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IL SEMPLICE, IL RISAPUTO...

GIANCARLO GAETA

da "UNA CITTÀ" n. 145 / febbraio 2007 

La vicenda della formazione dei Vangeli, quando si dovette reinterpretare un po’ tutto dopo l’uccisione, “impossibile”, del Messia. La sconfitta del manicheismo per cui il mondo è male. Il discorso fondamentalista di Ratisbona, per cui l’unica esperienza autentica non è solo quella cristiana ma quella cattolica romana. La proposta di Simone Weil per una “dichiarazione dei doveri”. Intervista a Giancarlo Gaeta.

Giancarlo Gaeta è docente di Storia del cristianesimo antico presso l’Università di Firenze. Ha pubblicato studi sul Nuovo Testamento, nonché saggi sul pensiero filosofico-religioso del Novecento, tra cui Religione del nostro tempo, ed. e/o. Ha curato l’edizione italiana dei Quaderni di Simone Weil e di altre sue opere. Recentemente ha curato una nuova edizione dei Vangeli (Einaudi, collana I millenni), con un commento laico che mette in evidenza il carattere storico, narrativo, culturale e letterario di questi testi.

Nelle riflessioni introduttive al suo lavoro sui Vangeli, lei scrive: “Quattro brevi racconti. Quattro versioni di uno stesso dramma”. Come si arriva alla redazione dei Vangeli?
La formazione di questi testi è il risultato di un processo relativamente lungo che si distingue in due fasi. La prima è orale, perché inizialmente non si è sentita l’esigenza di fissare per iscritto l’insegnamento dell’esperienza di Gesù, né gli eventi della sua vita: i discepoli hanno avvertito come compito prioritario quello di ripetere, di riproporre il suo insegnamento, si sono auto-investiti di un potere carismatico; quindi il problema non era quello di ripetere fedelmente quello che Gesù aveva detto, ma di riproporlo liberamente secondo la propria ispirazione e le esigenze immediate della predicazione. Questo ha comportato che nel corso dei primi decenni dopo la morte di Gesù il bagaglio originario del suo insegnamento si sia arricchito, modificato e infine strutturato in piccole raccolte, che riguardavano anche avvenimenti della sua vita, come gli episodi dei miracoli, degli esorcismi. Probabilmente ha cominciato anche a prendere forma una qualche narrazione della Passione, per quanto all’inizio il problema della Resurrezione non fosse al centro della riflessione teologica; essa veniva data per scontata, un evento creduto. Probabilmente si è dovuto attendere l’insegnamento di Paolo che ha genialmente attribuito significato salvifico alla morte e resurrezione del Cristo.
I Vangeli furono invece scritti in una seconda fase, in cui era emersa l’esigenza di fissare per iscritto il patrimonio tradizionale, prima che sparisse definitivamente; contemporaneamente si era manifestato il bisogno di passare da una missione di tipo carismatico-itinerante, legata ai singoli missionari (i discepoli diretti di Gesù che andavano in giro a portare l’evangelo) a una fase in cui sono prevalse le comunità sedentarie, gruppi di credenti che non sentono la vocazione missionaria, ma vogliono vivere una vita cristianamente ispirata. Quindi le comunità avvertono il bisogno di istruire se stesse, di approfondire la propria fede.
Anche se inizialmente il nucleo di tale fede era relativamente semplice (credere che Gesù Cristo fosse stato inviato da Dio come Messia, che Dio lo avesse resuscitato dai morti, che sarebbe tornato per riscattare l’umanità) occorreva però approfondire il significato di tale credenza e le sue implicazioni per la vita pratica.
Così, mentre Paolo si era “limitato” a formulare una teologia e una cristologia, altre personalità interne alle diverse comunità invece avvertirono l’esigenza di scrivere “una vita” di Gesù, che è una cosa molto diversa. Di per sé la prima poteva bastare, perché alla fine una dottrina religiosa si basa su un pensiero, ma fortunatamente, a partire probabilmente da Marco intorno al ‘70, si è sentita l’esigenza di organizzare le tradizioni e i materiali, orali e scritti, relativi ai detti e agli atti di Gesù in una storia compiuta. Il materiale disponibile al riguardo era molto e vario: bisogna immaginare la redazione dei Vangeli come strettamente collegata a situazioni ambientali, temporali, sociali, tra loro molto diverse. Di qui l’abilità degli evangelisti nel riformulare il patrimonio tradizionale adattandolo alla situazione concreta della propria comunità. Ad esempio, se si confronta il Vangelo di Marco con quello di Matteo, si vede come in quest’ultimo la narrazione è strutturata dai grandi discorsi di Gesù (come quello della montagna) mentre Marco si era limitato ad assemblare soprattutto racconti di atti; probabilmente Matteo ha voluto puntare di più sull’istruzione della comunità, sulla catechesi, dando così vita a discorsi più o meno a tema: il rapporto con la legge antica, le esigenze della vita comunitaria, il giudizio universale, ecc.
Il Vangelo di Giovanni si muove su una tradizione profondamente diversa, nel senso che sono stati raccolti ed elaborati materiali non coincidenti con la tradizione sinottica: la risurrezione di Lazzaro, i dialoghi con Nicodemo e con la Samaritana , ecc. Ma si avverte anche che dietro c’è una concezione cristologica forte, diversa ma altrettanto straordinaria di quella paolina; solo che a sua volta Giovanni scrive un Vangelo piuttosto che un trattato teologico.
