I CONTI DELLA CHIESA, ECCO QUANTO CI COSTA
Curzio Maltese
la Repubblica 28-9-2007
L'otto per mille, le scuole, gli ospedali, gli insegnanti di religione e i grandi eventi. Ogni anno, dallo Stato, arrivano alle strutture ecclesiastiche circa 4 miliardi di euro
"Quando sono arrivato alla Cei, nel 1986, si
trovavano a malapena i soldi per pagare gli stipendi di quattro impiegati".
Camillo Ruini non esagera. A metà anni Ottanta le finanze vaticane sono una
scatola vuota e nera. Un anno dopo l'arrivo di Ruini alla Cei, soltanto il
passaporto vaticano salva il presidente dello Ior, monsignor Paul Marcinkus,
dall'arresto per il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. La crisi
economica è la ragione per cui Giovanni Paolo II chiama a Roma il giovane
vescovo di Reggio Emilia, allora noto alle cronache solo per aver celebrato il
matrimonio di Flavia Franzoni e Romano Prodi, ma dotato di talento manageriale.
Poche scelte si riveleranno più azzeccate. Nel "ventennio Ruini",
segretario dall'86 e presidente dal '91, la Cei si è trasformata in una potenza
economica, quindi mediatica e politica. In parallelo, il presidente dei vescovi
ha assunto un ruolo centrale nel dibattito pubblico italiano e all'interno del
Vaticano, come mai era avvenuto con i predecessori, fino a diventare il grande
elettore di Benedetto XVI.
Le ragioni dell'ascesa di Ruini sono legate all'intelligenza, alla ferrea volontà
e alle straordinarie qualità di organizzatore del personaggio. Ma un'altra
chiave per leggerne la parabola si chiama "otto per mille". Un fiume
di soldi che comincia a fluire nelle casse della Cei dalla primavera del 1990,
quando entra a regime il prelievo diretto sull'Irpef, e sfocia ormai nel mare di
un miliardo di euro all'anno. Ruini ne è il dominus incontrastato. Tolte le
spese automatiche come gli stipendi dei preti, è il presidente della conferenza
episcopale, attraverso pochi fidati collaboratori, ad avere l'ultima parola su
ogni singola spesa, dalla riparazione di una canonica alla costruzione di una
missione in Africa agli investimenti immobiliari e finanziari.
Dall'otto per mille, la voce più nota, parte l'inchiesta di Repubblica sul
costo della chiesa cattolica per gli italiani. Il calcolo non è semplice, oltre
che poco di moda. Assai meno di moda delle furenti diatribe sul costo della
politica. Il "prezzo della casta" è ormai calcolato in quattro
miliardi di euro all'anno. "Una mezza finanziaria" per "far
mangiare il ceto politico". "L'equivalente di un Ponte sullo Stretto o
di un Mose all'anno".
Alla cifra dello scandalo, sbattuta in copertina da Il Mondo e altri giornali,
sulla scia di La Casta di Rizzo e Stella e Il costo della democrazia di Salvi e
Villone, si arriva sommando gli stipendi di 150 mila eletti dal popolo, dai
parlamentari europei all'ultimo consigliere di comunità montane, più i
compensi dei quasi trecentomila consulenti, le spese per il funzionamento dei
ministeri, le pensioni dei politici, i rimborsi elettorali, i finanziamenti ai
giornali di partito, le auto blu e altri privilegi, compresi buvette e barbiere
di Montecitorio.
Per la par condicio bisognerebbe adottare al "costo della Chiesa" la
stessa larghezza di vedute. Ma si arriverebbe a cifre faraoniche quanto
approssimative, del genere strombazzato nei libelli e in certi siti
anticlericali.
Con più prudenza e realismo si può stabilire che la Chiesa cattolica costa in
ogni caso ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico. Oltre quattro
miliardi di euro all'anno, tra finanziamenti diretti dello Stato e degli enti
locali e mancato gettito fiscale. La prima voce comprende il miliardo di euro
dell'otto per mille, i 650 milioni per gli stipendi dei 22 mila insegnanti
dell'ora di religione ("Un vecchio relitto concordatario che sarebbe da
abolire", nell'opinione dello scrittore cattolico Vittorio Messori), altri
700 milioni versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità.
