UN LIBRO ANTICLERICALE DALLA COSTOLA DI "AVVENIRE": "CHIESA PADRONA" DI ROBERTO BERETTA
DOC-1807. ROMA-ADISTA. Quando il libro di un giornalista di Avvenire è
introvabile sugli scaffali degli stand del Convegno della Chiesa italiana di
Verona, può venire l'idea che sotto ci sia qualcosa di strano. Quando poi,
aprendo il libro, troviamo sì l'immancabile citazione di papa Ratzinger, ma
nell'inedita veste del cardinale che ricorda che "oggi la Chiesa è
divenuta per molti l'ostacolo principale alla fede", allora la curiosità
diventa sorpresa.
Il libro è "Chiesa padrona" (sottotitolo: "Strapotere, monopolio
e ingerenza nel cattolicesimo italiano", Piemme 2006, pp. 188, € 12,90) e
l'autore è Roberto Beretta, che scrive sulle pagine culturali del quotidiano
della Cei e non è nuovo a sortite irriverenti all'interno dell'allineato mondo
dell'informazione cattolica. Ma questa volta - rispetto ai suoi libri precedenti
in cui irrideva il linguaggio pretesco ("Da che pulpito... Come difendersi
dalle prediche") o l'ignoranza biblica dei cattolici ("Gli undici
comandamenti. Equivoci, bugie e luoghi comuni sulla Bibbia e dintorni") -
Beretta, pur con uno stile leggero e ironico, attacca con durezza quello che
chiama "il più grande nemico della Chiesa italiana": il clericalismo.
Una durezza sorprendente, tenendo conto del "pulpito" da cui parla,
tanto da indurlo a premettere che, se il suo nome sparirà dal quotidiano dei
vescovi, "il lettore potrà concludere che non avevo poi tutti i torti a
prendermela con certi meccanismi". In seguito alla pubblicazione, il nome
di Beretta non è sparito ma ciò non fa che aumentare la singolarità del
libro.
Non sono la "dittatura del relativismo" o le "persecuzioni"
inflitte dal laicismo ‘zapateriano' a mettere in pericolo la Chiesa oggi, ma
la sua stessa forza e il suo trionfale successo: "Il crollo delle ideologie
- argomenta Beretta - ha privato il mondo e l'Italia di uno degli interlocutori
più forti e popolari, il ‘socialismo', naturale antagonista del
cattolicesimo, lasciando campo aperto alla Chiesa, rimasta ormai unico baluardo
di valori che vadano un po' oltre le mere aspirazioni consumiste, libertarie,
borghesi, insomma individualiste. La Chiesa è dunque tornata protagonista
riverita e rispettata, anzi persino lusingata e blandita, ascoltata e temuta. E,
come una vecchia signora inaspettatamente corteggiata, forse si è un poco
montata la testa": "Per quanto paradossale possa apparire - aggiunge
-, la Chiesa oggi in Italia è ‘padrona', e lo sa. Lo è però solo in quanto
utile all'uno o all'altro degli schieramenti, e sa anche questo. Pertanto sembra
aver deciso di sfruttare tale temporanea posizione di privilegio facendo finta
di crederci e cercando di ricavarne i maggiori vantaggi, per sé e per i valori
che promuove. Così, dopo decenni di contestazioni, sbandamenti, depressione,
autolesionismo e crisi, le sue file gerarchiche vengono sempre più abitate da
un risorgente clericalismo di ritorno; molti ecclesiastici paiono volersi
illudere che siano tornati i ‘bei tempi' in cui il parroco era il centro del
paese e il vescovo un'indiscussa autorità civile".
Per descrivere cosa sia la mentalità clericale, Beretta prende in prestito una
fulminante citazione del poeta Giacomo Noventa: "Il clericale non pensa che
l'istituzione sia necessaria. Il clericale pensa che l'istituzione sia
sufficiente".