In questo senso è straordinario studiare la formazione di questi testi perché, come dire, sono qualcosa di estremamente vivo: nel corso di una settantina di anni si è prodotta una riflessione complessa in senso antropologico, teologico, missionario, che è riuscita a formalizzarsi in dei racconti. Una tradizione che si è prolungata nel corso del secondo secolo, ma con esiti non più così pregnanti.
Inizialmente quindi la preoccupazione non era quella di diffondere la verità nel mondo pagano, quanto quella di strutturarsi in piccole comunità.
Secondo me l’impulso originario è stato quello di proseguire la predicazione dell’avvento prossimo del Regno, presupponendo che questo fosse un annuncio da rivolgere essenzialmente al popolo di Israele.
E’ soltanto con Paolo che si è fatto il salto al di fuori delle comunità israelitiche e al di fuori della Palestina; qui il cristianesimo ha iniziato ad attribuire all’evento cristologico un significato universalistico, dunque non rivolto soltanto ad Israele. D’altra parte è iniziato il processo d’insediamento nella città e dunque la nascita di comunità sedentarie.
Questo tipo di messianismo rappresenta una “novità” rispetto a quello giudaico. Quali sono le differenze tra i due? Si può parlare di una rottura?
Parlare di rottura è eccessivo, in realtà avviene un passaggio che in qualche modo si era reso necessario. Che cos’è il messianismo giudaico? C’erano vari tipi di messianismo che coesistevano in quel tempo. Uno di tipo politico: l’attesa di un re come Davide, che avrebbe cacciato i romani, fatto proprio in modo particolare dallo zelotismo, in ampia misura responsabile della guerra giudaica; poi c’era un messianismo di tipo trascendente o spirituale, nel senso dell’attesa della restaurazione di Israele, che avrebbe significato il ritorno del popolo alla pratica religiosa, la sua liberazione dall’oppressione romana, il ritorno a vivere come un popolo santo in grado poi di convertire il resto del mondo.
Un altro tipo di messianismo era apocalittico (il libro di Daniele): l’idea di un giudizio che si sarebbe compiuto attraverso l’apparizione di una grande figura di giudice celeste. Al di là delle diverse forme, questi messianismi avevano in comune l’idea di un evento comunque esterno; qualcosa che si doveva manifestare pubblicamente, mondanamente; era comunque implicata l’idea di un potere che doveva instaurarsi sulla terra, che appunto sta nella formula “Regno di Dio”. In parole povere, una teocrazia per cui, attraverso il popolo d’Israele, l’insieme dell’umanità avrebbe dovuto essere sottoposta alla legge di Dio. In senso utopico poteva anche voler dire -come in alcuni passi di Isaia- che tutta la natura sarebbe stata pacificata, che uomini e animali avrebbero vissuto in armonia in una specie di Eden in terra. Ma, aldilà di queste immagini utopiche, il Regno di Dio si sarebbe concretizzato in una teocrazia, in cui il popolo eletto avrebbe assunto di fatto un ruolo dominante sull’insieme dell’umanità. D’altra parte, l’idea messianica nel giudaismo possiede un elemento di forte spiritualità, soprattutto per l’idea che Dio entra nella storia, la vivifica, la santifica.
Cosa avviene invece con il cristianesimo? Secondo me, la predicazione di Gesù si è fondamentalmente mossa all’interno del messianismo giudaico, anche se è difficile capire esattamente che cosa lui intendesse per Regno di Dio. Comunque appare chiaro che c’è un risvolto sociale di questa sua attesa messianica. La predicazione è rivolta ai poveri, ai diseredati, ai malati, alle vedove. Un impulso fortissimo a stabilire la giustizia. In Gesù c’è un rapporto fortissimo tra Regno di Dio e giustizia, intesa come libertà sociale, libertà spirituale, come uscita dalla vischiosità delle pratiche religiose fine a se stesse. La novità e la specificità della sua visione, nella misura in cui riusciamo a capirla oggi, è legata a questa attenzione forte al superamento di tutta una serie di disuguaglianze, di violenze. E poi c’era l’idea che l’insieme dell’istituzione religiosa giudaica dovesse essere cambiata; che Dio avrebbe dato un altro tempio disceso dall’alto. In qualche modo la restaurazione di Israele significava entrare in un’altra era. Questo aspetto relativo all’istituzione religiosa ha a che vedere con la persecuzione che Gesù ha dovuto subire perché entrava in conflitto profondo con essa.
Pilato quando condanna Gesù come “Re dei Giudei” intende schernire le autorità religiose?
Io penso di sì. C’è dell’ironia verso queste credenze. Ad ogni modo, per i discepoli c’è stato un momento in cui tutta l’attenzione è stata concentrata sulla domanda: come è possibile che il Messia sia stato ucciso? La figura messianica era comunque potente: sia in senso politico che spirituale; comunque sia, un emissario di Dio non poteva essere ucciso. Insomma, se era stato ucciso, non era il Messia. Lì c’è stato un passaggio che non è facile cogliere: con quali meccanismi psicologici, antropologici, religiosi, questa contraddizione in termini è stata superata senza dover cadere nell’incredulità, nella sfiducia.
