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ESSERE PRETE IN AFRICA. SFIDE E CONTRADDIZIONI DI UN CLERO IN CERCA DI IDENTITÀ

ADISTA n° 62 del 15.9.2007

DOC-1895. BRUXELLES-ADISTA. La società africana è una società in crisi: fragilità istituzionale e politica, limitatezza del mercato, debolezza del consumo e dipendenza dal mercato internazionale fanno dell’Africa "un granello di sabbia nell’oceano delle dune". E la Chiesa africana non fa che riverberare questa crisi: lo stesso ruolo del sacerdote necessita oggi di una ridefinizione. Lo afferma, in un lungo ed articolato saggio dal titolo "La situazione del clero africano oggi", pubblicato in un dossier dedicato alla Chiesa africana sul portale internet francese theologia.fr, p. Ignace Ndongala Maduku, prete della diocesi di Kinshasa (Repubblica democratica del Congo) e professore all'istituto Lumen Vitae di Bruxelles.

Tra il forte impegno sociale che caratterizza il prete in Africa, spingendolo più in direzione dell’impegno politico che di quello caritativo, e le contraddizioni che assumono accenti differenti a seconda del contesto locale - siano esse legate a pratiche superstiziose alimentate dalla "fame di meraviglioso", a problemi di sostentamento materiale, ai limiti della formazione, ai modi di reclutamento dei preti, al mancato rispetto del celibato - ciò di cui oggi si avverte il bisogno, spiega p. Ndongala, è l’individuazione di soluzioni "nella linea dell’ecclesiologia che le Chiese d’Africa costruiscono oggi sul modello della fraternità", specialmente nella prospettiva del prossimo Sinodo speciale dei vescovi per l’Africa, che si terrà nel 2009. Pubblichiamo di seguito, in una nostra traduzione dal francese, ampi stralci dell’intervento. (l. e.)

 

LA SITUAZIONE ATTUALE DEL CLERO AFRICANO


 di Ignace Ndongala Maduku

La situazione del clero africano è tributaria dei differenti contesti in cui i preti esercitano la loro missione. Si presenta diversificata da Paese a Paese, ma, anche all’interno di uno stesso Paese, quasi opposta da diocesi a diocesi. L’Africa è plurale. Evidentemente, parlare della situazione attuale del clero africano implica la considerazione delle situazioni specifiche relative alle diverse aree del continente: Africa del Nord, Africa nera, Africa australe. Non avendo la pretesa di offrire una riflessione su tutta l’Africa, mi limiterò più modestamente all’Africa subsahariana. E mi corre l’obbligo di precisare che esiste il rischio di una visione disinvolta delle cose, parziale nell’affrontare il ruolo del prete, selettiva per la scelta delle questioni da trattare, incompleta perché limitata all’Africa subasahariana francofona.

Le riflessioni che seguono riconducono il ministero sacerdotale ai tre grandi titoli riconosciuti a Cristo, relativi alle funzioni della parola, del sacramento e del governo (Lumen gentium, 28; Presbyterorum ordinis, 4, 5 e 6). Mi si permetta tuttavia di cominciare con il rammentare, nella prima parte, il contesto dell’Africa subsahariana. I cambiamenti della società africana incidono sull’azione della Chiesa e questa influisce sul modello di prete, dettando il tipo di formazione. Nella seconda parte mi sforzerò di delineare il ruolo del prete africano, prima di affrontare, nella terza parte, alcuni problemi ricorrenti del clero in Africa.

1. L’Africa, un grande continente, una grande impotenza

Lo sviluppo integrale ed armonioso dell’Africa subsahariana si trova oggi sotto numerose ipoteche. Continente scandalosamente ricco di potenzialità umane, di riserve naturali, di possibilità economiche, con risorse demografiche e culturali portatrici di grandi prospettive di crescita, l’Africa esprime paradossalmente "una grande impotenza". Senza cadere nell’afro-pessimismo, bisogna riconoscere che il bilancio globale della situazione del continente è negativo: le proiezioni economiche sono disastrose, le prospettive politiche non sono per nulla incoraggianti, le analisi sociali non potrebbero allarmare maggiormente. L’Africa è stretta nelle maglie della polarizzazione e dell’emarginazione. Questa situazione si complica nel contesto della globalizzazione neoliberista. La fragilità istituzionale e politica degli Stati africani, la limitatezza caratteristica del mercato africano, la debolezza del consumo e l’integrazione al mercato internazionale in termini di dipendenza fanno dell’Africa un granello di sabbia nell’oceano delle dune. L’Africa non interessa ai Paesi del Nord se non nella misura in cui risponde ai loro obiettivi strategici, alla loro sicurezza e al loro approvvigionamento energetico. (...).