Beretta è tutt'altro che tenero nel descrivere le conseguenze di questo
"clericalismo di ritorno" all'interno della Chiesa. Ed è un'analisi
serrata, che non si perita di chiamare in causa - anche se l'attacco è rivolto
al fenomeno e non alla persona -– il principale artefice di questa gestione
negli ultimi decenni, il card. Camillo Ruini: "Il ‘serrate le file'
davanti alla constatazione di essere ormai minoranza, la riorganizzazione e il
potenziamento delle strutture ecclesiali realizzati nel ventennio Ruini, il
realismo da realpolitik nell'occupare spazi e ottenere risultati grazie a
un'opera di abili mediazioni hanno concorso nel creare all'interno della Chiesa
italiana un centralismo a tratti soffocante e oppressivo per il credente
qualunque. Stretto tra la necessità di esprimere una posizione unitaria (anche
nelle scelte sociali e civili) coi fratelli di fede e l'assenza di un vero
pluralistico dibattito su tali scelte all'interno della comunità, egli si sente
spesso esecutore di decisioni altrui, vittima di un ‘pensiero unico' del quale
gli sfugge la necessità, deluso per la mancanza di fiducia, conculcato nella
sua libertà".
Il giornalista di Avvenire arriva persino a criticare - rispettosamente, ma
senza smussare più di tanto - il trionfo della "gioiosa macchina da
guerra" di Ruini, il referendum sulla legge 40: "Ma lo stile
‘dirigista' purtroppo si nota in tutta la gestione della Chiesa. L'ultimo
referendum sulla bioetica, quello del 2005 in cui i vescovi si schierarono per
l'astensione, è un altro esempio del metodo clericale e dei suoi evidenti
difetti. E non per l'‘ingerenza' politica di cui è stata accusata la Chiesa
dagli esponenti dell'altro fronte, no; piuttosto per una ragione assai più
‘interna' alla comunità cristiana e indipendente dal merito dell'alternativa
oggetto di voto (sul quale qui non si discute nemmeno). Qual è stato, infatti,
il ruolo dei laici cattolici - ma anche della maggioranza del clero - in quell'occasione?
Quello di esecutori obbedienti di una tattica stabilita altrove. Un comitato
denominato Scienza e vita è stato fatto nascere dall'alto senza coinvolgere la
base - come fu invece, per esempio, all'epoca dei referendum sull'aborto o il
divorzio -, dal centro direttivo stesso della Cei, anzi usando strutture e mezzi
e uomini già alle dipendenze di enti satelliti della Conferenza episcopale, e
di lì si è diffuso verso il basso con le sue parole d'ordine, strettamente
controllate dall'alto".
Beretta passa in rassegna tutte le conseguenze della mentalità clericale che è
tornata a infettare la Chiesa: dalla totale mancanza di un dibattito franco e
libero all'interno della Chiesa alla mania di efficientismo e iperattivismo che
accomuna Conferenze episcopali e semplici parroci; dall'invadenza di
pronunciamenti da parte della gerarchia su ogni aspetto dello scibile umano alle
molte parole vane spese per esaltare il ruolo dei laici (che non devono mai
tralignare, però, dal loro ruolo di cinghia di trasmissione dei chierici); dal
conformismo dei preti alla formazione, gerarchica e ‘escludente' rispetto al
mondo, impartita nei seminari, fino, naturalmente, al capitolo dolente dell'8
per mille.
Certo, nel libro di Beretta non mancano le ambiguità e gli ammiccamenti: ad
esempio, in un passo in cui riconosce persino nelle parole del suo direttore
Dino Boffo il timido tentativo di aprire un dialogo all'interno della Chiesa che
si sostituisca al ‘monologo' della Cei. Ma d'altra parte, come tiene a
precisare lo stesso autore, non si tratta certo di un libro scritto "contro
il clero, ma assolutamente contro il clericalismo": "Non è
anticattolico, anzi della fede vuole rispettare tutti i dogmi. Solo quelli però".
Riproponiamo qui ampi stralci del capitolo dedicato all'otto per mille. (a. s.).
TUTTO QUELLO CHE NESSUNO VI HA MAI DETTO SULL'USO DELL'8 PER MILLE
La Trinità ha quattro persone? Si può discutere. Gesù Cristo
non è veramente risorto? Parliamone. Però al vero clericale non toccare l'otto
per mille: quello è diventato ormai più sicuro di un dogma, più intangibile
di un precetto del catechismo. E non per gretta avidità di denaro: perché
trattasi di uno dei principali ingranaggi su cui si fonda il macchinoso castello
della "Chiesa padrona".
