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LA CHIESA LO STATO E L'ARROGANZA DELLA VERITÀ

Gustavo Zagrebelsky

la Repubblica 14-9-2007,

 

La riproposizione della religione in una dimensione civile ha sullo sfondo - espresso o sottinteso - il motto dostoevskijano: «Se Dio non c'è, tutto è possibile» che sintetizza l'atteggiamento etico nichilista di Ivan Karamazov, esposto nel dialogo col fratello Aliosha che introduce ali grande Inquisitore (un testo tutt'altro che irrilevante per i nostri temi). Di fronte all'anomia che pervade la società, solo Dio, la sua religione e la sua chiesa darebbero ragione del bene e del male, del lecito e dell'illecito. I credenti, rispetto ai non credenti, godrebbero così di uno status di superiorità non solo morale ma anche civile. Il cittadino per eccellenza sarebbe l'uomo di fede in Dio. Detto diversamente: solo i credenti in Dio sarebbero capaci di atteggiamenti eticamente orientati nei confronti dei propri simili e, in generale, nei confronti del mondo. Dovremmo così dare ancor oggi ragione a Locke, quando considerava i senza-Dio soggetti pericolosi, perché «inidonei a mantenere le promesse»; a Dostoevskij perché incapaci di districarsi nel dilemma tra il bene e il male?

L'argomento di Dostoevskij non è quello triviale, e infondo immorale, del premio o del castigo nell'aldilà per il bene e il male compiuti nell'aldiqua. È invece l'argomento di Kirillov nei Demoni: senza Dio tutto è permesso, perché l'uomo stesso si fa Dio; e il demonio che visita Ivan Karamazov aggiunge che «per Dio non esistono leggi». L'argomento di Dostoevskij è dunque quello della superbia, del super-uomo: l'uomo senza-Dio sarebbe quello che vuoi prendersi il posto di Dio. Presso i moralisti cattolici, è proprio questo l'argomento principe, usato per sostenere il valore civile della religione, come strumento per arginare gli effetti distruttivi della libertà insolente di chi non riconosce nulla al di sopra di sé. Ma è un argomento convincente? Ha senso dire che chi nega Dio vorrebbe mettersi al suo posto? Se Dio non esiste, non può essere questione di rimpiazzarlo. L'argomento della superbia sta e cade con Dio e, se Dio non esiste, non vale più niente. Potrebbe essere addirittura rovesciato: se si crede in Dio, si può credere ch'egli sia con noi, Gott mit uns, e, su questa premessa, ci si può porre legittimamente al di là del bene e del male, avendo Lui al proprio fianco.

Il «Dio è con noi» è la superbia in sommo grado e percorre tragicamente e violentemente la storia dell'umanità fino ai giorni nostri: il ritornante rovello dei capi religiosi, di come privare la fede in Dio della sua carica violenta, è la riprova di un problema insoluto. Invece, chi non crede in Dio non dispone di nessuna sicurezza a priori e sa che il compito dell'umanità di districarsi nelle difficoltà della vita dipende da lui, insieme con gli altri. L'etica della modestia e della responsabilità ha qui la sua radice e qui trova un fondamento che a me pare più chiaro che non la fede in un Dio onnipotente e provvidente.

In ogni caso, almeno questo è da concedere: la fede in Dio non è di per sé garanzia di modestia, esattamente come la mancanza di fede in Dio non è di per sé presupposto di necessaria superbia. Tutti sono a rischio e nessuno può vantare assicurazioni, mentre la disistima verso i non-credenti in Dio, che quel motto dostoevskijano porta nascosto in sé, è propriamente e precisamente un frutto di quella superbia che vorrebbe condannare.

L'utilità o la pericolosità della religione come rimedio contro le tendenze sociali auto-disgregatrici dipende forse anche dalla sua auto-comprensione, come religione della verità o come religione della carità. Il dilemma è particolarmente vivo per il cristianesimo, nato originariamente, nelle prime piccole comunità, come religione della carità (il discorso della montagna e i primi due comandamenti: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» e «Amerai il prossimo tuo come te stesso»: Mt 22, 37-37), quando la verità («Io sono la verità»: Gv 14, 6) era non un complesso di proposizioni teologiche né, tanto meno, teologico-politiche, ma semplicemente il riconoscimento e la confessione di Gesù, il Cristo. Progressivamente, però, il Cristianesimo è venuto istituzionalizzandosi come religione della verità, capace, attraverso l'uniformità di un apparato dogmatico, teorico e organizzativo, sempre più complesso, di tenere insieme vaste comunità di credenti, in comunione-confusione-competizione con il potere politico, quando il rapporto puramente d'amore, efficace nelle piccole cerchie, non bastava certo più a garantire l'unità. Le due concezioni del legame comunitario della fede coesistono dialetticamente e la loro tensione rappresenta uno dei fili conduttori della stessa storia della Chiesa nei secoli.

Ora, la questione da porre è se questa distinzione sia rilevante nella discussione circa il valore della religione, in particolare di quella cristiana, come tessuto connettivo spirituale della vita sociale. L'ipotesi da considerare è se non sia propriamente l'odierna insistenza sulla verità l'elemento che, nelle società pluraliste attuali, crea divisioni e conflitti mentre le cose andrebbero all'opposto se l'accento cadesse sulla carità, capace invece di creare solidarietà, legami e convergenze non solo tra i cristiani ma anche tra cristiani e non cristiani. «La scienza gonfia; la carità, invece, edifica. Chi crede di sapere qualcosa, senza la vera scienza testimoniata dalla vita, non sa: viene ingannato dal serpente, non avendo amato la vita», dice splendidamente l'anonimo autore della Lettera a Diogneto (XII, 5-6) del II secolo d. C.