In ogni caso si è dovuto procedere a una re-interpretazione della figura messianica. Lo si capisce abbastanza bene per il fatto che la tradizione evangelica ha conservato una serie di riferimenti all’Antico Testamento, in particolare alle antiche profezie, nelle quali ci sono passi che letti in senso messianico potevano prefigurare un Messia sofferente; originariamente si parlava di eventi in cui una figura eminente subisce sofferenza, morte, persecuzione; questo ha consentito di giustificare la passione del Cristo. In maniera esplicita lo si vede nell’episodio dei discepoli di Emmaus: a quello che credono essere un viandante, i discepoli esternano l’incredulità e i dubbi che Gesù fosse il Messia visto che era stato ucciso, e la risposta di Gesù è: “Stolti e tardi di cuore nel credere a tutto quello che hanno detto i profeti” (Luca 24,25).
Questa ricomprensione della figura e del ruolo del Messia ha permesso anche una riconsiderazione dell’escatologia, vale a dire che il momento finale in cui sarebbe venuto il Messia viene riletto, secondo me, non più come attesa di un evento esterno, ma piuttosto nei termini di una trasformazione interiore, che però non vuol dire una mistica interiore, di spiritualità intimistica. L’idea di base diventa che con l’avvento del Messia il mondo è stato giudicato. Tanto più che il mondo lo ha ucciso. Nella concezione proto-cristiana prevale l’idea che il giudizio non è rimandabile ad un tempo indeterminato, ma è già in atto. I credenti inoltre stabiliscono con il mondo, con la realtà storica in cui vivono, un atteggiamento di distacco o di indifferenza perché sanno di essere portatori di una visione, di una conoscenza tale per cui tutto ciò che avviene storicamente non ha più alcun significato.
Questo, ad esempio, nel pensiero di Paolo è chiarissimo: egli invita i cristiani a vivere nel mondo come se non fossero nel mondo. Cosa dice infatti? Mangiate, sposatevi: tutto questo non ha nessun senso, se non vi sposate, se vivete semplicemente è meglio, comunque sappiate che qualunque cosa facciate è priva di significato perché appartiene a un ordine che sopravvive pro tempore ma che in realtà è già morto. Ciò che è vivo, ciò che ha iniziato a vivere è un’altra cosa. Di cui voi siete la testimonianza. La potenza che vi ha investito è tale da creare -a partire da voi- un’altra realtà.
Secondo Paolo c’è un breve periodo in cui queste due entità sono costrette a convivere, poi ad un certo punto verranno separate nettamente e nascerà un’altra cosa. Questa idea la si rivede in modo più plastico nel Vangelo di Giovanni, in cui l’evento è formalizzato a livello ideologico attraverso il dualismo: tra luce e tenebra, tra la vita e la morte, tra il mondo e i credenti. Per cui c’è una sorta di invito a separare la comunità dei credenti dal mondo.
Questo radicalismo probabilmente ha portato alla fine del giovannismo, perché la lacerazione era talmente forte da generare una specie di setta chiusa in se stessa, destinata ad implodere. Però la sua visione va potentemente verso il senso dell’interiorizzazione del messaggio escatologico: ribadisce che non c’è niente da aspettare, che tutto è già avvenuto e che i credenti vivono già nel presente in un’altra dimensione.
Per il cristiano dunque il passato e il futuro sono già nel presente.
Tutto “precipita” nel presente, il che comporta una riformulazione del concetto di tempo: si è lungamente discusso sulla diversità tra concezione greca e giudaico-cristiana, l’una circolare, l’altra lineare. Secondo me per il primo cristianesimo non vale né l’una né l’altra concezione; è piuttosto una visione puntuale: il presente è tutto -un’idea molto potente. Significa che si dovrebbe avere la capacità di avere presente tutta la storia -anche a livello biografico- della propria civiltà, della propria cultura. Il passato non sta dietro, non è remoto, è qualcosa che sta nel presente. Lo stesso futuro non è una proiezione in avanti (immaginare delle cose, volere delle cose, progettare), ma è qualcosa che vive già nel presente.
A questo proposito, Kierkegaard sosteneva che tra il modello proposto da Gesù, dalle prime comunità cristiane, e il suo tempo esiste una “discrepanza”, che l’elemento originario entrando dentro il processo evolutivo della storia “inevitabilmente degenera”. A venti secoli da quegli eventi è molto difficile per gli stessi cristiani avvertire la novità dell’annuncio escatologico. La stessa idea di presente oggi è radicalmente diversa, la novità non c’è più. Che cosa rimane, la tradizione?
Dal II secolo in avanti è emersa la necessità di prendere atto dell’esistenza del mondo nella misura in cui il cristianesimo ha proposto se stesso come elemento fondamentale della storia e pian piano ha autolegittimato un suo ruolo sociale e politico all’interno dell’Impero Romano. Lo si vede con alcuni autori (per esempio Tertulliano) che con le loro opere cercarono di convincere il mondo pagano, a cominciare dalle autorità romane, che il cristianesimo era un fattore positivo, di crescita, ordine, rispettoso dell’autorità e quindi un bene per l’impero...
Storicamente c’è stato un passaggio non inevitabile, è stata fatta una scelta. Se si confronta la storia del primo cristianesimo con quella coeva del manicheismo, vediamo che il manicheismo non ha ceduto: avendo una visione per cui il mondo è il male, viene generato dal male, non ha accettato o concesso alcun compromesso, si è opposto frontalmente a qualunque forma di potenza politica, ed è stato distrutto, ad Oriente dall’Impero Persiano, a Occidente dal cristianesimo romanizzato. Il cristianesimo ha avuto l’astuzia storica di compiere questo salto, che però devia rispetto al proprio bagaglio iniziale.
