Giannino
Piana: su "dico" e questione omosessuale la Chiesa deve fare un
"salto di civiltà"
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ROMA-ADISTA. I Dico non demoliscono la famiglia tradizionale fondata sul
matrimonio – che è in crisi per altri motivi – ma tentano di garantire i
diritti e di far assumere maggiori responsabilità alle persone, sia
eterosessuali che omosessuali, che scelgono la convivenza. È l’opinione del
teologo Giannino Piana, intervistato da Adista mentre il dibattito sul disegno
di legge sui diritti dei conviventi si fa sempre più serrato nella società e,
soprattutto, nel mondo cattolico. Piana rifiuta di arruolarsi aprioristicamente
fra i difensori del matrimonio a tutti i costi e sposta l’analisi sul piano
della ragionevolezza, a partire dalla constatazione che la società, negli
ultimi anni, ha subito profonde trasformazioni. E che la proposta dei Dico tenta
di venire incontro e di interpretare tali trasformazioni.
D:
Secondo lei i Dico sono realmente una minaccia per la famiglia tradizionale?
R:
Non credo. I Dico rappresentano semplicemente il tentativo di garantire diritti
e di far assumere doveri a soggetti che hanno scelto di vivere in "unioni
civili". Il moltiplicarsi, negli ultimi decenni, di tali scelte rivela
senza dubbio uno stato di crisi della famiglia tradizionale fondata sul
matrimonio; crisi le cui cause vanno ricercate in ben altre direzioni. I Dico
sono semmai la conseguenza di questa situazione di disagio.
D:
Il vescovo di Pavia, mons. Giovanni Giudici, ritiene che la crescita delle
convivenze – prima o a prescindere dal matrimonio – sia dovuta soprattutto
all’aumento della precarietà che colpisce soprattutto i giovani, sempre più
in difficoltà a trovare un lavoro stabile e una casa in cui vivere. Lei come si
spiega l’aumento delle convivenze e come valuta questo aspetto?
R:
La ragione dell’aumento delle convivenze va ricercata in un concorso di
fattori diversi, che meriterebbero una grande attenzione e che vanno ricondotti
alle profonde e rapide trasformazioni strutturali e culturali che hanno
caratterizzato la società in cui viviamo. Quanto afferma mons. Giudici è, al
riguardo, pienamente condivisibile. Aggiungerei che ad alimentare il senso
dell’insicurezza e della fragilità che conduce molti a privilegiare la
convivenza vi è, da un lato, la complessità sociale, che allarga enormemente
l’area delle conoscenze e delle relazioni – quanto più si estende le
possibilità di scelta tanto più diventa difficile scegliere – e,
dall’altro, fenomeni come l’individualismo e la cultura consumista, che
attentano alla continuità delle relazioni rendendole sempre più precarie.
D:
Il disegno di legge del governo equipara la convivenza eterosessuale a quella
omosessuale. Questo passaggio è indigesto a quella parte di cattolici che si
oppone al provvedimento. Perché gran parte del mondo cattolico, sostenuto in
questo dal Magistero, non incoraggia ancora le unioni stabili fra persone dello
stesso sesso quando è la stessa vita quotidiana ad offrirci non pochi casi di
coppie omosessuali ben più unite e leali di tante eterosessuali?
R:
Il pregiudizio verso l’omosessualità è ancora molto forte, e non solo nella
Chiesa. Pur essendovi stato, anche in documenti ufficiali del Magistero, il
riconoscimento che esiste un’omosessualità permanente, dunque in qualche
misura strutturale, cioè contrassegnata da un vero e proprio modo di essere al
mondo, sussiste tuttora una grande resistenza psicologica a riconoscere che
l’omosessualità possa dare luogo a scelte di coppia e soprattutto che sia
possibile, all’interno di tali coppie, vivere un rapporto affettivo vero e
intenso. Il criterio che viene invocato non è quello della verifica della
qualità della relazione, della sua autenticità e profondità; è un criterio
estrinseco che tende a penalizzare, oggettivamente e in partenza, lo stato
omosessuale.