Poi c'è la voce variabile dei finanziamenti ai Grandi Eventi, dal Giubileo
(3500 miliardi di lire) all'ultimo raduno di Loreto (2,5 milioni di euro), per
una media annua, nell'ultimo decennio, di 250 milioni. A questi due miliardi 600
milioni di contributi diretti alla Chiesa occorre aggiungere il cumulo di
vantaggi fiscali concessi al Vaticano, oggi al centro di un'inchiesta
dell'Unione Europea per "aiuti di Stato". L'elenco è immenso,
nazionale e locale. Sempre con prudenza si può valutare in una forbice fra 400
ai 700 milioni il mancato incasso per l'Ici (stime "non di mercato"
dell'associazione dei Comuni), in 500 milioni le esenzioni da Irap, Ires e altre
imposte, in altri 600 milioni l'elusione fiscale legalizzata del mondo del
turismo cattolico, che gestisce ogni anno da e per l'Italia un flusso di
quaranta milioni di visitatori e pellegrini. Il totale supera i quattro miliardi
all'anno, dunque una mezza finanziaria, un Ponte sullo Stretto o un Mose
all'anno, più qualche decina di milioni.
La Chiesa cattolica, non eletta dal popolo e non sottoposta a vincoli
democratici, costa agli italiani come il sistema politico. Soltanto agli
italiani, almeno in queste dimensioni. Non ai francesi, agli spagnoli, ai
tedeschi, agli americani, che pure pagano come noi il "costo della
democrazia", magari con migliori risultati.
Si può obiettare che gli italiani sono più contenti di dare i soldi ai preti
che non ai politici, infatti se ne lamentano assai meno. In parte perché forse
non lo sanno. Il meccanismo dell'otto per mille sull'Irpef, studiato a metà
anni Ottanta da un fiscalista all'epoca "di sinistra" come Giulio
Tremonti, consulente del governo Craxi, assegna alla Chiesa cattolica anche le
donazioni non espresse, su base percentuale. Il 60 per cento dei contribuenti
lascia in bianco la voce "otto per mille" ma grazie al 35 per cento
che indica "Chiesa cattolica" fra le scelte ammesse (le altre sono
Stato, Valdesi, Avventisti, Assemblee di Dio, Ebrei e Luterani), la Cei si
accaparra quasi il 90 per cento del totale. Una mostruosità giuridica la definì
già nell'84 sul Sole 24 Ore lo storico Piero Bellini.
Ma pur considerando il meccanismo "facilitante" dell'otto per mille,
rimane diffusa la convinzione che i soldi alla Chiesa siano ben destinati, con
un ampio "ritorno sociale". Una mezza finanziaria, d'accordo, ma utile
a ripagare il prezioso lavoro svolto dai sacerdoti sul territorio, la fatica
quotidiana delle parrocchie nel tappare le falle sempre più evidenti del
welfare, senza contare l'impegno nel Terzo Mondo. Tutti argomenti veri. Ma
"quanto" veri?
Fare i conti in tasca al Vaticano è impresa disperata. Ma per capire dove
finiscono i soldi degli italiani sarà pur lecito citare come fonte
insospettabile la stessa Cei e il suo bilancio annuo sull'otto per mille. Su
cinque euro versati dai contribuenti, la conferenza dei vescovi dichiara di
spenderne uno per interventi di carità in Italia e all'estero (rispettivamente
12 e 8 per cento del totale). Gli altri quattro euro servono
all'autofinanziamento. Prelevato il 35 per cento del totale per pagare gli
stipendi ai circa 39 mila sacerdoti italiani, rimane ogni anno mezzo miliardo di
euro che il vertice Cei distribuisce all'interno della Chiesa a suo
insindacabile parere e senza alcun serio controllo, sotto voci generiche come
"esigenze di culto", "spese di catechesi", attività
finanziarie e immobiliari. Senza contare l'altro paradosso: se al
"voto" dell'otto per mille fosse applicato il quorum della metà, la
Chiesa non vedrebbe mai un euro.