Del resto, discutere della divinità di Gesù Cristo - finché non sboccia in
aperta eresia - interessa al massimo una minoranza di colti, e comunque ammette
un sacco di sfumature magari lecite. Invece sollevare obiezioni «dall'interno»
su tattiche contingenti e discutibili come l'otto per mille (ma anche l'ora di
religione nella scuola, il finanziamento alle scuole cattoliche, il
riconoscimento civile delle coppie di fatto...), sia pur in linea teorica o
ipotetica, rischia di creare una crepa nella quale "i nemici"
potrebbero infilarsi per scardinare l'intero sistema (...).
Proprio il meccanismo dell'otto per mille, pur avendo dischiuso grandi risorse e
prospettive alla Chiesa, mostra un sacco di effetti collaterali di cui tra
credenti ed ecclesiastici non si parla mai. Cominciamo dalle prime. Anzitutto,
il denaro corrisposto dai contribuenti italiani (attraverso una firma sulla
dichiarazione dei redditi) alla Cei - oppure ad altre realtà confessionali
ammesse al sistema - non fa che riconoscere almeno in parte il servizio sociale,
educativo, assistenziale oltre che religioso svolto dalla Chiesa per i cittadini
italiani, non credenti inclusi.
Si tratta dunque di un sacrosanto e probabilmente sottostimato
"stipendio" per una categoria, il clero, che oltre ai suoi doveri di
culto compie moltissimo lavoro "pubblico" e civile; e che, anche
quando adempie a un ministero puramente spirituale, risponde alla domanda di
gran parte della popolazione. Dunque ha diritto a sentirsi garantito di un
minimo vitale.
Però proprio questa "garanzia" dovrebbe fare un po' di problemi, ai
cattolici e ai preti stessi. Per esempio, per la mancata responsabilizzazione
dei laici cristiani sul mantenimento del "loro" clero: se in Italia
vigesse il sistema tedesco delle decime, o quello americano delle tasse sul
culto, c'è da credere che i nostri preti farebbero la fame e che la Penisola
sarebbe abitata al 99% da un popolo di agnostici "fiscali". Eppure,
sarebbe più rispondente allo spirito del Vangelo che i credenti stessi
provvedessero fraternamente ai loro preti (ammesso che questi ultimi si
fidassero a mettersi nelle mani dei fedeli...). Utopia? (...)
Troppo "garantismo" sulle risorse, inoltre, non favorisce lo sviluppo
nemmeno di chi usufruisce di tali fondi: è una legge della logica
assistenziale. In altre parole: che lavorino o no, che lo facciano molto o poco,
i preti il piatto in tavola sono sicuri di avercelo (a differenza di molte altre
categorie di persone) e anche qualcosina in più; perché dovrebbero affaticarsi
a guadagnarselo? Certo, si suppone che la loro coscienza sia più scrupolosa di
quella - per esempio - di un "normale" e vituperato dipendente
statale: ma anche loro sono uomini, no? Perché non potrebbero cadere in qualche
caso in una mentalità assistenziale?
Anche per la Chiesa nel suo complesso, il fatto di godere ogni anno di centinaia
di milioni più o meno "sicuri" non stimola certo la fiducia nella
Provvidenza, per non dire lo spirito di povertà francescana. Anzi, pone semmai
problemi di effettiva libertà nei confronti dello Stato o del suo governo, che
potrebbero anche esercitare un sottile ricatto politico (...).
L'otto per mille è assai comodo, solleva da un sacco di problemi e permette
persino di togliersi certi sfizi o di abbondare in qualche investimento; ma pone
pure qualche problema, e qualche domanda scomoda. Per esempio, basta navigare
nel bellissimo sito Internet dedicato al cosiddetto "Sovvenire" oppure
guardare in tv i periodici spot mandati in onda prima del periodo delle
dichiarazioni dei redditi per rendersi conto di quali e quante risorse
professionali vi siano state profuse. Giustamente, forse; ma uno spot simile –
poniamo - su Gesù Cristo, quando mai la Cei lo ha commissionato e fatto
trasmettere?