D:
La senatrice della Margherita Paola Binetti, durante un programma televisivo, ha
definito esplicitamente l'omosessualità una devianza. È deviata una persona
omosessuale o l’omosessualità è una condizione normale al pari di quella
eterosessuale?
R:
In questo la senatrice Binetti non è sola. Sono ancora molti a pensare
l’omosessualità come una devianza o diversamente a ritenerla una malattia di
tipo psicologico o fisico, che va come tale curata e dalla quale si può
guarire. La vecchia interpretazione positivista che riconduceva l’omosessualità
alla matrice biologica, insistendo soprattutto sulla presenza di disfunzioni
ormonali, sembra ricuperare oggi terreno, sia pure in una prospettiva diversa,
facendo cioè riferimento a motivazioni di carattere genetico. Si stenta a
considerare l’omosessualità come una condizione normale, perché ci si
accosta ad essa con categorie pregiudiziali, come quella di "natura"
(e viene allora ritenuta innaturale o "contro natura"), ma soprattutto
perché si guarda in astratto al fenomeno omosessuale, quasi fosse del tutto
oggettivabile, e si dimentica che in realtà non abbiamo tanto a che fare con la
condizione omosessuale ma con persone omosessuali i cui vissuti sono sempre
estremamente differenziati e complessi e la cui realtà più profonda rimane, in
ogni caso, avvolta (come del resto per le persone eterosessuali) nel mistero.
D:
In Italia sono ormai più di 25 i gruppi di credenti omosessuali che, in alcuni
casi, sono seguiti da sacerdoti o addirittura da vescovi ausiliari. Che cosa ne
pensa di questi fenomeni?
R:
Conosco personalmente alcuni di questi gruppi e ho partecipato con una certa
frequenza ai loro incontri, ricavandone sempre una grande impressione. Si tratta
di persone molto serie che vivono sulla loro pelle, spesso con gravi lacerazioni
interiori, la difficoltà di far coincidere identità omosessuale e fede ma
soprattutto – perché qui si annidano i maggiori conflitti – identità
omosessuale e appartenenza ecclesiale. L’ostinazione con cui, nonostante la
rigidità delle posizioni ufficiali della Chiesa, proseguono nel loro cammino è
ammirevole e commovente; denuncia, in modo particolare, la grande serietà della
loro ricerca e l’autenticità della loro adesione religiosa. Fortunatamente
non mancano nella Chiesa sacerdoti, e persino qualche vescovo, che non esitano
ad aprire loro le porte, ad ascoltarli e a seguirli. Tuttavia la severità con
cui la dottrina della Chiesa continua a condannare il comportamento omosessuale
genera ferite insanabili, che spesso acuiscono il senso di colpa con pesanti
conseguenze sulla stessa integrità psicologica della persona.
D:
Purtroppo, salvo rare eccezioni, i gruppi di credenti omosessuali operano nella
più totale clandestinità. Una clandestinità alle volte addirittura
autoimposta per paura di essere discriminati o fatti oggetto di violenza in un
contesto sociale sostanzialmente ancora ostile. Non ritiene che, se queste
esperienze uscissero davvero allo scoperto, potrebbero svilupparsi una
conoscenza ed un confronto più sereno sul tema dell'omosessualità a tutti i
livelli della vita ecclesiale e sociale, andando così oltre pregiudizi e paure?
R:
La risposta è già implicita nella domanda. È davvero auspicabile che si apra
un confronto sereno, sia all’interno della Chiesa che nella società, tra
eterosessuali ed omosessuali, perché si creerebbero in tal modo le condizioni
per sdrammatizzare il problema, ma anche (e soprattutto) perché la reciproca
conoscenza favorirebbe la possibilità del rispetto vicendevole e potrebbe dare
la spinta a un vicendevole aiuto. Purtroppo siamo ancora lontani da questo
traguardo e, nonostante i notevoli passi avanti fatti negli ultimi decenni, il
cammino si presenta tuttora pieno di ostacoli non facilmente superabili in tempi
brevi. La questione di fondo è culturale: si tratta di creare una mentalità
nuova, di dare vita, in una parola, a un vero e proprio salto di civiltà.