Congelati
i Dico, restano i problemi teologici
David
Gabrielli
da www.confronti.net marzo 2007
Anche
se la caduta del governo Prodi ha, intanto, congelato i Dico, è bene, a futura
memoria, ricordare che l’opposizione frontale di Ruini – appoggiato dal
Vaticano – al disegno di legge ha spinto anche autorevoli personalità
cattoliche a schierarsi contro i diktat episcopali. I nodi teologici di fondo
evidenziati da questa vicenda.
Emergenza
teologica nella Chiesa cattolica italiana, anche se, all’apparenza, essa si è
dissolta improvvisamente, come neve al sole, con la crisi di governo. È ovvio,
infatti: una tra le molte e complesse conseguenze, in politica estera e interna,
innescate dallo sfarinamento dell’Unione e dalla caduta del governo Prodi (21
febbraio) è che le questioni connesse ai Dico, e cioè al disegno di legge su
«Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi» varato l’8 febbraio
dal Consiglio dei ministri, sembrano ora «fuori tema», perché cadendo il
governo anche la prospettata, ma non approvata dal parlamento, normativa, di per
sé decade. Dunque sembrerebbe ozioso parlare di un problema che, ora, nessuno
può sapere se, come, e quando sarà ripreso dal «nuovo» governo.
Tuttavia,
a prescindere dai problemi giuridici, sociali e politici della vicenda, noi
riteniamo che gli aspetti teologici ed ecclesiali ad essa connessi rimangano
intatti anche se la legge è congelata: rimangono, e riesploderanno alla prima
occasione. Conviene perciò, a futura memoria, ricordare l’aspro Non possumus
– «non possiamo» ammettere i Dico – dei vertici della Conferenza
episcopale italiana (Cei), guidata dal cardinale Camillo Ruini, in questo
sostenuto da Benedetto XVI; e l’inattesa e vasta opposizione di una parte
importante della cattolicità italiana, che ha disvelato una Chiesa lacerata e
divisa dalle tesi di Ruini, così riassumibili: compito fondamentale della
Chiesa è dirimere le questioni etiche; solo la Chiesa romana e, in essa,
l’episcopato e il papato, hanno l’esclusiva interpretazione della «legge
naturale»; la Chiesa romana ha il diritto-dovere di dire allo Stato quando, a
suo parere, una legge della società civile sia giusta, tollerabile o
inammissibile.
La
Nota «impegnativa» del cardinal Ruini
Mentre
Ruini lanciava le sue parole d’ordine, rarissime sono state le personalità
cattoliche che pubblicamente prendessero le distanze dalla «crociata» (va però
ricordato che l’11 febbraio monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di
Ivrea, scriveva a la Repubblica una lettera per opporsi alla linea del capo
della Cei, e per ricordare che la vera battaglia che tutti i cattolici
dovrebbero fare sarebbe quella contro «Mammona», il culto del dio-denaro). Ma
lunedì 12 febbraio vi è stata una svolta. Benedetto XVI, infatti, quel giorno
affermava che la «legge naturale» contiene «norme inderogabili e cogenti che
non dipendono dalla volontà del legislatore e neppure dal consenso che gli
Stati possono ad esse prestare. Sono infatti norme che precedono qualsiasi legge
umana: come tali, non ammettono interventi in deroga da parte di nessuno». E
poi, ribadito che Dio stesso ha voluto l’indissolubilità e la sacralità del
matrimonio, il papa aggiungeva: «Nessuna legge fatta dagli uomini può perciò
sovvertire la norma scritta dal Creatore, senza che la società venga
drammaticamente ferita in ciò che costituisce il suo stesso fondamento basilare».
Parole
che venivano lette come un trasparente attacco al disegno di legge sui Dico.
Quale che fosse l’intenzione del pontefice, il riferimento alla «legge
naturale» è comunque problematico per il magistero papale che nella storia ha
compiuto «variazioni» perfino su un altro principio-chiave ricordato da
Ratzinger, e cioè l’assoluto rispetto per la vita umana «fino al suo termine
naturale»; per secoli, infatti, i papi hanno sostenuto, in linea di principio,
la liceità di far giustiziare gli «eretici». E allora?