Per noi che siamo abituati a vedere la storia di duemila anni di cristianesimo come un tutt’uno non è facile riconoscere questa profonda discontinuità, e se la si riconosce, in qualche misura si finisce con il mascherarla con qualche teologia della storia della salvezza. Un esercizio critico dovrebbe comportare invece la capacità di scindere i vari momenti. Lo si fa, più o meno coerentemente, con maggiori o minori resistenze, per quanto concerne la storia del cristianesimo medievale e moderno, ma se ci si sposta sul primo cristianesimo, allora ci si scontra con un tabù, perché li si mette a nudo, si scopre una realtà estremamente complessa, molto articolata. Intanto c’erano più cristianesimi, non si può parlare di un unico cristianesimo originario: c’era il paolismo, il giovannismo, le correnti legate ai Vangeli sinottici, le forme gnostiche di cristianesimo, insomma una realtà complessissima, e che invece in una visione di tipo fideistico è stata ricondotta ad un’unica forma originaria, per cui ad esempio parlare di una distanza, anche minima, tra l’evento Gesù e ciò che poi i discepoli hanno capito, vissuto, riportato e messo in atto è impossibile; questa distanza critica viene preclusa.
Nei primi secoli le discussioni riguardo le narrazioni evangeliche (Ireneo, Taziano, Marcione, Celso) sono legate alla loro veridicità. Lo stesso Agostino ritiene che queste concordino perché dettate “da un unico spirito”. Quando l’epoca moderna rivendica il suo diritto d’indagine, il rapporto cambia radicalmente…
Ci troviamo alla fine del ‘700 e i Vangeli vengono letti per la prima volta come testi distinti e come tali messi a confronto. Appare subito evidente che sono pieni di contraddizioni: il Vangelo di Giovanni racconta una storia, i sinottici ne raccontano un’altra. Voglio dire che non sono più, non appaiono più, come ad Agostino, quattro modi diversi di raccontare uno stesso Vangelo.
Per l’analisi critica le contraddizioni non sono più apparenti, ma reali. Naturalmente ciò può avvenire nella misura in cui sono già attive le metodologie di ricerca storica che non si vede perché non debbano applicarsi anche a questi testi. Un altro elemento che emerge attraverso l’analisi critica è la discrepanza tra l’insegnamento di Gesù e l’insegnamento dei discepoli quale si manifesta nei Vangeli. Viene colta la contraddizione interna tra lo stesso modo con cui i Vangeli rappresentano la figura di Gesù. Per esempio, i Vangeli tendono a rappresentarlo come cosciente del fatto che deve subire la passione, però questa autocoscienza è legata alle cosiddette profezie della passione. Insomma, questi passi non fanno corpo con l’insieme del suo insegnamento, possono essere stati aggiunti a posteriori, come accennavo prima, per giustificare o spiegare lo scandalo del Messia che viene ucciso. Emerge così la possibilità di distinguere tra la dimensione storico-religiosa di Gesù e quello che in seguito i discepoli hanno raccontato di lui e presentato come significato religioso della sua venuta. Questa indagine, iniziata alla fine del 700, attraversa tutto l’800, soprattutto in terra tedesca: Reimarus, Strauss, Schleiermacher, Weiss, Wrede, Schweitzer. Ci si concentra sulla ricostruzione storica della vita di Gesù, sollevando problemi, anche drammatici, che colpiscono la stessa chiesa protestante mettendo a rischio la teologia esistente. Ora quale è stato il positivo di tutta questa operazione? Lentamente ha cominciato a prendere forma un’immagine religiosa diversa di Gesù. L’immagine tradizionale era fortemente teologizzata, faceva corpo con la dottrina; a sua volta l’iconografia era ispirata da questa visione teologica, che è stata una cosa grandiosa, beninteso. Per secoli si è costruita una grande concezione teologica, religiosa, iconografica in grado di tenere ferma l’immagine del Cristo e il significato salvifico della sua vicenda. Nella modernità questo non è stato più possibile; è un dato di fatto, perché così è evoluta la storia, la scienza, il sapere; non è né un bene né un male: è successo. Ad un certo punto, si è cominciato a voler capire chi effettivamente fosse stato. Vale a dire quale era stata la sua dimensione umana e religiosa, a prescindere in qualche modo dalla figura che gli era stata sovrapposta teologicamente. Di figure se ne erano sovrapposte tante nel corso dei secoli; l’immagine che abbiamo di Gesù non è semplicemente quella determinata dalla credenza della resurrezione, cioè quella iniziale: è diventato il Figlio di Dio, la seconda persona della Trinità, un essere composto insieme di natura umana e divina.
Questa elaborazione secolare viene spazzata via dalla ricerca storica. In questo processo, secondo me, alcune cose si sono perse, però si è anche guadagnato dell’altro, quanto meno la possibilità di ripensare religiosamente, filosoficamente, esteticamente la figura di Gesù su base storica. Di questo mutamento lo stesso Kierkegaard è testimone; la sua idea della “contemporaneità con Cristo” per ciascun credente invita a saltare tutti i secoli che sono in mezzo, alla ricerca di un rapporto diretto.
Qui però si apre il conflitto con le istituzioni ecclesiastiche, che per inerzia, per autoconservazione, tendono invece a mantenere il patrimonio tradizionale, seppure con qualche aggiustamento.
