"PROGRESSO DEI POPOLI" O TRIONFO DEL PAPATO? UN BILANCIO A 40 ANNI DALL'ENCICLICA DI PAOLO VI
ADISTA n° 54 del 21.7.2007
DOC-1883.
GRANADA-ADISTA. Ha vinto il papato e ha perso la Chiesa. A
quarant’anni dalla pubblicazione della Populorum progressio,
l’enciclica sociale di Paolo VI, per José María
Castillo, il teologo spagnolo recentemente uscito dalla Compagnia di
Gesù (v. Adista n. 43/07), una cosa risulta massimamente evidente: “Il
papato è stato più forte del Concilio”, la preoccupazione relativa al
“progresso” dell’istituzione ecclesiastica - delle sue verità, del suo
potere, del suo prestigio - ha avuto la meglio su quella relativa al progresso
dei popoli. Se il titolo stesso dell’enciclica di Paolo VI, afferma Castillo
in un intervento scritto per Adista, aveva indicato un’opzione ben precisa -
riaffermata con chiarezza ancora maggiore nella Conferenza dei vescovi
latinoamericani a Medellín l’anno successivo, considerata il punto di
partenza della Teologia della Liberazione - l’incertezza di papa Montini
impedì però di operare l’auspicata riforma del potere del papa e della
Curia. E ci pensò poi Giovanni Paolo II ad affossare ogni
speranza di cambiamento. Così, in questi 40 anni, la preoccupazione centrale
è stata soprattutto di “potenziare l’immagine pubblica del papa, il suo
prestigio nel mondo, il suo potere e la sua influenza di fronte ai magnati
della politica e dell’economia”. In questo quadro, viene spontaneo
chiedersi, allora, a cosa servano le encicliche sociali, “se chi le scrive
mantiene le migliori relazioni possibili con i maggiori responsabili del fatto
che in questo mondo vi sia tanta fame, tanta umiliazione e tanto dolore”.
Se, come sostiene Habermas, “una convinzione è una regola di
comportamento”, per cui non ha alcuna credibilità chi dice una cosa e ne fa
un’altra, come si può pensare, si chiede Castillo, che i papi siano
seriamente convinti “che il dolore dei poveri è la cosa più urgente a cui
porre rimedio, se poi ricevono solennemente, e così ‘legittimano’, i
maggiori responsabili del dolore dei poveri?”. E, se la fede è soprattutto
una convinzione, “si può pensare che credano nel Vangelo quanti si
comportano come i grandi e i notabili di questo mondo”?
Non diversamente Castillo si era espresso (prima del suo abbandono per
“igiene mentale”) nei confronti della Compagnia di Gesù, alla quale aveva
rimproverato la stessa mancanza di credibilità nella sua missione in difesa
della giustizia nel mondo: non si può - affermava - essere ben integrati nel
sistema economico dominante e al tempo stesso pretendere di denunciarlo e
cambiarlo. Di seguito l’intervento del teologo, in una nostra traduzione
dallo spagnolo. (claudia fanti)
TRA IL DIRE DELLE ENCICLICHE E IL FARE DEI PAPI
Nel
1967, quando Paolo VI pubblicò l’enciclica Populorum progressio,
la Chiesa viveva un momento decisivo. Da poco più di un anno si era concluso
il Vaticano II. Uno dei problemi più gravi che in quel momento affrontava la
Chiesa era vedere se il papato avrebbe preso sul serio il Concilio o se,
piuttosto, si sarebbe preoccupato di mantenere ad ogni costo il suo potere e
il controllo della Curia sul Collegio dei vescovi e, mediante loro, il dominio
sulla Chiesa intera. Senza entrare qui nelle questioni tecniche legate a
questo tema e nella sua storia tormentata, una cosa è risultata chiara negli
ultimi quarant’anni: il papato è stato più forte del Concilio. E anche più
forte del Collegio episcopale e della Chiesa intera. Ha trionfato il papato.
E, con esso, la Curia vaticana, i suoi monsignori e i suoi teologi. Ma è
stato questo il meglio per la Chiesa e per il mondo? Questo è uno dei
problemi più seri che dobbiamo affrontare a 40 anni dalla pubblicazione della
Populorum progressio. Perché?