D’altronde,
l’antropologia dimostra come, nella storia, e nelle diverse culture, la
famiglia, il rapporto uomo-donna, la sessualità, l’omosessualità siano stati
considerati, e vissuti, in modo assai diverso. Se tutti i popoli sostengono il
«Fa il bene, ed evita il male», la modulazione concreta di tale principio è
«relativa».
In
diversi paesi europei, a parte i Pacs che sono legali, il numero delle coppie
eterosessuali che convivono sta crescendo più dei matrimoni: si potrà dire,
apoditticamente, che quanti fanno tale scelta violano la «legge naturale»?
A
poche ore di distanza dal discorso del papa, il cardinale Ruini annunciava una
Nota «impegnativa», cioè moralmente vincolante i parlamentari cattolici a
impedire il disegno di legge sui Dico. Annuncio che suscitava gli applausi del
centrodestra e più o meno esplicite o imbarazzate critiche da parte dei partiti
di governo (Udeur esclusa): ma di tali reazioni, che in sostanza vertevano sul
problema dei rapporti Stato-Chiesa cattolica, e sul concetto di «laicità»,
qui sorvoliamo. Vediamo, invece, le reazioni in «casa cattolica».
Un’iniziativa
di «inaudita gravità»
«Forse
sarò troppo drastico. Ma preferisco parlar chiaro oggi, piuttosto che pentirmi
domani di aver taciuto»: queste le prime parole del professor Leopoldo Elia al
Corriere della Sera del 13 febbraio. Il giurista, che è stato anche presidente
della Corte costituzionale e senatore della Democrazia cristiana prima, del
Partito popolare italiano poi, attaccava globalmente l’atteggiamento della
gerarchia cattolica sui Dico e contro il governo Prodi che la legge ha
presentato: «È dal Risorgimento che la Chiesa non teneva un atteggiamento
tanto intransigente nei confronti di un governo italiano. Persino sull’aborto,
un tema ben più delicato e drammatico delle coppie di fatto, si trovò una
linea di compromesso, individuando una fase preliminare di riflessione per la
donna. Oggi la Chiesa italiana, avvezza ai privilegi concordatari, è abituata a
esercitare non l’“auctoritas” di cui parla il professor [Cesare] Mirabelli
su L’Osservatore romano [del 2 febbraio], ma una potestas indiretta del tutto
anacronistica… Pare che la Chiesa voglia fare del nostro paese l’eccezione
d’Europa: l’Italia cattolica dove non valgono le leggi in vigore in tutti
gli altri paesi cattolici».
E,
sulla Nota annunciata da Ruini: «I parlamentari cattolici devono farsi carico
dell’intero paese. Non possono, per obbedienza alla dottrina cattolica del
diritto naturale, rifiutare di offrire ai cittadini italiani di ogni fede e
credenza quel che si offre in gran parte d’Europa… Il papa e i vescovi hanno
il diritto di esigere dai fedeli una condotta conforme ai loro insegnamenti. Ma
non hanno il diritto di ricorrere a leggi – o di imporre di non fare una legge
– per vincolare i non credenti. Per loro sarebbe un’inaccettabile
discriminazione. E poi la Chiesa italiana deve sfuggire alla tentazione di
approfittare della debolezza degli uomini politici e della loro mancanza di
senso dello Stato, allorché corrono a genuflettersi per ottenere il consenso
della minoranza cattolica».
Da
parte sua il professor Giuseppe Alberigo, il più famoso storico della Chiesa in
Italia, e direttore dell’Istituto per le scienze religiose Giovanni XXIII di
Bologna, lo stesso 13 febbraio, in risposta all’annuncio di Ruini ha lanciato
questa supplica: «La Chiesa italiana, malgrado sia ricca di tante energie e
fermenti, sta subendo un’immeritata involuzione. L’annunciato intervento
della Presidenza della Conferenza episcopale, che imporrebbe ai parlamentari
cattolici di rifiutare il progetto di legge sui “diritti delle convivenze”,
è di inaudita gravità. Con un atto di questa natura l’Italia ricadrebbe
nella deprecata condizione di conflitto tra la condizione di credente e quella
di cittadino. Condizione insorta dopo l’unificazione del paese e il Non
expedit della Santa Sede [che, dopo il 1870, proibì ai cattolici di partecipare
alla vita politica italiana] e superata definitivamente solo con gli accordi
concordatari».