La Chiesa, le cui molteplici associazioni di cristiani coniugano riflessione ed impegno sociale, è un segmento di questa società africana in crisi. Come tale, i molteplici sconvolgimenti del continente la riguardano direttamente. Attore sociale, la Chiesa produce e fonde forme di esistenza e di associazione che concorrono alla socializzazione; poiché il suo campo d'azione incrocia la sfera delle dinamiche sociali e delle strutturazioni dei rapporti sociali che derivano dalla politica, dipendono dall'economia e veicolano valori, la Chiesa subisce i contraccolpi e i soprassalti della crisi africana (...).

2. Il ruolo del prete africano

Come ha definito il Concilio, il ruolo del prete si sviluppa attorno a tre assi: l’annuncio del Vangelo, la celebrazione dei sacramenti e il governo della comunità. Questi assi conoscono oggi notevoli ricomposizioni che chiedono una ridefinizione del ruolo del prete.

La ricezione del Vaticano II in varie diocesi a Sud del Sahara è stata l’occasione per valorizzare la dimensione comunionale della Chiesa e delle sue relazioni con il mondo attuale. I nuovi accenti che le Chiese d’Africa pongono sulla missione sono portatori di una richiesta tanto profonda quanto legittima: le Chiese d’Africa devono essere responsabili della loro evangelizzazione. Questa richiesta, che impegna il divenire e forse la sopravvivenza delle Chiese d’Africa, ha dato luogo ad un prodigioso processo creativo a vantaggio della nascita di una Chiesa locale in Africa. L’intensificazione e l’estensione dell’evangelizzazione del continente ha per orizzonte referenziale le piccole comunità a dimensione umana. La pastorale ormai non guarda più alla sacramentalizzazione ad ogni costo del maggior numero di persone, ma ad un’azione circostanziata ed intensiva di risveglio ed animazione dei laici. Se è vero che la collaborazione tra preti e laici ne risulta consolidata, non si possono occultare il tanfo di autoritarismo e la persistenza del clericalismo ancora percepibili qua e là.

Una cosa è però sicura: i preti hanno progressivamente trovato una nuova identità. In effetti, sono diventati sempre più presenti nella vita dei loro compatrioti. Si sentono solidali con i laici con cui lottano per la liberazione del continente. Molti preti condividono le lotte e le rivendicazioni di giustizia sociale. Si identificano con il popolo e si avvicinano ad esso: facendo prevalere l’impegno politico su quello caritativo, i preti oggi non si accontentano più di giri di parole per fare denunce su questioni di giustizia. Operando insieme ai laici, spingono la Chiesa ad abbandonare le dolci "praterie" dell’idealismo e del pacifismo incondizionato per far emergere un’Africa altra. Superato lo statuto del sacerdote, i preti non separano più le attività tradizionali del culto dalle questioni di giustizia. L’istanza biblica del "profeta" costituisce la base di un nuovo esercizio del ministero. C’è un cambiamento della competenza religiosa e del ruolo sociale dei preti. Questo cambiamento implica il ricorso all’azione politica come mezzo di trasformazione della società, e mette fine alla cultura clericale segnata dalla fuga dalla politica. Tuttavia, a parte prese di posizione pubbliche, a parte l’impegno nell’azione politica e la partecipazione alla vita economica o culturale, una constatazione si impone: i preti non assumono responsabilità politiche (…).

L’eucaristia domenicale, i sacramenti di iniziazione e quelli legati alle altre grandi tappe della vita conservano ancora il loro significato in un buon numero di Chiese africane. La pastorale sacramentale è il luogo privilegiato dell’e-sercizio del carisma legato alla funzione. La ricomposizione in corso in ambito religioso permette ai preti di occupare lo spazio simbolico in un modo che lascia grande spazio all’inventiva. È dunque giocoforza riconoscere le diverse iniziative spontanee di inculturazione che impreziosiscono la liturgia, la catechesi, i sacramenti... In un contesto in cui la pietà dei cristiani è compresa nel quadro di credenze e pratiche che lasciano spazio al meraviglioso, non è illusorio il timore rispetto al risorgere della figura tradizionale del prete. In effetti, le rappresentazioni collettive dei preti fanno di essi dei personaggi in possesso di una forza misteriosa, stregoni o anti-stregoni che hanno potere sul fuoco dell’inferno. Il prete è allora percepito come un mediatore privilegiato fra Dio e gli uomini, un intermediario insuperabile fra il visibile e l’invisibile. La plausibilità sociale dell’autorità simbolica del prete è sostenuta da una concezione mutilata dell’ordinazione, come se fosse un’investitu-ra, l’intronizzazione di un nuovo capo. Come dice P. Bourdieu, si tratta di un "atto di magia sociale".

