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VIVERE IL PROPRIO MORIRE

GIOVANNI FRANZONI

 da  MicroMega 1-2007

La nobile e ferma richiesta di Welby perché avessero fine le torture sul suo corpo perpetrate in ossequio ad un principio ideologico che privilegia in assoluto la quantità della vita nei confronti della qualità e dell'accettazione del dono della vita da parte del soggetto, ha posto il problema dell'eutanasia ma, in realtà, a questo problema si sfugge, riducendolo alla liceità della cessazione dell'accanimento terapeutico: nozione questa, più accetta dal punto di vista formale, per coloro che si attengono alla linea della Chiesa cattolica ufficiale.

Si sta quindi aprendo una questione infinita su quando e come la terapia per un malato terminale o anche solo gli interventi di mantenimento in vita, si configurino come accanimento terapeutico. Ignorando peraltro l'altra questione fondamentale se il soggetto in causa consideri o no, quel trattamento, come un accanimento terapeutico e una terapia soggettivamente sostenibile e bene accetta.

È quindi importante tornare a chiarire i linguaggi e togliere dalla condizione di demonizzazione la nozione stessa di eutanasia.

Il primo suggerimento viene dalla felice espressione di Epicuro: «Chi esorta il giovane ad una vita bella, il vecchio ad una bella morte, ha poco senno, non solo per il gradevole della vita, ma anche perché una sola è la meditazione e l'arte di ben vivere e di ben morire» (A Meneceo).

La parola MORTE, anche ai nostri giorni, andrebbe sostituita con l'infinito sostantivato MORIRE.

La morte infatti è una condizione statica e irreversibile. La risurrezione appartiene alla fede e si sottrae alla constatazione. La morte anche se prevedibile e prevista non c'è finché un medico legale non la constata e non la dichiara. E quando è constatata e dichiarata, salvo errore del medico, è irreversibile.

Il morire invece si intesse fin dalla nascita col nostro crescere e col nostro stesso vivere. Non è uno sconosciuto e non giunge come un ladro. Salvo naturalmente il caso di morte violenta e incidentale: l'esplosione di una mina, messa ad arte, sul ciglio di una strada percorsa da veicoli civili è un furto.

Il morire, invece, sotto forma di pigrizia, di rassegnazione, di torpore o di melanconia, si è spesso affacciato fra le pieghe del nostro vivere. È una vecchia conoscenza. Non è un ladro.

Al morire abbiamo opposto resistenza, solitaria o comune, e quando ha superato il limite della sostenibilità cercando di sopraffare il vivere, abbiamo invocato la risurrezione. Talvolta una voce di amico ci ha sottratti al dolciastro sapore del morire e ci ha fatto riprendere la fatica del vivere.

Questa distinzione è fondamentale per affrontare il problema dell'eutanasia.

Quando i medici constatano che, nella cura di un malato, non vi è più nulla da fare per la loro scienza, abbandonano il malato agli infermieri, ai familiari e al prete. La morte non si cura.

Molto spesso abbiamo sentito questo refrain. Ed è per questo che, appellandosi al ben noto giuramento di Ippocrate, la deontologia medica oppone alla pratica dell'eutanasia, un rifiuto etico, apparentemente nobile: «Il medico cura la vita e non può dare la morte». In realtà si tratta di una fuga.

Perché non proporre ai medici la cura del morire, presentando il morire come una fase inevitabile e delicata del vivere? L'attivazione delle risorse, la sedazione del dolore, il conforto della presenza non appartengono forse ad una vicenda che in quella soggettività c'è sempre stata fino a che è giunta ad una fase critica e risolutiva? Non è giunto il momento di incentivare la libertà del soggetto bisognevole di cura favorendo la sua opzione o per il prolungamento quantitativo della vita biologica o per la qualità del suo morire con la coscienza vigile e l'affettività compensata?