«Denunciamo
con dolore, ma con fermezza, questo rischio e supplichiamo i Pastori di
prenderne coscienza e di evitare tanta sciagura, che porterebbe la nostra Chiesa
e il nostro paese fuori dalla storia. Si può pensare che il progetto di legge
in discussione non sia ottimale, ma è anche indispensabile distinguere tra ciò
che per i credenti è obbligo, non solo di coscienza ma anche canonico, e quanto
deve essere regolato dallo Stato laico per tutti i cittadini». «Invitiamo la
Conferenza episcopale a equilibrare le sue prese di posizione e i parlamentari
cattolici a restare fedeli al loro obbligo costituzionale di legislatori per
tutti».
Firmavano
il documento migliaia di persone; qualche nome più noto: Alberto Melloni,
storico; Ettore Masina, giornalista; Raniero La Valle, ex senatore; Pietro
Scoppola, storico; don Giuseppe Ruggieri, teologo; don Albino Bizzotto, parroco
e animatore dei Beati i costruttori di pace; Giuseppe Barbaglio, biblista;
Pasquale Colella, giurista; Vittorio Bellavite, coordinatore nazionale del
movimento Noi siamo Chiesa.
Il
documento veniva inviato alle agenzie mercoledì 14, e di esso davano conto
molti tg e poi, in prima pagina, tutti i quotidiani nazionali di giovedì 15.
L’iniziativa provocava un contrappello, anch’esso diffuso dalle agenzie la
sera del 14. Questo testo – firmato non solo da cattolici dichiarati (come il
giurista Francesco D’Agostino, la giornalista Lucetta Scaraffia e lo storico
Giovanni Maria Vian), ma anche da «laici» proclamati, come Giuliano Ferrara
che poi il 15 lo pubblicava sul giornale da lui diretto, Il Foglio – chiede ai
vescovi di «mantenere chiara e libera la loro impostazione di dottrina e di
cultura morale in tema di legislazione familiare. Riteniamo ingiusta ogni forma
di intimidazione intellettuale contro l’autonomia del pensiero religioso…
Giudichiamo improprio, e sintomo di un uso politico della sfera religiosa,
l’appello dei cattolici democratici affinché la Chiesa italiana rinunci a un
suo atto di magistero, che la libera coscienza di laici e cattolici, compresi i
parlamentari della Repubblica, potrà valutare serenamente e in piena libertà».
Un testo che sostiene un curioso concetto: esaltare l’attuale linea della
gerarchia cattolica è corretto; ma criticarla è di per sé sbagliato, o «intimidatorio».
Sempre
il 15 febbraio Oscar Luigi Scalfaro su la Repubblica così commentava
l’iniziativa del cardinal Ruini: «La Chiesa, pur nella fermezza dei suoi
princìpi, non ha mai compiuto in sessant’anni interventi che ponessero a un
bivio obbligato i parlamentari cattolici. Io confido che interventi del genere
non ci saranno. Se dovessero invece avvenire, distruggerebbero la possibilità
stessa di una presenza dei cattolici in Parlamento in condizioni di dignità e
libertà, quella libertà che consente l’assunzione individuale delle
responsabilità. Ma a chi serve, oggi e domani, un gruppo di parlamentari che si
limitano a eseguire gli ordini? Certo non alla Chiesa. Sarebbero una inutile
pattuglia, e l’effetto sarebbe una crescita di laicismo esasperato».
«Vede
– continuava l’ex presidente della Repubblica, cattolico proclamato e
insieme geloso cultore della laicità dello Stato – io sono nella vita
politica da 61 anni, dalla Costituente. È vero, abbiamo attraversato come
parlamentari cattolici momenti faticosi, difficili, prese di posizione delicate.