Il carattere spettacolare dell’ordinazione porta a cogliere nel prete un "altro", differente dagli altri uomini. Questa concezione dell’ordinazione è destinata a sottolineare nuovi obblighi che richiedono un carisma personale. Gli obblighi in cui si articola questo carisma danno luogo ad una concezione ritualista di tipo magico-religioso del ministero. Ne deriva che alcuni ministri sono visti come abitati da un carisma personale che si accompagna a prodigi e miracoli. Le credenze che legittimano queste pratiche accordano un posto speciale ai miracoli di guarigione e di esorcismo. I valori religiosi attinenti a queste pratiche fanno della salvezza cristiana essenzialmente una liberazione da brutte situazioni e la guarigione di ogni malattia e infermità. C’è qui una caduta dottrinale che schiude la porta all’indecenza, alla superstizione e alla simonia. La fame di meraviglioso si riversa su credenze e pratiche troppo impregnate di irrazionale (…). Che questa alterazione dell’identità del prete sia un fatto tra i fedeli conferma la necessità e l’urgenza di una catechesi che accompagni liturgie e paraliturgie (...).

In generale si osserva come la Chiesa cattolica presenti un carattere piramidale che riposa su una struttura molto gerarchizzata. La divisione dei ruoli in questa struttura riserva concretamente il potere ad un piccolo numero di persone. La retorica della fraternità e della Chiesa-famiglia non cambia granché le cose, giacché il contesto, per lo meno per l’Africa, è quello in cui l’integrazione dei membri è gerarchica (...). E c’è di più: il modello di socialità consensuale inerente all’immagine di Chiesa-famiglia mantiene la figura del pater familias in cui la benevolenza e l’amore richiedono una doppia obbedienza in termini di pietas. La connessione, non soggetta a critica, tra diocesi e vita familiare trasforma la fraternità in uno specchio per le allodole che conduce preti e laici al dissenso interiore. Essendo la diocesi una famiglia, il conflitto e il disaccordo con coloro che sono investiti del potere canonico di giurisdizione sono colpe incompatibili con l’obbedienza cristiana. (...). Questo conformismo sterile scoraggia le buone volontà ed esclude dal clero personalità un po’ più forti, capaci di autonomia, di iniziativa o di pensiero personale. È indispensabile interrogarsi su nuove modalità di esercizio dell’autorità, suscettibili di fermare le derive che allontanano da ogni obbedienza ragionevole.

(…) Nella maggior parte delle diocesi, il vescovo è colui che fa e disfa preti. Il Decreto sull’ufficio pastorale dei vescovi (Christus Dominus), al numero 31, gli riconosce la prerogativa di nominare i preti. Questo elemento distintivo comporta socialmente delle disfunzioni che rendono la fraternità illusoria. Sia quel che sia, l’esercizio di questa prerogativa non crea sempre fraternità. Non è esagerato dire che, all’avvicinarsi delle nomine, i calcoli subiscono una tale impennata da rendere rarefatta l’aria di certe diocesi. (…) Le nomine sono percepite da alcuni come una promozione, un avanzamento che dà accesso all’indipendenza materiale e a diversi privilegi, e spodestano gli altri da profitti reali o immaginari. I più zelanti fra gli aspiranti scongiurano lo spodestamento, diventando cortigiani, delatori, astuti adulatori. Questo genere di alleanze produce un clero di "connivenza". Si può dire che, in molte diocesi a Sud del Sahara, si è ancora a questo punto.

3. Problemi ricorrenti del passato, questioni lancinanti di oggi

Le domande più vive e più attuali sulla figura sociale del prete in Africa, si cristallizzano a Sud del Sahara attorno a problemi di sostentamento, formazione intellettuale e condizioni di vita dei preti. Non entro qui nel dettaglio di questi problemi così complessi e importanti. Ne segnalo semplicemente alcuni, che non sono altro che il frutto di scambi fraterni con confratelli africani.