Per rispondere a questa domanda, la chiave si trova nel termine progressio,
“sviluppo”. La Chiesa deve centrarsi sul progresso di se stessa o su
quello dei popoli? Il compito centrale della Chiesa, cioè, è quello di
difendere le proprie verità, il proprio potere, il proprio influsso sulla
società, i propri diritti e le proprie prescrizioni? O, al contrario, il
compito centrale della Chiesa è promuovere lo sviluppo dei popoli, alleviare
la sofferenza degli ultimi di questo mondo, mettersi dalla parte di quelli che
sono considerati i “nessuno” della terra? La risposta di Paolo VI a questa
domanda risulta chiara nel titolo dell’enciclica: quello che ci deve
preoccupare e interessare è lo sviluppo dei popoli prima che quello della
Chiesa. Questa risposta del papa nel 1967 si fece più evidente nel ’68,
quando Paolo VI presiedette l’apertura della Conferenza dell’episcopato
latinoamericano a Medellín (Colombia). Avvenimento che viene considerato il
punto di partenza della Teologia della Liberazione. In quel momento, per come
si vedevano le cose allora, sembrava che la Chiesa avesse optato non per
l’esaltazione del papato ma per lo sviluppo dei popoli. E in modo molto
speciale per la liberazione dei poveri e degli oppressi.
Tuttavia, quanto ho appena detto esprime una visione parziale e, pertanto,
incompleta di quello che realmente succedeva nella Chiesa. Perché, come ben
sappiamo, papa Montini era, secondo l’espressione che viene attribuita a
Giovanni XXIII, “il nostro Amleto di Milano”. Un uomo che, come il
principe danese di Shakespeare, “aveva la tendenza più a dubitare e a
vacillare che a decidere” (H. Küng). Un modo d’essere che lo portò ad
anteporre il progresso dei popoli agli interessi della Chiesa, ma, allo stesso
tempo, a proibire che nel Concilio si ponesse il problema del celibato dei
preti e, dopo la sua presenza a Medellín a sostegno della liberazione dei
poveri, a pubblicare la Humanae vitae, accentuando così la crisi di
credibilità che, da allora, soffre il magistero della Chiesa. Il fatto è che
Paolo VI fu un papa indeciso, che non fu capace di riformare la Curia, come
aveva chiesto il Concilio. Un papa che pensò molto e decise poco. E che,
quando prese decisioni importanti, fu precisamente a favore delle tesi che,
nel Vaticano II, aveva difeso la teologia integrista della Curia con i suoi
scribi.
In ciò penso si trovi una delle chiavi che ci mostrano, a 40 anni dalla Populorum
progressio, il perché la Chiesa, nel 2007, abbia parlato molto della
liberazione dei poveri ma abbia promosso e potenziato in realtà il potere del
papa e della Curia. I documenti sociali di Paolo VI e Giovanni Paolo II sono
stati abbondanti. Ma quello che davvero cambia la Chiesa non è quello che il
papa dice nelle encicliche, ma quello che il papa fa nel governo della Chiesa.
E sappiamo bene che quello che il papato ha fatto, in questi 40 anni, è stato
soprattutto potenziare l’immagine pubblica del papa, il suo prestigio nel
mondo, il suo potere e la sua influenza di fronte ai magnati della politica e
dell’economia. Questa scalata al potere da parte del papa inizia già con
Paolo VI, ma raggiunge la vetta più alta con Giovanni Paolo II. Ero a Roma il
giorno in cui seppellirono Giovanni XXIII, in un funerale semplice, di
pomeriggio, con piazza San Pietro piena di gente semplice, di gente del
popolo, che piangeva (sic) la morte di quell’uomo semplice ed
umile. La splendente mattina in cui hanno seppellito Giovanni Paolo II, piazza
San Pietro era occupata da più di duecento capi di Stato, i grandi della
politica e del mercato, ben protetti dalla polizia e dall’esercito.
L’impressionante funerale di Giovanni Paolo, uno spettacolo incredibilmente
abbagliante, ha seppellito non solo papa Wojtyla ma anche la Chiesa voluta da
papa Giovanni.
Negli ultimi 40 anni, la distanza tra i più ricchi e i più poveri del mondo
è diventata un abisso che opprime tutti. I maggiori responsabili di questa
situazione apocalittica non sono stati quelli che erano in piazza San Pietro
al funerale di Giovanni XXIII, ma i magnati che occupavano il centro della
piazza la mattina in cui è stato seppellito Giovanni Paolo II. Un papa che,
lasciando questo mondo, ha mostrato molto chiaramente che le encicliche
sociali servono a poco, se chi le scrive mantiene le migliori relazioni
possibili con i maggiori responsabili del fatto che in questo mondo vi sia
tanta fame, tanta umiliazione e tanto dolore. Oggi sappiamo molto bene che
Giovanni Paolo II prese molto seriamente la lotta contro il comunismo e che, a
questo scopo, potenziò il sindacato Solidarnosc in Polonia. Per
rafforzare Solidarnosc, Giovanni Paolo II aveva bisogno di molto
denaro. E lo ottenne mediante accordi segreti con l’amministrazione Reagan,
come hanno dimostrato Carl Bernstein e Marco Politi, nel loro noto libro His
Holiness (“Sua Santità”) (1996).