Una seconda fondamentale distinzione va fatta sulle motivazioni di una richiesta di suicidio assistito, o meglio, senza paura della parola, di eutanasia.

Si nomina in genere la sofferenza, fisica o psicologica, talmente insostenibile da rendere non-vita, la vita. Ma bisogna tenere conto di un altro fattore che sta stretto nella nozione di «sofferenza»: il non riconoscersi più, sul piano etico ed esistenziale, in una certa condizione.

Un caso classico è quello citato da sant'Agostino delle vergini cristiane (ma perché, oggi, non considerare anche le non vergini e le non cristiane?) che per evitare l'esposizione al postribolo si gettarono nel fuoco e furono considerate sante e martiri.

Nell'area del pensiero etico e degli esempi storici, bisogna ricordare il pensiero stoico per cui, quando una persona si trova in obiettiva e inamovibile contraddizione con se stessa, ha come unica soluzione il suicidio.

Dante (dell'ortodossia del quale nessuno ha mai dubitato) affida la custodia del Purgatorio a Catone l'Uticense che si tolse la vita per non accettare l'insopportabile comportamento politico di Cesare: «Libertà va cercando che sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta». E qui Dante pronuncia la parola fatidica «libertà» che è nel cuore del nostro discorso.

Ho avuto occasione di dare un certo spazio alla pratica dei monaci giainisti che praticano il «digiuno estremo» (fino alla morte) quando le circostanze impediscono loro di vivere secondo la disciplina che hanno adottato (si veda La morte condivisa, pp. 43-47). Gandhi, che era giainista, adottò una volta questa decisione - era stata finalmente emanata in India una legge che concedeva il voto politico agli «intoccabili» ma in collegi separati, cosa accettata dalle organizzazioni dei paria ma insopportabile per il Mahatma - e poi la revocò quando ritenne, ma lo ritenne lui, che le circostanze fossero mutate.

Nuovamente a regnare sovrana è la libertà che si sottomette solo quando la coscienza la orienta verso un fine - secolare o religioso - che le consente di esprimersi non in forma capricciosa ma secondo modalità condivisibili e condivise.

Si potrebbero citare infiniti casi di persone, molto spesso medici, che conoscono bene il decorso del loro caso clinico, che, prevedendo di trovarsi prigionieri di una vita solo vegetativa, hanno lasciato nel loro testamento biologico la volontà di non essere alimentati artificialmente perché, da quel momento, non si sarebbero riconosciuti nella condizione di totale dipendenza. Sia pur priva di dolore fisico o psicologico.

Ultima distinzione, infine, forse la più delicata, è circa la vita come dono. In particolare, come osserva Flamigni in un recente fondo sul Manifesto, per i credenti è «dono di Dio» e pertanto sacra; disporne a proprio piacimento sarebbe irriverente e blasfemo. Altro discorso per i non credenti che non facendo riferimento a Dio, potrebbero essere liberi di disporre della propria vita.

In realtà la difficoltà c'è anche per l'etica laica. Immanuel Kant considera la vita un bene «non disponibile» dal momento che non ce la siamo dati da soli e quindi considera negativamente il suicidio.

È necessario approfondire il concetto di «dono». La donazione, nel diritto, è definita un contratto e quindi suppone delle regole di accettazione, come in tutti i contratti. Nel pensiero filosofico come in quello religioso la donazione potrebbe essere considerata in modo diverso: quando il rapporto è gratuito e quindi il donatore non accampa diritti di dipendenza su coloro che ricevono il dono, si suppone una responsabilità connessa al ricettore del dono. Questo vale soprattutto quando il dono è la vita umana che ha come dna specifico di essere libera.

Che il donatore sia il Creatore o che sia il popolo o i genitori da cui nasci, essi ti donano la libertà e si attendono solo che tu la eserciti con responsabilità e non con stoltezza e leggerezza.

La maturità della coscienza resta l'arbitro di questa suprema ed esaltante sfida.