Ma già dall’Assemblea costituente fu preminente in tutti la ricerca di un
denominatore comune sui temi dei diritti e della dignità delle persone. Ne
nacque un documento d’eccezione, la Carta, del quale dobbiamo ringraziare i
grandi nomi che resero un tale servizio al popolo italiano: penso, nel mondo
cattolico, a De Gasperi, a La Pira, a Dossetti, più tardi ad Aldo Moro e a
tantissimi altri rappresentanti del popolo. Il grande tema per noi cattolici era
fare sintesi fra diritti e doveri del cittadino e diritti e doveri del
cristiano, portare nella politica il pensiero filosofico che anima i principi
cristiani sempre con grande rispetto per le impostazioni altrui… Dopo la
sconfitta [del 1974, nel referendum] sul divorzio qualcuno in assoluta buona
fede sostenne che non potevamo collaborare a formulare gli articoli della legge
perché così facendo avremmo aiutato un istituto che contestavamo. Ma
giustamente vinse la tesi che quando cade l’affermazione di un principio
rimane sempre il dovere di lottare per il male minore».
E
se l’intervento di Ruini dovesse trasformarsi in un vero e proprio precetto?
«Posizioni da parte della Chiesa che portassero a conseguenze tanto pesanti,
così come non si sono verificate neanche quando furono compromessi
l’indissolubilità del matrimonio e il diritto alla vita, richiederebbero a
mio avviso un ampio esame nell’Assemblea dei vescovi italiani». Scalfaro
giudicava poi la legge preparata, «in un dialogo tra impostazioni diverse», da
Barbara Pollastrini e Rosy Bindi, «un testo che come tutti i testi è
indubbiamente migliorabile ma che certamente non prevede – per essere chiari
– il matrimonio fra gli omosessuali o una formula mascherata ma simile». E
concludeva: «La preoccupazione della Chiesa è più che condivisibile. Ma il
problema vero è rafforzare nei cattolici la fede, in modo che sappiano
scegliere secondo i princìpi nei quali credono».
Accanto
a queste personalità cattoliche più in vista, anche altri gruppi, preti di
periferia, movimenti (nella scheda riportiamo la Lettera aperta della Comunità
di base di san Paolo in Roma) hanno criticato la linea di Ruini. Il quale non ha
varcato impunemente la linea del Rubicone, perché egli, volente o nolente, ha
aperto nella Chiesa cattolica italiana un contrasto teologico e pastorale che
avrà un’ondata lunga; e che peserà anche sui nuovi «vertici» della Cei che
il papa dovrà scegliere sapendo che, pur sotto una coltre di apparente unanimità,
anche l’episcopato è diviso.
I
nodi teologici ed ecclesiali di fondo
La
Chiesa cattolica romana (come ogni altra) ha sempre proclamato essere suo
compito primario l’annuncio della morte e della risurrezione di Cristo. È
parte costitutiva di una vita di fede «coerente» con tale annuncio opporsi
frontalmente ai Pacs/Dico? In Francia, ad esempio, quando nel 1999 fu approvata
la legge sui Pacs i vescovi espressero il loro disappunto, ma non eressero
barricate, e si impegnarono in una più incisiva formazione dei loro fedeli.
Anche in Italia, in discussione non era ciò che lo Stato pensa della famiglia
«cristiana», ma come il Parlamento di uno Stato laico dovesse affrontare un
problema umano e sociale. Come che può ovviamente avere variegate, e
discutibili, attuazioni. Tuttavia una Chiesa snatura il suo «essere» se
ricerca la propria comunione di fede in un’intransigente opposizione alla
proposta di legge o (ipotesi) fa balenare l’appoggio alla raccolta di firme
per un referendum abrogativo. Sarebbe la pretesa di riformare lo Stato laico
mentre non si sa riformare la propria Chiesa. Dunque, il ritenere bravi
cattolici solo i fieri avversari – in Parlamento e fuori – dei Pacs/Dico
sarebbe un vulnus profondo al senso della Chiesa, della laicità dello Stato e
della libertà di coscienza così come proclamati dal Concilio Vaticano II.
Né
– molti hanno rilevato – è possibile sostenere orgogliosamente che solo la
Chiesa romana sappia che cosa sia «bene» per l’uomo e per la donna. Tale
Chiesa, come ogni altra, nella storia talora ha operato il «bene» della
persona umana e talaltra, invece, l’ha tradito benedicendo violenze.
Ancora,
dovrebbe pur significare qualcosa se esponenti autorevoli di Chiese non
cattoliche hanno dato un giudizio positivo sulla proposta di legge. Tradiscono
l’Evangelo, queste persone? Vi sono naturalmente protestanti italiani che si
oppongono a tale legge; ma né gli uni né gli altri accusano gli avversari di
essere «cristiani incoerenti». Il confronto è laico.