Mauro Pesce, coinvolto in una violenta polemica a causa delle tesi sostenute nel recente libro intervista Indagine su Gesù, ha sostenuto durante un incontro pubblico che paradossalmente la spinta del Concilio Vaticano II alla diffusione della Bibbia, alla sua lettura pubblica e privata dopo secoli di divieto, sta finendo col determinare una sorta di fondamentalismo biblico. Dal momento che si è messa la Scrittura in mano a tutti bisogna che tutti la prendano alla lettera, un po’ come il Corano in mano ai musulmani. Si rischia insomma l’imposizione di una sorta di letteralismo finalizzato a difendere i semplici fedeli, non tanto dalle interpretazioni dottrinalmente errate, quanto dalle spiegazioni storicizzanti.
Un atteggiamento, questo, che genera inevitabilmente aggressività da parte dell’istituzione, probabilmente legata ad un meccanismo di autodifesa, in una società in cui si sente oramai minoranza. Invece di rendersi interlocutori seri, forti relativamente ai problemi sul tappeto, si tende piuttosto a difendere in modo più o meno rigorista, una linea identitaria. Una posizione che secondo me sta assumendo un carattere settario, nel senso che non si discute, non ci si confronta e di conseguenza non si prende atto della situazione nella sua complessità. Si preferisce considerare l’altra parte priva di ragioni o in malafede, fino al punto che le posizioni di intellettuali dichiaratamente non credenti -che però si riconoscono nei valori cosiddetti cristiani- vengono invece prese per buone, creando una fusione tra posizioni che in realtà sarebbero incompatibili tra loro e che invece si accettano per creare l’illusione di una sorta di identità tra il civile e il religioso. Tutto questo per contrapporsi al cosiddetto relativismo, che positivamente dovrebbe piuttosto significare la capacità di cogliere più punti di vista, più posizioni, di avere una visione complessa, dunque non necessariamente scetticismo o qualunquismo o una ideologia dove ognuno “fa quel che gli pare”. Il relativismo può anche essere una capacità di relativizzare le posizioni in nome del riconoscimento della complessità; una ricerca che può anche essere comune. Invece, si assiste (da parte dell’istituzione) ad una appropriazione della verità in termini più o meno assoluti. Tale è la situazione in questi ultimi tempi, con questo pontificato, ed essa si riflette in modo forte anche sulla ricerca storico-religiosa. Non è che non si possa in assoluto discutere o che non si possano portare avanti gli studi critici; e però lo si può fare solo dentro le istituzioni deputate, nelle università, tra studiosi, in convegni… Tutti i biblisti del mondo si incontrano, discutono una serie di questioni aperte, disputate ecc. ecc., ma a condizione che non diventino problemi di cui si parla in modo aperto.
Questa mancanza di ascolto nei confronti degli altri, siano laici o non credenti, si avverte anche a livello di fedi. Tra cristianesimo e l’islam sembra esserci un dialogo tra sordi...
Questo è vero, però bisogna tener presente che c’è una sorta di enorme décalage storico tra il cristianesimo e l’islam: il cristianesimo è passato attraverso tutto il processo della modernità, che ha modificato profondamente la sua collocazione all’interno delle società occidentali; si è creata una dialettica complessa tra società civile e società religiosa, tutta una serie di accordi, compromessi, che in modo particolare ha toccato la questione della libertà, della ricerca, del pluralismo, della tolleranza. All’interno dell’islam questo processo non c’è stato. Per cui il confronto che si è determinato in questi ultimi tempi in modo così ideologico riguarda interlocutori che ragionano in termini completamente diversi. Voglio dire, per un islamico praticante la posizione religiosa di un cattolico praticante, è qualcosa di incomprensibile. Perché avverte tutta una serie di compromessi, di incoerenze, che non sono accettabili; d’altra parte, siccome ormai vive qui, in Occidente, deve cercare una posizione di compromesso oppure tentare una difesa rigida della propria identità tradizionale. Come dire, chi è coerente con la propria fede questo compromesso non l’accetta. A me sembra che il conflitto vero oggi non sia tanto quello tra religioni, quanto piuttosto quello tra due diverse evoluzioni storiche che faticano ad incontrarsi. A meno che non sia già in corso da tempo un processo di laicizzazione, come nel caso della Turchia descritta da Orhan Pamuk, che dalla caduta dell’Impero Ottomano in poi ha fatto un notevole (quanto contraddittorio) sforzo di occidentalizzarsi. Questo fa sì che, almeno nelle élites, la visione della religione non sia tanto diversa da quella dell’Occidente; per la borghesia di entrambe le parti la religione è più o meno importante ma non è più il centro della propria esistenza. Perciò, pur conservando una tradizione propria, pronta magari a generare una qualche forma di nazionalismo anche violento, è già avvenuto un processo che rende più prossimi i due mondi. Laddove questo processo di secolarizzazione non è avvenuto e anzi ha ripreso con forza l’istanza identitaria legata all’Islam, è ovvio che non ci si possa capire, che ci sia un conflitto, uno scontro sempre più drammatico e che rischia di risultare devastante. L’attacco all’Occidente e la reazione bellicista americana hanno aggravato enormemente l’incomprensione, hanno creato un baratro. Bisognerebbe riuscire a vedere la questione in modo storicizzato, non semplicemente come una sorta di incompatibilità tra due religioni, tra due visioni inconciliabili del mondo, perché il cristianesimo, l’ebraismo, l’Islam appartengono allo stesso ceppo, hanno tantissimo in comune.
