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TEMI
LA
LINGUA CHE
DIO COMPRENDE
di
Marcelo Barros
chi
è Barros
Marcelo
ADISTA
n° 58 del 1.9.2007
Molte persone, cristiane e non cristiane, si
sono spaventate per i recenti interventi del Vaticano, come il motu
proprio
del papa a favore dell’antico rito romano in latino. Molti si chiedono cosa
possa significare per il mondo nel secolo XXI e, soprattutto, per la stessa
Chiesa. Percepiscono che, con questa misura, è in gioco ben più di un problema
di rito e di lingua. Il destinatario della decisione non è Dio, a cui il culto
è rivolto, perché egli comprende molto bene le lingue attuali, forse meglio
del latino. In fin dei conti,
la Bibbia
dice che lui è il Dio che ascolta il clamore degli oppressi. Nel mondo antico,
la Chiesa
abbandonò l’uso del greco e passò a parlare in latino, che era la lingua
delle masse più povere. Di sicuro, lì anche Dio parlava latino. Ora il ritorno
al latino serve solo a gruppi conservatori che vogliono separare il sacro dal
profano,
la Chiesa
dal popolo. C’è da chiedersi se Dio riuscirà a capire questo latino.Molti
vescovi, sacerdoti e fedeli cattolici soffrono perché sentono che, dietro
questa decisione del papa, c’è, come si diceva in Brasile delle comunità
ecclesiali di base, “un modo di essere Chiesa e un modo della Chiesa di
essere”. Il problema non è recuperare il rito romano usato prima del Concilio
Vaticano II, né il solo ritorno al latino. Si tratta di seppellire una volta
per tutte un modello di Chiesa, quella che si è tentato di attuare nel
Concilio, che si disponeva a vivere in dialogo con l’umanità, più come
popolo di Dio che come un governo centrale degli affari religiosi.Tutti sanno
che, in realtà, dall’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II, le proposte
più profonde del Concilio e il relativo modo di comprendere
la Chiesa
non erano più accettate. In diverse occasioni, l’attuale papa, quando era
ancora prefetto della Congregazione per
la Dottrina
della Fede, si è mostrato contrario all’idea che le Chiese locali siano
pienamente Chiese, così come nega la piena ecclesialità delle Chiese
evangeliche e afferma che solo
la Chiesa
cattolica è quella vera. In particolare, dal 2003, quando è cominciata la
preparazione del conclave, egli ha sempre espresso chiaramente la proposta di
Chiesa che avrebbe realizzato fedelmente nel caso fosse stato eletto. Sapevano
questo tutti quelli che lo hanno votato e lo hanno scelto per questo. Anche
quelli che non lo hanno votato, ma sostengono questo sistema, sanno
perfettamente cosa stanno facendo e ora non hanno da meravigliarsene. Il fatto
che il rito sia celebrato in latino o in portoghese, con gesti più arcaici o più
moderni, non cambia molto se, anche nel rito attuale in vigore dopo il Concilio,
gli indios dell’Amazzonia, le comunità nere della Nigeria e gli aborigeni
dell’Australia sono obbligati a leggere le stesse letture, a recitare le
stesse preghiere e a fare gli stessi gesti pensati e decisi a Roma.Per il
Vaticano II l’importante era la partecipazione attiva e cosciente della
comunità locale ad una celebrazione che fosse fonte ed espressione della vita
di ogni Chiesa, riunita qui e ora, in comunione con
la Chiesa
universale. Nella misura in cui il carattere specifico di ogni Chiesa locale
viene negato e la maggioranza dei vescovi appare connivente, poco importano la
lingua e il rito in cui si celebra la liturgia o per quali strade si deciderà
di realizzare il sogno di ricostituire la cristianità medievale romana in pieno
secolo XXI.L’umanità laica, cui poco interessa se una determinata Chiesa usa
questa o quella lingua o compie questi o quei gesti, si scandalizza alle notizie
provenienti dal Vaticano perché in queste beghe ecclesiastiche percepisce che
ancora una volta le religioni verranno meno alla missione di unirsi a servizio
della pace del mondo e della difesa del pianeta Terra. Probabilmente il rito
latino non si riferirà più agli ebrei come perfidi o ai non cattolici come
empi. Ma, dietro le parole, continuerà lo stesso trionfalismo poco amorevole.Dietro
la decisione di Giovanni XXIII di togliere dal rito tali espressioni c’era la
scelta del dialogo e dell’accoglienza di ogni essere umano. L’11 ottobre del
‘62 egli aprì il Vaticano II invitando tutta
la Chiesa
a rallegrarsi perché stava giungendo una nuova primavera per
la Chiesa
e per l’umanità. In quella notte di luna piena, il papa guardò dalla sua
finestra del Vaticano e vide nella piazza una moltitudine di persone con le
candele in mano. Nel cielo, la luna sembrava bearsi di quello spettacolo. Il
papa buono si affacciò alla finestra e disse alla gente lì riunita che la luna
era venuta a festeggiare con loro la nuova apertura della Chiesa. Propose che
ogni persona lì presente, al ritorno a casa, desse un bacio a chi sentiva più
vicino. E che lo facesse a nome del papa, come segno del suo affetto. Questa è
la lingua che Dio capisce, e non c’è bisogno di motu
proprio
per spiegarla. Se questo linguaggio del dialogo è diventato estraneo a molti
uomini della gerarchia, è normale che il papa preferisca la messa in latino,
una forma di preghiera auto-centrata e poco amorevole.Per non perdere la fede
nell’essere umano e nel futuro della vita, l’umanità deve sapere che,
malgrado tutto,
la Chiesa
cattolica ha molti missionari e missionarie che, in tutti i Paesi, stanno
donando la propria vita al servizio degli impoveriti. Il popolo di Dio,
costituito da comunità sempre più mature e degnamente autonome, non si lascia
sconvolgere da queste cose e testimonia che Dio non si preoccupa che la messa
sia in latino o in questo o quel rito, ma che la vita dell’umanità e del
pianeta sia protetta e che noi siamo gravidi di un mondo nuovo possibile