In breve, c'è qui in nuce la contrapposizione tra l'arroganza della verità e l'umiltà della carità. La prima — a dispetto di tutte le proclamazioni in contrario da parte degli interessati— cerca la potenza e il potere, la seconda ne rifugge e, essendo il potere essenzialmente conflitto, competizione e perfino sopraffazione, si comprende facilmente come ogni religione della verità corre il rischio di alimentare tutto questo.

Con questo accenno alla religione della verità e alle sue inclinazioni, siamo giunti alla questione del «disagio democratico».

Condizioni primarie di ogni concezione della democrazia, non strumentale a poteri esterni che la usano come mezzo se e finché serve, sono la disponibilità alla ricerca di convergenze e, se del caso, l'apertura al compromesso, in condizioni di uguaglianza partecipativa. Su questo, non è il caso di insistere qui. Ma è proprio con queste condizioni che ogni religione della verità è potenzialmente in conflitto.

È in questione il numero due, inteso come unità divisa e come unità raddoppiata. Cerco di spiegarmi.

L'appartenenza tanto alla cerchia dei cittadini quanto alla cerchia dei credenti, ciascuna delle quali con le sue istituzioni, i suoi diritti e i suoi doveri di status, le sue condizioni di inclusione ed esclusione, determina la situazione che si denomina di «doppia fedeltà», una situazione che comporta nella realtà una scissione dell'unità. La democrazia si basa sull'autonomia di tutti i suoi partecipanti, autonomia che è un'offerta di disponibilità reciproca. Quando questo presupposto viene incrinato, si ingenera il sospetto degli uni verso gli altri, un sospetto distruttivo alla radice della convivenza democratica. La religione della verità, al contrario, anche con sanzioni ecclesiastiche, pretende obbedienza agli amministratori della verità, cioè alle istituzioni ecclesiastiche, da parte di quelli che, non a caso, si chiamano i «fedeli». Qui, può nascere il conflitto tra lealtà ai principi della sfera politica e obbedienza ai dettami religiosi, per evitare il quale, sia pure in tutt'altro contesto, Locke negava anche ai «papisti» (oltre che agli atei) il diritto alla tolleranza (nel senso di essere tollerati). Si dirà: ma tutti noi siamo il prodotto di tante appartenenze, della più varia specie (politica, culturale, sindacale, professionale, ecc.) e ciò non genera problemi, anzi arricchisce la democrazia. Sì, ma c'è una differenza tra queste appartenenze e l'appartenenza a comunità dogmatiche che riservano a se stesse la gestione della verità. Si dirà ancora: si è sempre liberi, quando lo si voglia, di uscire dalla comunità dei credenti e riacquistare la propria autonomia, non esistendo più Sante Inquisizioni. L'appartenenza a una confessione religiosa è dunque pur sempre un fatto di autonomia. Sì, ma questa replica, indegna di provenire da uomini di fede, svaluta assai il valore della fede e non considera la profondità del legame, connesso a questioni ultime come la salvezza dell'anima, che questa appartenenza determina. Non è la stessa cosa appartenere a un partito politico, a un'organizzazione sindacale, a una associazione culturale, oppure a una fede religiosa. Questo problema di lealtà democratica non è diverso rispetto alla Chiesa, alle comunità islamiche o a quella che era un tempo la «chiesa» dell'Internazionale comunista. Come lo si discute in questi casi, non dovrebbe essere taciuto con riguardo alla Chiesa cattolica.

Il raddoppio dell'unità consiste in un plusvalore che si determina a favore della Chiesa, in quanto essa opera nella società sia, dall'interno, come insieme dei fedeli, sia, dall'esterno, come soggetto istituzionale che intrattiene rapporti diretti con le istituzioni civili e ne condiziona le dinamiche. Questo sdoppiamento della personalità, comunità e istituzione, e il raddoppio dei tavoli su cui si svolge la partita sociale comportano la moltiplicazione dell'influenza politica, ciò che spiega forse il peso della Chiesa cattolica in taluni Paesi, dell'Europa o dell'America latina, un peso certamente, o probabilmente, sproporzionato a ciò che il dato numerico dei cattolici dalla fede attiva potrebbe indurre a pensare. Questo doppio peso è un problema per la democrazia.

Si diventa ripetitivi, ma non si saprebbe fare diversamente, ricordando che queste questioni sono state affrontate, nella prospettiva della conciliazione della Chiesa con la democrazia e del superamento della sua plurisecolare diffidenza, quando non aperta ostilità, dal Concilio Vaticano II. Il punto nodale è l'autonomia e la responsabilità dei fedeli nella sfera politica e sociale: qui è in gioco il rapporto tra la Chiesa e la democrazia. Allora fu inibito ai laici di invocare l'autorità della Chiesa a sostegno delle loro posizioni, inibizione che, evidentemente, comporta il reciproco: la necessaria astensione della Chiesa da ogni iniziativa rivolta a impegnare, in quella stessa sfera, la coscienza dei suoi fedeli. Questo spirito del Concilio sembra oggi appannato, ma non abbiamo da perdere la speranza, poiché, come è detto, «lo Spirito spira dove vuole».