Vorrei tornare alla questione del relativismo. Jervis nel suo libro (Contro il relativismo), sostiene -da un punto di vista laico- che già nei suoi presupposti questo pensiero negherebbe la pluralità, dando uguale valore a tutte le posizioni, dicendo che nessuna posizione è vera e così esasperando il soggettivismo di ciascuna tesi. Forse c’è un fondamento nella critica che viene portata avanti dal papa...
Credo che la posizione più profonda, più vera, al riguardo, sia quella espressa da Simone Weil; lei diceva a proposito delle religioni che tutte sono vere oggettivamente, ma che soggettivamente soltanto la propria è vera, intendendo dire che non è possibile passare dall’una all’altra o fare del sincretismo, mescolare le cose, perché in questo modo non si fa esperienza reale di nulla. L’unica cosa di cui possiamo fare realmente esperienza è ciò che ci appartiene, in questo caso la religione dove sono nato, cresciuto, la civiltà in cui vivo.
Soltanto se uno assume la religione come “vera” può fare fino in fondo un’esperienza spirituale. Fermo restando che per il buddista la verità sarà il buddismo, e per l’islamico l’islamismo. Questo secondo me permette di superare l’obiezione di Jervis, perché se il relativismo significa l’indifferenza assoluta allora tutto è vero e ugualmente falso. Così si entra in una situazione di disfacimento che rappresenta un pericolo reale per la nostra società; c’è un’ideologia corrente che va in questo senso. Nella cultura dei più giovani questa tentazione è molto forte, non ci sono delle cose per cui valga la pena impegnarsi, da capire fino in fondo. Però è anche vero che se -come mi sembra faccia adesso il cattolicesimo- si ritorna all’idea che non c’è altra verità al di fuori di esso, che il cristianesimo è l’unica religione vera e che in definitiva non c’è salvezza al di fuori della Chiesa (e questa è la posizione dogmatica che si vuole per lo più riaffermare), allora l’attacco al relativismo significa: c’è della verità ovunque, ma non è “la” verità, che si può sperimentare, vivere, solo all’interno dell’esperienza cristiana. Questa concezione nel famoso discorso di Ratisbona il papa l’ha spinta all’estremo, e non tanto in riferimento all’islam, ma proprio riferendosi alle stesse tradizioni cristiane. Ad esempio quando dice che “il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, ha infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa”, riducendo così di fatto il cristianesimo al cattolicesimo romano.
Affermazioni di questo genere impediscono di prestare attenzione ai modi diversi con cui la verità viene perseguita ed esperita senza cercare di appropriarsene. Dunque una posizione articolata, che comporta una consapevolezza della complessità.
Del resto, se io mi misuro con un indiano, un buddista, un tibetano, un africano, devo sapere che sta avvenendo qualcosa di complesso che comporta il confronto tra la mia identità, le mie tradizioni e altre mentalità, altre percezioni del mondo, e che il rispetto, prima ancora della tolleranza, implica la capacità a priori di riconoscere che l’altro è nel vero così come lo sono io, né più né meno. Altrimenti si è indotti a convertire, a fare il missionario. Da cristiani si può avvertire il dovere di dedicarsi a costruire ospedali in Africa, come ha fatto Albert Schweitzer, perché ce n’è bisogno, e testimoniare così della comune umanità secondo l’insegnamento di Gesù, ma non con lo scopo di convertire.
Quando si parla dell’annuncio del Vangelo che viene fatto al mondo, non c’è già la premessa alla conversione?
La premessa è lì. Si tratta di intendere che cosa vuol dire annunciare il Vangelo. Può voler dire semplicemente testimoniare il Vangelo, essere coerenti fino in fondo e far vedere che cos’è, dopodiché, se gli altri sono prepotentemente attratti da questa testimonianza da volersi convertire è un problema loro. Tuttavia l’accezione corrente è quella del battezzare tutti, di portare tutti all’interno della fede cristiana, a partire dal presupposto che al di fuori non c’è la salvezza. Perché non c’è solo il problema della verità, c’è il problema della salvezza. La Chiesa può anche riconoscere che nell’ebraismo, nell’islamismo ci sia della verità, che siano religioni che comunicano verità, relativamente a Dio per esempio; il problema è sapere se praticando queste verità ci si salva. Quando si passa su questo piano e si pretende che soltanto appartenendo alla Chiesa ci si salva, allora il meccanismo missionario diventa una dinamica di conquista, con le buone o con le cattive.
Nel discorso di Ratisbona ha colpito l’identificazione tra fede e ragione. Nel dialogo citato dal papa tra il persiano e Manuele II il Paleologo, è il persiano stesso a far presente come sia la religione cristiana ad essere irragionevole, “smisurata”, perché propone un qualcosa di irraggiungibile, una “strada non percorribile”. Non c’è ragione nella fede. Anche Simone Weil in Lettera a un religioso afferma che “i misteri della fede non sono oggetto per l’intelligenza”.