Nel
2003 il cardinale Ruini giudicò «bene» la missione militare italiana
nell’Iraq occupato dagli anglo-americani con una guerra ritenuta «illegale»
dall’Onu. Eppure la Chiesa cattolica italiana – nel suo insieme – era
radicalmente divisa sul giudizio etico da dare su quella guerra, e su quella
presenza italiana. Ma la Cei per difendere i «valori cristiani» non chiamò a
raccolta i cattolici per opporsi ad un governo pullulante di «cristiani»
favorevoli ad una guerra «illegale». Come mai i vescovi sanno tutto sui danni
dei Pacs e così poco su quelli della guerra? Perché, allora, l’episcopato
non gettò tutto il suo peso per «obbligare» i parlamentari cattolici del
centrodestra ad opporsi al loro stesso governo schierato invece a favore della
tragica avventura di Bush?
Bisogna
– inoltre – ricordare (l’hanno ampiamente argomentato giuristi come
Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky) che in Italia vige un Concordato con cui
la Chiesa cattolica s’impegna a rispettare l’indipendenza e la sovranità
dello Stato. Per avere le mani pienamente libere, ed agire legittimamente come
qualsiasi altro soggetto politico, culturale e religioso, la Chiesa romana
dovrebbe, prima, rinunciare ai privilegi ottenuti da quel Patto. Questo sul
piano del diritto.
È
apparso evidente che i vertici dell’episcopato faticano a rendersi conto che,
in un paese secolarizzato e insieme multiculturale e multireligioso,
insostenibile è la pretesa di un’egemonia culturale sui temi etici, o quella
di uniformare norme e diritti, doveri e valori ad una specifica etica
confessionale. In Italia, quella cattolica; come lo sarebbe in Svezia la
luterana, in Russia l’ortodossa o in Turchia l’islamica… Invece la
questione dei Dico andrebbe affrontata, in Parlamento, tenendo presenti
molteplici princìpi: la distinzione tra Dio e Cesare, la laicità dello Stato,
il bene comune, il rispetto delle minoranze, la libertà di coscienza, la
consapevolezza che i costumi mutano, la salvaguardia della famiglia
tradizionale, la tutela di altre forme di amore.
Purtroppo
nella Chiesa italiana – anche in questo ignorando l’input del Vaticano II
– non v’è luogo deputato ad un reale dibattito. Il IV Convegno ecclesiale
celebrato in ottobre a Verona (vedi Confronti 12/2006) avrebbe potuto esserlo;
ma la Cei impedì un vero e aperto confronto, ed escluse dai relatori voci
critiche. Il Concilio, nella costituzione pastorale Gaudium et spes (n. 62)
affermò: «Sia riconosciuta ai fedeli sia ecclesiastici che laici la libertà
di ricercare, di pensare, di manifestare con umiltà e coraggio la propria
opinione nel campo in cui sono competenti». Invito raccolto pari pari nel
Codice di diritto canonico (c. 212). Perciò, che malinconia constatare che
L’Osservatore romano del 16 febbraio giudicava «inopportuno» l’appello
lanciato da Alberigo!
In
tale contesto, la caduta di Prodi è stata una sorpresa «provvidenziale» per i
vertici vaticani e della Cei, esimendoli – per ora, almeno – dal redigere la
famosa Nota sulla cui opportunità molti vescovi erano contrari, e sul cui
contenuto sarebbe stato arduo trovare una vasta concordia. Insomma, mancando i
Dico è differito uno scontro, pubblico e crescente, all’interno della Chiesa
italiana. E, tuttavia, quanto accaduto nelle prime tre settimane di febbraio ha
di fatto riaperto un’inevitabile riflessione teologica sul concetto di «popolo
di Dio» affermato dal Vaticano II, evidenziando una pluralità prima forse
sommersa. Questa Chiesa plurale è nelle cose, anche se cercheranno di
occultarla; perciò è importante che, in un’ora così grave coinvolgente alla
radice il «Chi è» della Ekklesia, autorevoli esponenti cattolici, ed anche
gruppi di base, gente delle parrocchie e sacerdoti, abbiano sussurrato – o
gridato – a Ruini: Non possumus.