Giovanni Paolo II fu sensibile alla minaccia reale del comunismo. Non fu
ugualmente sensibile alla minaccia del capitalismo. Giovanni Paolo II trionfò
il giorno in cui cadde il muro di Berlino. Ma quel papa non si rese conto che,
da quel giorno, il capitalismo diventava padrone e signore esclusivo del
mondo. E le conseguenze sono davanti agli occhi di tutti. Il prestigioso (e
moderato) economista Jeffrey Sachs, nel suo studio The End of Poverty
(“La fine della povertà”) (2005), ha detto: “Attualmente, più di otto
milioni di persone muoiono tutti gli anni in tutto il mondo perché sono
troppo povere per sopravvivere”. Se questo si poteva dire già negli anni
Novanta e, naturalmente, si può dire in questi primi anni del XXI secolo, ciò
significa che, se nei Paesi comunisti (secondo il noto e ben documentato Libro
nero del comunismo) sono state assassinate circa 90 milioni di persone in più
di mezzo secolo, nel mondo capitalista si sono uccisi più di 130 milioni di
esseri umani in poco più di 15 anni. Il capitalismo si spinge nel crudele
ufficio di uccidere più in là del comunismo o del nazismo, per citare due
esempi drammatici e recenti.
È evidente che la crudeltà del sistema capitalista, così come esso
funziona, è ai poveri della terra che fa più male. Ma non solo ad essi. Fa
male anche alla Chiesa e al papato. Perché lesiona gravemente la credibilità
del magistero ecclesiastico. Chi può credere a quello che dicono le
encicliche sociali della Chiesa, se i papi vengono ricevuti con tutti gli
onori dai massimi responsabili del dolore a cui gli stessi papi dicono di
voler porre rimedio in tali encicliche? Si è detto, con ogni verità, che
“una convinzione si definisce dal fatto che orientiamo il nostro
comportamento in base ad essa”. O, detto in modo più semplice, “una
convinzione è una regola di comportamento” (J. Habermas). Se è così, si
può pensare che i papi siano seriamente convinti di quello che dicono nelle
loro encicliche sociali? Come possono essere convinti che il dolore dei poveri
sia la cosa più urgente a cui porre rimedio, se poi ricevono solennemente, e
così “legittimano”, i maggiori responsabili del dolore dei poveri? Queste
domande ci pongono di fronte a una questione molto grave. Perché non dobbiamo
mai dimenticare che la fede religiosa non è un mero sapere, ma anche (e
soprattutto) una convinzione. Ma si può pensare che credano nel Vangelo
quanti si comportano come i grandi e i notabili di questo mondo, come si vede
che fanno i papi, parecchi cardinali e molti vescovi?
Il 6 agosto 1984, l’attuale papa, allora card. J. Ratzinger, rese pubblica
l’Istruzione su alcuni aspetti della Teologia della Liberazione. Il
verdetto dell’Istruzione era di condanna. Di questo si è già
scritto molto e non lo ripeterò qui. Quello che credo vada sottolineato è
che, nel caso di questa Istruzione, non è avvenuto ciò che suole avvenire
con le encicliche sociali. Le encicliche restano mera dottrina. L’Istruzione,
oltre che dottrina, fu espressione di una convinzione. E questa volta, senza
dubbio, convinzione che, essendo autentica, sfociò in “comportamento”. Il
comportamento che ha avuto il Vaticano con le Comunità di Base, con i teologi
della Liberazione, dalla condanna di Leonardo Boff al documento contro la
teologia di Jon Sobrino, e soprattutto nella “politica” delle nomine dei
vescovi seguita negli ultimi 25 anni. Il papa e la Curia hanno la salda e
decisa “convinzione” che alla Chiesa interessano più i vescovi sottomessi
a Roma che i vescovi fedeli al Vangelo. Interessano più i vescovi che non
causano problemi con i governi che i vescovi che lottano per difendere i
poveri. E, più di ogni altra cosa, quello che veramente interessa in Vaticano
è che i vescovi, i preti, i religiosi e le religiose, i fedeli tutti, vivano
la mistica della sottomissione a quanto dice il papa e a quanto decide il
papa. E, oltre a ciò, al Vaticano interessa avere fedeli che amino il papa.
Perché non dimentichiamo che, come ha detto Pierre Legendre, “l’opera
maestra del potere consiste nel farsi amare”. Perché così, e solo così,
si perpetua la sottomissione.
Il papato lo ha ottenuto. Il suo trionfo, in questo senso, è innegabile. Ma
è stato ed è il meglio per la Chiesa? Il noto scrittore John Cornwell,
riferendosi a Giovanni Paolo II, ha detto che “quando il papato cresce in
importanza a scapito del popolo di Dio, la Chiesa decade in influenza morale e
spirituale, a danno di tutti noi”. Si può pensare ragionevolmente che
Cornwell abbia centrato il punto.