Questa è la cosa più sorprendente del discorso di Ratzinger, che riconosce quella ellenizzata come la forma autentica, decisiva del cristianesimo. Tra l’altro questo vuol dire mettere in secondo piano la forma originaria del cristianesimo che invece è ebraica, e ha una visione delle cose profondamente diversa. Qui le cose diventano complicate, perché per un certo verso il richiamo al Logos, alla razionalità greca potrebbe essere positivo, se questo volesse dire riconoscere che tutto ciò che sappiamo, tutto quello che abbiamo ereditato nell’ambito del sapere, della scienza, dell’arte, ecc. lo dobbiamo ai Greci, al Logos. Secondo la Weil , “dal momento che tutta la vita profana dei nostri giorni proviene direttamente dalle civiltà pagane” bisognerebbe superare la frattura tra il cosiddetto paganesimo e il cristianesimo, affinché questo possa impregnare l’intera vita profana (Lettera a un religioso, p. 85). Se non che, a me sembra che nel ragionamento di Ratzinger questo superamento avvenga senza sottolineare che la fede trascende il Logos. In parole povere, secondo il papa, si può riconoscere valore alla ricerca scientifica o alla tecnologia, se contemporaneamente si vede in questo sforzo della ricerca umana, del lavoro, qualche cosa che ha a che fare con la Verità , con la ricerca della Verità. Cioè che si può parlar della scienza o della tecnica se c’è una ispirazione religiosa che circola all’interno della società. Questo però non vuol dire che il discorso della fede finisca lì, perché poi c’è la sventura, c’è il dolore, la morte, cose che non possono essere controllati nell’ambito del Logos sia pure divino, c’è il mistero.
Quindi c’è un oltre che in una visione come quella della Weil -tradizionalista in un certo senso- in cui l’idea del sacro circola ovunque, permetterebbe sì di vivere in una società cristianamente informata, senza che per questo l’esperienza ultima della condizione umana venga meno; forse si è soltanto meglio preparati ad affrontarla.
In anni anche recenti, nella Chiesa ci sono stati movimenti, personalità, che hanno portato avanti discorsi più aperti, “progressisti”, che oggi sembrano del tutto scomparsi. L’ecumenismo per esempio sembra essere sparito dal dibattito attuale...
Quello che mi sembra evidente è che le cose sono profondamente cambiate nel momento in cui si è affacciato sulla scena Giovanni Paolo II. A torto o a ragione egli ha cercato di far piazza pulita di tutto ciò che -dal suo punto di vista- non serviva o ostacolava un’affermazione forte dell’immagine della Chiesa cattolica, per cui ha usato di tutto: ha spazzato via la Teologia della Liberazione, non ha avuto scrupolo a farsi vedere insieme a Pinochet, e poi ha dato questa enorme spinta all’esteriorizzazione dell’identità cattolica: le adunate, gli slogan. Un grande apparire che dietro ha pochissimo dal punto di vista dei contenuti, perché non basta dire “non abbiate paura di Cristo”; dopo devi anche dire cosa comporta seguire Cristo. Si può non avere paura dell’annuncio di Cristo, ma se poi dici che questo comporta prendersi sulle spalle la croce, allora le cose iniziano a essere più complesse. Non può essere più uno slogan in cui tutti sono contenti per aver finalmente trovato un’ideale. A mio avviso, è avvenuto uno scollamento, determinato da una situazione di partenza in cui il cattolicesimo si sentiva in una posizione di inferiorità storica. Tutto il linguaggio di Giovanni Paolo II era in fondo questo: sembriamo deboli, ma in realtà siamo forti; sembriamo minoranza, ma in realtà abbiamo i valori assoluti, siamo noi che portiamo la Verità. Questa propaganda mass-mediologica, di grandissimo effetto, ha avuto successo, ma siccome è molto superficiale, per tenersi in piedi, ha bisogno di affermarsi come identità forte senza alternative. Il tutto solo a livello verbale, mi sembra.
Se si confronta questa chiesa con quella di Giovanni XXIII e di Paolo VI ci sono delle differenze molto significative. Il livello delle problematiche, le difficoltà, i conflitti, la durezza del processo per portare avanti il concilio Vaticano II; le contraddizioni che si aprivano si avvertivano. Poi tutto è diventato semplice. Oggi infine la parola d’ordine sembra essere: atteniamoci al risaputo, visto che l’unico problema è per noi esserci e costringere gli altri a riconoscerlo.
C’è una forte resistenza verso i mutamenti che la tecnica sta operando, da parte del cosiddetto pensiero critico, condivisa anche dal cattolicesimo. E tuttavia non c’è un pensiero forte che sappia contrapporsi...
Questa posizione integralista copre un vuoto e ha gioco facile, proprio perché dall’altra parte non ci sono risposte adeguate alla complessità. Si discute intorno ad alcune cose, come sul darwinismo. Ma il darwinismo vuol dire tante cose, è una visione del mondo. Insomma, da parte laica, c’è spesso una pura e semplice difesa della formalizzazione scientifica, dei processi conoscitivi, mentre dall’altra parte si vuole affermare l’insufficienza di questa teoria perché elimina l’idea di Dio, della Creazione. Il punto dovrebbe essere piuttosto riuscire a vedere quali sono le implicazioni religiose di questa teoria. E’ un po’ come con l’esegesi critica: le scienze modificano la nostra coscienza del mondo e della realtà. Lo spirito deve essere in grado di assumere questa coscienza del mondo, e provare a rispondere all’altezza delle questioni in campo.
