arrivare il suo regno». Anche nella qedushàh ( santificazione ) , cioè nella terza benedizione della tefillàh, si ritrova la stessa espressione: «Rimani con noi, sia magnificato e santificato il tuo Nome in terra come viene santificato nel più alto dei cieli» .

«Sia fatta la tua volontà»: questa è una formula costante nel primo libro dei Maccabei. «E cosa migliore per noi morire in battaglia che essere spettatori dei mali del nostro popolo e della rovina delle cose sante. Come però è la sua volontà in cielo così sia fatta». 

«Dacci il nostro pane quotidiano» : la domanda del pane fa parte della nona benedizione della tefillàh: «Benedici Signore nostro Dio quest’anno, benedici ogni specie di raccolto e concedi benedizione a tutta la terra. Sazia il mondo dei tuoi favori e concedi benedizione e prosperità all’opera nostra. Benedici i nostri anni perchè siano anni felici. Benedetto sii Tu o Signore che benedici gli anni» .

«Perdona le nostre offese» è la sesta benedizione dello ShemonèhEsrèh e si può leggere: «Perdona i peccati del tuo prossimo e quando pregherai i tuoi peccati ti saranno perdonati» .

Ai discepoli, cioè a coloro che hanno «lasciato tutto per seguirlo», Gesù annuncia una ricompensa grande come l’intero popolo di Israele: «Voi che mi avete seguito [ ...] siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele» .

A queste promesse si contrappone una fosca profezia: «Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non può reggersi» .

Queste parole sono state interpretate come un appello all’unità nazionale e contro l’invasore romano da parte di Gesù che avrebbe tentato di stringere un’alleanza con i samaritani contro i romani.  Storicamente si può solo concludere che Gesù fu un ottimo ebreo e che non uscì affatto dal terreno ebraico, anche perchè il mondo ebraico ammetteva dibattito e dissenso al suo interno.

 

Gesù ebreo per sempre

Tornando al libro di Ratzinger, c’è un altro punto che merita una osservazione di metodo.

L’autore lascia intendere che Gesù sarebbe stato molto vicino agli esseni.  Un fascio di luce nell’oscurità assoluta: questo è il senso della scoperta dei Rotoli del Mar Morto ritrovati nelle grotte di Qumran, del tutto casualmente, alla fine degli anni Quaranta del nostro secolo e che, da allora, non ha smesso di far discutere storici, archeologi e antropologi.  Un fascio di luce contiene un messaggio ambiguo e paradossale: non solo illumina intensamente una superficie circoscritta, ne esalta i contorni, le caratteristiche, i dettagli, ma mette anche in evidenza che il buio resta il dominatore assoluto dello spazio circostante.  Un fascio di luce dunque, oltre a svelare qualcosa di estremamente importante, tende a rendere manifesta la impossibilità di conoscere il resto, quel «quasi tutto» che resta celato, senza che esista una possibilità anche improbabile e teorica di coglierne il senso latente.

Ora se non vi è dubbio che esistano assonanze ideali tra le parole di Gesù e alcune figure emerse a Qumran, ciò non deve stupire ma non deve portare neanche a conclusioni fuorvianti, perchè i Rotoli da soli non possono dare una testimonianza senza equivoci. Inoltre dai Vangeli è possibile cogliere nelle parole di Gesù echi multipli, qualche volta di tipo fariseo, qualche volta di tipo zelota. Del resto è abbastanza comprensibile che le influenze sulla sua personalità siano state molteplici, anche perchè il suo insegnamento è antidogmatico e aperto a molte problematiche tipicamente ebraiche. Il  Documento di Damasco, la Regola della Comunità contengono qualche elemento che può ricordare la figura di un Maestro che potrebbe essere simile a Gesù, ma gli elementi sono troppo scarni per risultare decisivi.  Ancora una osservazione. Perchè dimenticare quel fenomeno da molti giudicato eterodosso che fu il giudeocristianesimo e che durò sorprendentemente ben sei secoli ?

Per poter conoscere fino in fondo le inquietudini e gli aspetti fecondi e paradossali del messaggio di Gesù, «ebreo per sempre» come ha ben scritto la Nostra aetate, sarebbe stato forse necessario abbandonare la strada del già detto, in favore di un’ analisi non dogmatica.

Mentre scrivevo queste brevi note mi sono chiesto più volte: in fondo Ratzinger non è solo un autore, ma è anche un papa. E ragionevole aver pretese come le mie? Forse no. Ma perchè si è cimentato in questa impresa rischiosa trascurando tutte quelle sollecitazioni intellettuali che sono, per esempio, il frutto della ricerca moderna e contemporanea in campo cattolico? Anche questa domanda, come molte altre suscitate dalla lettura di questo libro, non ha risposta.