Non c’è affatto bisogno di essere un osservatore avvertito delle Chiese d’Africa per percepire che una preoccupazione costante del clero africano è il sostentamento materiale dei preti. Buona parte delle diocesi non ha introiti fissi per il clero. Molte di esse dipendono dalla risorse provenienti dall’estero, dal momento che quelle locali sono insignificanti. Alcune diocesi mancano di mezzi di autofinanziamento e amministrano a fatica quel che resta di istituti ereditati dai missionari, diventati delle palle al piede. È difficile non deplorare il fallimento di varie diocesi. Cosa che dà la misura dell’importanza della formazione dei preti alla gestione economica. Non è più possibile servirsi di economi formati in loco. Si tratta, fondamentalmente, di affidare le finanze a persone a tutta prova, sufficientemente preparate al compito, capaci di iniziative costruttive e che diano prova di probità morale.

È chiaro, la remunerazione dei preti in Africa non è né giusta né equa. La mancanza di perequazione e il deficit di sicurezza materiale e finanziaria costituiscono uno scandalo e un’ingiustizia. Si registra tra i preti una disparità ingiustificata, che comporta la restaurazione tacita dei privilegi. È sintomatico constatare, da una parte, l’attaccamento di certi preti a parrocchie presumibilmente ricche e grandi, e, dall’altra, l’avversione a parrocchie considerate povere e piccole. Riconosciamolo: essendo i responsabili delle comunità presbiterali a tenere la borsa, i posti direttivi sono spesso ambiti non a motivo del servizio da rendere, ma a causa dei profitti da trarne. (...). Non c’è neanche bisogno di dire che l’avvenire appare senza sbocco al pensiero di non essere inseriti in nessun sistema di sicurezza sociale. È il darwinismo ecclesiastico, per non dire la clochardizzazione dei preti!

Non ci si stupirà se, in queste condizioni, per evitare la selezione naturale e scongiurare la miseria e l’emarginazio-ne, alcuni preti partano senza rumore verso altri lidi; altri, restando sempre appesi alle mammelle della Chiesa cattolica, vegetino ricorrendo ad espedienti umilianti (commercio sugli onorari delle messe, creste sulle collette e sulla decima), altri ancora scoprono nuove vocazioni (sensali, commercianti, guaritori, mariti teneri, attenti cortigiani, cappellani di famiglie ricche), altri infine, invece di impegnarsi in una vita professionale, si convertano alla delinquenza (truffe, furti, falsi e uso di falsi).

Una parola sulla vita professionale dei preti. Alcuni preti attribuiscono alla loro vita professionale una finalità apostolica, missionaria e di evangelizzazione. Altri vi si impegnano con l’unico scopo di provvedere ai propri bisogni e di assicurarsi un avvenire. Senza eccessive generalizzazioni sul lavoro dei preti, si può riflettere sulle misure da adottare per instaurare la perequazione e l’uguaglianza fra di essi.

Alcune diocesi hanno preso l’iniziativa di incaricare i fedeli del sostegno del clero. Piuttosto che impantanarsi nell’attendismo, auspicando un ipotetico aiuto dall’estero, un buon numero di vescovi fa appello alla creatività e alle iniziative individuabili nel quadro della fraternità, declinata in termini di solidarietà e condivisione. Sono iniziative che però rimangono spesso infruttuose e inciampano nella povertà dei parrocchiani. (...).

Piuttosto che fare dei problemi di vita concreta dei preti un tema di pettegolezzi e di astruserie, di commiserazione e di geremiadi, invece di lasciare i preti a sbrogliarsela da soli e di non farli vivere di elemosine e offerte dei fedeli o delle intenzioni delle messe che diventano sempre più rare, converrebbe riflettere sui mezzi per un sostentamento onesto del clero con una remunerazione equa. La questione relativa al sostentamento dei preti riporta all’interrogativo fondamentale sulla loro formazione. Un aspetto che richiede una cospicua disponibilità finanziaria.

Formare dei veri pastori è una priorità dell’episcopato africano. Al sinodo africano, l’episcopato ne ha fatto la priorità delle priorità. Secondo i vescovi, i futuri preti "dovranno ricevere una formazione in funzione dell’importanza e del senso da dare alla loro consacrazione" (proposizione 18). (...). Oggi sono in atto degli sforzi per una formazione intellettuale elevata e per un orientamento spirituale ed apostolico forte, aperto all’insegnamento sociale della Chiesa. Malgrado i costi esorbitanti, questa formazione è impartita in un quadro che rompe con l’isolamento, con il modello monacale e con lo stile di vita del Concilio di Trento: quello dei seminari diocesani, regionali o interregionali. L’orizzon-te della formazione è prospettico e implica la formazione permanente in tutte le discipline come pure l’inserimento pastorale dei seminaristi. Sotto la responsabilità dei vescovi, la formazione è assicurata in molte diocesi da preti autoctoni. (...).