In fondo è sempre successo così. Il “genio” del cristianesimo antico è stato di dialogare con l’ellenismo, di assumere il livello della coscienza dei contemporanei e di offrire una risposta al livello di questa. Così come la predicazione di Gesù si è innestata nella coscienza religiosa ebraica e ha fornito un certo tipo di risposta. Questo secondo me non avviene più; la conseguenza è che ognuno si irrigidisce sulla propria posizione: lo scientismo da una parte, l’integralismo religioso dall’altra; queste due posizioni non entrano più in contatto. E’ un’altra grandissima debolezza di ambedue le parti, ma soprattutto della religione. Anche perché c’è una profonda carenza di esperienza spirituale.
Quali sono oggi le figure a cui ci si potrebbe rivolgere per progredire nella conoscenza spirituale? Penso che qualche cosa, qualche indicazione significativa ogni tanto venga dagli interventi del cardinale Martini.
In lui si avverte una tensione; capisce che ci sono dei problemi, non li elude, magari non ha le risposte o sono deboli, però cerca di farvi fronte. Ed è già una cosa notevole. Il resto per lo più sono chiacchiere teologiche.
In un suo intervento recente su Lo Straniero afferma che a questo vuoto si potrebbe rispondere ripartendo da L’Enracinement di Simone Weil, dalla sua “dichiarazione dei doveri verso l’essere umano”...
In questo suo ultimo saggio (La prima radice, in italiano) la Weil sviluppa una critica alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo della Rivoluzione Francese. La critica di fondo consiste nel fatto che per affermare dei diritti occorre utilizzare una certa quantità di forza; i diritti vengono riconosciuti soltanto a condizione che si abbia la forza per farli riconoscere. Se oggi vengono riconosciuti come diritti alcune istanze dei gay, ad esempio, è perché c’è abbastanza forza sociale, politica, culturale, parlamentare, perché ciò possa avvenire. Questo è già un problema, perché ci sono diritti che forse non verranno mai riconosciuti o che per essere riconosciuti comporteranno delle battaglie, delle guerre, delle violenze. Secondo Simone Weil questo succede perché la nozione di diritto è stata proposta come fondata su se stessa: i diritti si dichiarano. In questo modo risulta un atto volontaristico. Per cui i diritti restano non fondati, se non sulla capacità di affermarli. Invece la nozione di dovere è per lei quella primaria, fondante. Perché il dovere nasce dalla capacità di qualcuno di riconoscersi appunto “in dovere” verso gli altri. E’ un atto primario: se qualcuno ha fame ci si sente in dovere di sfamarlo.
Occorrerebbe dunque rifondare i diritti sui doveri. A cominciare dai doveri fondamentali per la costruzione di una società giusta e cioè quelli verso il corpo: cibo, calore, una casa, ecc. E analogamente tutti i doveri verso l’anima, come la libertà, l’obbedienza, la giustizia, l’uguaglianza -senza i quali muore.
Su questa base Simone Weil immaginava di poter costruire la costituzione francese dopo la guerra. Voleva assumere come criterio ispiratore di una costituzione, di una legge fondamentale, la dichiarazione di doveri verso l’essere umano. Secondo me, è una vera e propria rivoluzione del modo di pensare. Se infatti il punto di riferimento è far sì che tutti abbiano da mangiare, allora il problema della gestione delle risorse del pianeta va pensato in tutt’altro modo.
Questo potrebbe essere un punto di partenza per ripensare tutta una serie di problemi, per riorientarsi, perché noi occidentali siamo continuamente portati a ragionare in termini di forza. Attacchiamo delle etichette: è giusto, è bene, però il meccanismo sottostante (attraverso il quale cerchiamo di raggiungere tali obiettivi) è quello della forza. Mettiamo in contrasto, in conflitto delle forze. Lo facciamo anche in medicina: tentiamo di ammazzare il cancro scaricando veleni in quantità mostruose che poi distruggono altre cose. E soprattutto trattiamo il malato come una malattia. Si tratta la malattia, e se il nemico è la malattia tu usi la forza. Se avessimo in primo piano il malato le cose diventerebbero più complesse. Bisogna tener conto di una quantità di bisogni del malato; si può arrivare alla conclusione che per l’equilibrio complessivo della sua psiche, della sua storia, della sua vita, della sua malattia, si possa aiutarlo a morire.
Cosa che nella cultura indiana ad esempio è una ovvietà, come si vede molto bene nel libro di Tiziano Terzani dove racconta la storia della cura del suo cancro e descrive le modalità di rapportarsi alla malattia di culture che sono profondamente diverse dalle nostre. Noi dovremmo avere la forza di essere molto autocritici nei riguardi della nostra civiltà, riconoscendo le straordinarie cose positive che abbiamo fatto, ma anche avvertendone i limiti profondi.
Anche in quest’ultimo lavoro sui Vangeli, ho avuto costantemente la percezione dei limiti dell’esegesi storica. L’ho applicata, ho voluto farla conoscere, mi sembra importante che una persona che voglia leggere i Vangeli abbia consapevolezza di come quei testi si sono formati, farli uscire da una sorta di limbo, e renderli di nuovo testi vivi, contraddittori, ma vivi nella loro complessità. Ma ho anche toccato con mano tutte le contraddizioni e i limiti di questa scienza che con il suo tecnicismo rischia di banalizzare, di non cogliere la ricchezza del testo, la profondità dell’esperienza spirituale che è in gioco.
Non basta la scienza storica, occorre che essa fecondi un nuovo pensiero, una nuova capacità immaginativa. In questo senso certe immagini del Vangelo secondo Matteo di Pasolini forniscono un’intelligenza dell’evento narrato che l’esegesi