Nella cultura cattolica, in misura ben maggiore che nelle timidissime culture
liberali e di sinistra, è in corso da anni un coraggioso, doloroso e
censuratissimo dibattito sul "come" le gerarchie vaticane usano il
danaro dell'otto per mille "per troncare e sopire il dissenso nella
Chiesa". Una delle testimonianze migliori è il pamphlet "Chiesa
padrona" di Roberto Beretta, scrittore e giornalista dell'Avvenire, il
quotidiano dei vescovi. Al capitolo "L'altra faccia dell'otto per
mille", Beretta osserva: "Chi gestisce i danari dell'otto per mille ha
conquistato un enorme potere, che pure ha importantissimi risvolti ecclesiali e
teologici". Continua: "Quale vescovo per esempio - sapendo che poi
dovrà ricorrere alla Cei per i soldi necessari a sistemare un seminario o a
riparare la cattedrale - alzerà mai la mano in assemblea generale per
contestare le posizioni della presidenza?". "E infatti - conclude
l'autore - i soli che in Italia si permettono di parlare schiettamente sono
alcuni dei vescovi emeriti, ovvero quelli ormai in pensione, che non hanno più
niente da perdere...".
A scorrere i resoconti dei convegni culturali e le pagine di "Chiesa
padrona", rifiutato in blocco dall'editoria cattolica e non pervenuto nelle
librerie religiose, si capisce che la critica al "dirigismo" e all'uso
"ideologico" dell'otto per mille non è affatto nell'universo dei
credenti. Non mancano naturalmente i "vescovi in pensione", da Carlo
Maria Martini, ormai esiliato volontario a Gerusalemme, a Giuseppe Casale, ex
arcivescovo di Foggia, che descrive così il nuovo corso: "I vescovi non
parlano più, aspettano l'input dai vertici... Quando fanno le nomine vescovili
consultano tutti, laici, preti, monsignori, e poi fanno quello che vogliono
loro, cioè chiunque salvo il nome che è stato indicato". Il già citato
Vittorio Messori ha lamentato più volte "il dirigismo", "il
centralismo" e "lo strapotere raggiunto dalla burocrazia nella
Chiesa". Alfredo Carlo Moro, giurista e fratello di Aldo, in uno degli
ultimi interventi pubblici ha lanciato una sofferta accusa: "Assistiamo
ormai a una carenza gravissima di discussione nella Chiesa, a un impressionante
e clamoroso silenzio; delle riunioni della Cei si sa solo ciò che dichiara in
principio il presidente; i teologi parlano solo quando sono perfettamente in
linea, altrimenti tacciono".
La Chiesa di vent'anni fa, quella in cui Camillo Ruini comincia la sua scalata,
non ha i soldi per pagare gli impiegati della Cei, con le finanze scosse dagli
scandali e svuotate dal sostegno a Solidarnosc. La cultura cattolica si sente
derisa dall'egemonia di sinistra, ignorata dai giornali laici, espulsa
dall'universo edonista delle tv commerciali, perfino ridotta in minoranza nella
Rai riformata. Eppure è una Chiesa ancora viva, anzi vitalissima. Tanto
pluralista da ospitare nel suo seno mille voci, dai teologi della liberazione
agli ultra tradizionalisti seguaci di monsignor Lefebrve. Capace di riconoscere
movimenti di massa, come Comunione e Liberazione, e di "scoprire"
l'antimafia, con le omelie del cardinale Pappalardo, il lavoro di don Puglisi a
Brancaccio, l'impegno di don Italo Calabrò contro la 'ndrangheta.
Dopo vent'anni di "cura Ruini" la Chiesa all'apparenza scoppia di
salute. È assai più ricca e potente e ascoltata a Palazzo, governa l'agenda
dei media e influisce sull'intero quadro politico, da An a Rifondazione, non più
soltanto su uno. Nelle apparizioni televisive il clero è secondo soltanto al
ceto politico. Si vantano folle oceaniche ai raduni cattolici, la
moltiplicazione dei santi e dei santuari, i record di audience delle fiction di
tema religioso. Le voci di dissenso sono sparite. Eppure le chiese e le
sagrestie si svuotano, la crisi di vocazioni ha ridotto in vent'anni i preti da
60 a 39 mila, i sacramenti religiosi come il matrimonio e il battesimo sono in
diminuzione.
Il clero è vittima dell'illusoria equazione mediatica "visibilità uguale
consenso", come il suo gemello separato, il ceto politico. Nella vita reale
rischia d'inverarsi la terribile profezia lanciata trent'anni fa da un teologo
progressista: "La Chiesa sta divenendo per molti l'ostacolo principale alla
fede. Non riescono più a vedere in essa altro che l'ambizione umana del potere,
il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il
cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del
cristianesimo". Quel teologo si chiamava Joseph Ratzinger.
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)