C'è un'altra questione ben più capitale, tuttavia, ed è l'enorme potere
attribuito a chi gestisce i proventi dell'otto per mille e delle altre offerte
del "Sovvenire"; un potere che non deriva "dal basso", da
una democratica elezione, né deve rendere conto del suo operato (al di là dei
bilanci generali) a chi ha versato il suo contributo; un potere che pure ha
importantissimi risvolti ecclesiali e teologici. Quale vescovo per esempio -
sapendo che poi dovrà ricorrere alla Cei per il denaro che gli occorre a
sistemare un seminario o riparare la cattedrale o costruire qualche canonica -
alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della
presidenza? In assenza di separazione dei poteri, come tra Parlamento e
magistratura per esempio, il rischio è quello di far coincidere i controllori
con i controllati: un regime che - anche se (lo speriamo vivamente) di fatto non
si verificano abusi né irregolarità - alimenta il clericalismo, cioè nel caso
specifico una gestione discrezionale del denaro.
Certo, esistono alcune norme per favorire un'equanime distribuzione dei fondi.
Nel 2005, per esempio, la Chiesa cattolica ha ottenuto dal ministero delle
Finanze 984 milioni di euro, dei quali 315 sono andati al sostentamento dei
quasi 39 mila sacerdoti italiani, 155 per le esigenze del culto e della
pastorale e 85 a interventi caritativi (questi ultimi due fondi vengono
ripartiti per metà in parti uguali tra tutte le 226 diocesi italiane e per
l'altra metà sulla base del numero dei loro abitanti). E fin qui si tratta di
meccanismi di divisione automatici e dunque senza possibilità di sperequazioni.
Ma il resto, che poi corrisponde a quasi metà del totale, una somma comunque
enorme?
Una parte, per esempio quella relativa alla costruzione di nuove chiese o alla
tutela dei beni artistici e agli interventi a favore del terzo mondo, dipende
dai progetti presentati alla Cei - ed è bello pensare che non ci siano margini
discrezionali o favoritismi per le diocesi "amiche" -; un'altra
finisce a pioggia sopra vari enti cattolici, compresi alcuni magari benemeriti
ma del tutto sconosciuti se non agli addetti ai lavori - e anche qui è
difficile credere che i destinatari si sentano poi liberi, se fosse il caso, di
presentare obiezioni sull'opera-to di chi fornisce aiuti tanto preziosi -;
un'altra ancora confluisce in fondi come quello intitolato alla catechesi e
all'educazione cristiana, che sarebbe curioso sapere che cosa ne faccia dei ben
60 milioni di euro erogatigli ogni anno.
Insomma, senza voler prospettare il peggio - e cioè fenomeni di corruzione o
cattiva gestione -, è inevitabile che cifre così rilevanti
"riservate" (lo dice il sito Internet ufficiale) "alla Presidenza
della Cei" per "attività di rilievo nazionale" creino nei
confronti della stessa Cei e in specie della sua dirigenza una fastidiosa
posizione di sudditanza almeno psicologica e morale da parte dei confratelli
vescovi e della maggior parte delle istituzioni ecclesiali o laicali.
Il denaro, soprattutto quando è molto, significa potere; anche nella Chiesa
(...). Proprio in quanto la Chiesa non è un sistema democratico, dotato dunque
di meccanismi di controllo ben precisi, dovrebbe mettersi al riparo da ogni
illazione di parzialità distinguendo l'indirizzo "politico" dalla
gestione dei fondi e garantendo che essi arrivino anche a un eventuale gruppo di
dissenzienti dalla linea della dirigenza.
Spesso la Chiesa ricorda di non essere una democrazia. Ma, se è per questo, non
è nemmeno una monarchia ("Essere Chiesa di comunione", ha scritto il
giornalista Giancarlo Zizola, "significa essere più di una democrazia, non
meno") e comunque dovrebbe aver presenti le anomalie che il suo regime
comporta, e cercare di ovviarvi (...).