Innegabilmente, un tale orientamento formativo richiede un’organizzazione della ratio studiorum che è lontana dal rispondere alle mie attese. Non è certo che il lavoro di insegnamento dei teologi africani, con le loro tesi e proposte audaci (corso di teologia in lingue africane, una nuova configurazione per la Chiesa latina, diritto africano, la questione delle materie eucaristiche...) sia sufficientemente integrato nel programma di formazione dei futuri preti. Questa lacuna è tipica dei seminari tradizionali, alcuni dei quali assomigliano spesso a luoghi in cui i seminaristi vivono ibernati in un’adolescenza prolungata e dove risuonano slogan sull’ob-bedienza, la fraternità, la lealtà, il servizio e l’obbedienza ai superiori (...).

Bisogna riconoscere che le esigenze della formazione restano numerose e difficili da soddisfare a causa del numero insufficiente di formatori. Alcuni fra questi mettono la propria competenza al servizio delle Chiese sorelle d’Eu-ropa. (...). Presenza subita, accettata o contestata, anche temuta o screditata, essa rimane un segno eloquente della vitalità delle Chiese d’Africa, una sfida del vivere la cattolicità. Questo significa che è tutto in regola? Le cose non sono così semplici: molti preti africani soggiornano in Europa per gli studi o per altre ragioni (salute, sicurezza), con il consenso del vescovo o disobbedendo alla ripetuta domanda di ritornare. (...).

Secondo molti osservatori, la permanenza all’estero dei preti africani priva le Chiese d’Africa di preti, dato per inteso che le diocesi dalle quali provengono ne hanno penuria. A ben guardare, i preti che restano in Europa espongono varie ragioni, soprattutto l’impossibilità per alcuni di far valere sul mercato religioso delle loro diocesi la cultura acquisita. Ce ne sono che lamentano le contraddizioni tra le competenze acquisite in Europa e i posti che vengono proposti loro. E riguardo a questo aspetto, esiste un vero "malessere" relativamente all’incertezza e all’arbitrarietà delle nomine. (...).

E arrivo al celibato dei preti africani. Allo stato attuale della disciplina della Chiesa latina, il celibato rimane una componente dello statuto del prete. Relativamente al celibato, si trovano presso i fedeli, almeno a livello di tendenze, diversi atteggiamenti (...).

Lungi da me l’idea di contestare il valore del celibato casto e continente né il suo rapporto con l’esercizio del ministero. Voglio semplicemente rilevare, da una parte, gli aggiustamenti pratici ai quali si adatta una parte del popolo di Dio, e, dall’altra, il dissenso discreto che esprime una grande parte del clero. I fatti parlano da soli. Conviene certamente non dare troppa importanza a dei casi estremi. Ma il numero relativamente elevato di questi casi inquieta. I preti che coabitano, che vivono clandestinamente in concubinato, sono sempre più numerosi. Il loro numero ne fa una realtà sociale innegabile. È importate misurare sul serio questa forma di defezione che, curiosamente, non finisce che in rari casi con l’abbandono del ministero. La cosa più desolante è che fra i giovani in formazione prendano piede pratiche sessuali che allontanano dal libero dono di sé. Che fare quando i paletti canonici e statutari e il richiamo all’obbligo del celibato non comportano una soluzione soddisfacente? Ce n’è quanto basta per preconizzare altri modi di reclutamento dei preti. Altri stimano giudizioso lasciare la libertà di scelta fra il celibato e il matrimonio nell’esercizio del presbiterato. Non è solamente desiderabile ma necessario individuare una soluzione adatta riguardo al compromesso permissivo che guadagna terreno. Come ha suggerito mons. Michael Thomas Fish (Sudafrica) al sinodo africano, conviene affrontare il problema del celibato con tutta onestà.

Per concludere

I pochi tratti che ho messo insieme caratterizzano il ruolo del prete nel contesto dell’Africa subsahariana francofona. Essi delineano la figura sociale del prete africano e danno conto di alcuni problemi specifici. Questi problemi si rivestono di accenti diversi a seconda dei Paesi e delle diocesi. Quali che siano le varie domande che suggeriscono, esigono soluzioni nella linea dell’ecclesiologia che le Chiese d’Africa costruiscono oggi sul modello della fraternità. Le linee di risposta accennate alle domande urgenti sull’eser-cizio dell’autorità, sulle risorse finanziarie, sulla formazione e sul celibato dei preti richiedono certamente degli approfondimenti che sono ben lontani da semplici aggiustamenti di facciata. È non solo desiderabile ma anche necessario approfondire questi aspetti con coraggio. Il prossimo sinodo africano sarà l’occasione giusta per realizzare tali approfondimenti? Solo il tempo potrà dirlo.