«Peccatori e
concubini», se la Chiesa dice no
Prima del Concilio Vaticano
II c'erano più divieti. Ma anche oggi non mancano divieti eclatanti
Mimmo de Cillis *
il manifesto del 23.12.2006
Roma
Piergiorgio Welby sarà cremato. Per lui non ci sarà il rito
cattolico delle esequie. Sembra che la madre di Piergiorgio l'avesse chiesto
alla parrocchia San Giovanni Bosco dei Salesiani, nel quartiere Tuscolano. Ma il
Vicariato di Roma, secondo le informazioni riferite dai famigliari di Welby,
avrebbe sconsigliato la celebrazioni per «l'eccessiva esposizione mediatica»,
suggerendo di rimandare a un funerale in forma strettamente privata, fra un po'
di tempo. A questo punto la famiglia Welby ha deciso per la cremazione, che
potrebbe tagliare la testa al toro, in quanto è una pratica accettata dalla
chiesa solo in determinate circostanze.
Va detto che la ragione addotta, quella della pubblicità, regge ben poco, se si
pensa all'attenzione mediatica catalizzata da tanti funerali di uomini noti o
dei protagonisti dei casi di cronaca, dai caduti di Nassiriya al piccolo
Samuele. Il problema è invece piuttosto interno alla comunità ecclesiale che,
secondo le norme vigenti, non potrebbe concedere il funerale religioso ai
suicidi (e dunque a quanti praticano l'eutanasia), ai divorziati e a tutti
coloro che sono «peccatori pubblici». Certo, è in corso un dibattito nel
clero, fra quanti difendono una posizione più ferma e quanti ritengono che la
benedizione di una salma sia un atto di misericordia che si può comunque
concedere. Le norme, dunque, vengono applicate con una certa flessibilità.
Secondo la dottrina cattolica, la vita appartiene a Dio e l'uomo non ha il
diritto di toglierla, in nessun caso. Non può nemmeno disporre della propria,
negandola con un estremo gesto di autodeterminazione. Questo diventa il più
grave atto di sfiducia e di ribellione contro Dio: da qui discende la condanna
dei suicidi e la negazione del funerale e della sepoltura religiosa. Non molto
tempo fa bastava molto meno: nel 1958 la chiesa di Pio XII scagliava un anatema
su due giovani di Prato, i coniugi Bellandi, che avevano deciso di sposarsi con
il rito civile. Furono definiti dal vescovo di Prato, Pietro Fiordelli, «pubblici
peccatori e concubini», scomunicati e avvisati che sarebbero morti senza la
benedizione di Dio.
Più recente è la «rivolta» dei fedeli di Sulmona, insorti lo scorso ottobre
contro un parroco, don Gaetano, che si era rifiutato di celebrare la messa
funebre a un divorziato, sembra su ordine del vescovo di Sulmona, mons. Giuseppe
Falco. L'anno scorso stessa sorte toccò a una donna che conviveva «more uxorio»
con il suo compagno: si è vista negare le esequie dal parroco di un paesino
calabrese.
Categorie da allontanare, secondo l'art 1184 del Codice di diritto canonico
promulgato da papa Wojtyla nel 1983, sono «gli apostati, eretici, scismatici»;
chi «ha scelto la cremazione del proprio corpo per ragioni contrarie alla fede
cristiana»; i «peccatori manifesti, ai quali non è possibile concedere le
esequie senza pubblico scandalo dei fedeli». Dunque, a livello strettamente
giuridico, la decisione del Vicariato di Roma di negare i funerali a Welby non
fa una piega. Per il trionfo del legalismo e l'addio alla misericordia
cristiana.
E va notato che, prima della riforma operata dal Concilio Vaticano II, le norme
erano ancor più restrittive: il Rituale romano del 1600 negava le esequie ai
non battezzati, a quanti «non daranno alcun segno di penitenza prima della
morte», a «noti apostati della fede cristiana, sia di sette eretiche che
scismatiche o ancora massoniche», naturalmente agli scomunicati, a «coloro che
uccideranno se stessi in libera scelta», a «chi morirà in duello» e «a chi
vorrà mandare il proprio corpo alla cremazione».
* Lettera22