La struttura cattolica, infatti, vede lo spirituale e il temporale talmente
sovrapposti che un cortocircuito è quasi inevitabile; l'abuso di potere spesso
è inavvertito persino da chi lo esercita, in quanto costui è convinto di
compierlo a fin di bene; la commistione dei livelli, la mancata distinzione
degli ambiti (in altri contesti si direbbe il conflitto d'interes-si) non
vengono neppure presi in considerazione. Così avviene che, come succede
spessissimo negli ambienti "laici", grazie all'attuale sistema, anche
nella Chiesa, quanti reggono i cordoni della borsa tengano sotto controllo ben
più di ciò che effettivamente gestiscono, ed esercitino un potere ricattatorio
che non ha nemmeno bisogno di essere espresso perché i soggetti lo percepiscano
(...).
Basta fare una prova: si troveranno fior di case editrici cattoliche o riviste
espressione di ordini religiosi disposte a ospitare le più estrose e
dubitosamente ortodosse dottrine teologiche; e nessuno o quasi, nella gerarchia,
muoverà un dito. Ma guai a chi si arrischi a esprimere un semplice dubbio sul
meccanismo che garantisce il sostentamento del clero (e tanto altro assieme): lì
la burocrazia clericale agisce senza pietà. Questo stesso libro ha provato la
ventura di essere stato rifiutato, dopo una lettura dei primi capitoli, dalla
pur ottima e ben intenzionata casa editrice cattolica che ne aveva accolto
volentieri il progetto, e non perché il testo sostenesse a parere del
responsabile cose inaccettabili: solo perché la casa "non poteva
permettersi" di indisporre chi nelle alte gerarchie ha poi il potere di
esercitare le sue ritorsioni in tanti e pesanti modi, che magari riguardano la
casa editrice stessa, le sue strutture o la congregazione religiosa che ne è
proprietaria.
L'otto per mille come ricatto morale, quindi. Già adesso è d'uso tappar la
bocca a chiunque nella Chiesa non sia d'accordo con la linea dominante,
rinfacciandogli il fatto che pure lui intasca i frutti della convenzione con lo
Stato. Non sei d'accordo? Rinuncia ai finanziamenti per la tua parrocchia, alla
congrua, allo stipendio da giornalista nel quotidiano cattolico... Altrimenti
taci e ringrazia la Provvidenza (e il concordato) che ti danno da mangiare! La
libertà dei figli di Dio scambiata con il biblico piatto di lenticchie...
In fondo, tutta la faccenda posa su un equivoco assai più vecchio dell'otto per
mille: quello che i soldi dei preti siano proprio dei .preti. Non è così,
invece, o almeno non sempre. Non tutte le proprietà ecclesiastiche sono
ascrivibili infatti al lavoro e al risparmio di sacerdoti e religiosi, i quali -
come noto - mettono in comune i frutti del loro impiego oppure reinvestono anche
gli averi personali nell'opera cui collaborano. Spesso i beni e le case derivano
da donazioni, lasciti, legati di benefattori vivi o defunti, che li danno alla
Chiesa sia per le sue necessità, sia per soccorrere i poveri. In questo caso,
benché gli intestatari siano formalmente parrocchie o istituti religiosi, è
evidente che il clero ne è solo amministratore e non proprietario (almeno
moralmente parlando e soprattutto poi se si considera la ricchezza nel contesto
più ampio del possesso secondo i precetti evangelici).
Quanto all'otto per mille, è vero che - si diceva sopra - esso è meritato
anche dalle fatiche e dall'impegno dei singoli sacerdoti. Però non si deve
dimenticare come derivi dalle tasse di tutti i cittadini, non cattolici
compresi; dunque esiste il dovere morale che quel cespite non solo non vada
sprecato e corrisponda al fine per cui è devoluto, ma che venga distribuito
davvero a tutti (persino a coloro che eventualmente hanno idee differenti da
quelle dominanti nelle strutture ecclesiastiche, e che comunque sono
rappresentati nella base dei contribuenti) e che non serva a perpetuare un
meccanismo scarsamente pluralistico e clericale, di per sé dannoso alla Chiesa
(...). La Cei (e tanto meno la sua dirigenza pro tempore) non può considerarsi
"padrona" nemmeno dell'otto per mille.