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TEMI
LEGGE
NATURALE E MAGISTERO ECCLESIATICO
Quando nei suoi
innumerevoli interventi, soprattutto a proposito di questioni attinenti alla
sessualità - dai metodi contraccettivi alla fecondazione assistita, dalle
unioni di fatto all’omosessualità - afferma di difendere valori fondati sulla
natura, il Vaticano dà l’impressione non di esprimere solo una sua
convinzione ma di parlare anche a nome del popolo dei credenti. Ma è davvero
così? Per nulla.
Di
Elio Rindone
Anzi una cosa è certa: buona parte di coloro che si dicono cattolici ignora
regolarmente, senza sentirsi perciò in colpa, i presunti precetti della morale
naturale ed esprime con i fatti un clamoroso dissenso nei confronti delle
gerarchie ecclesiastiche. Ma, cosa ancor più significativa, questa
disobbedienza di massa è stata avallata dagli studiosi cattolici che, in numero
crescente dopo il concilio Vaticano II, hanno contestato la stessa nozione di
legge naturale e quindi le norme morali che la gerarchia vorrebbe imporre.
Eppure Benedetto XVI, come il suo predecessore, considera il tema così
importante da porlo al centro della riflessione teologica: infatti nel corso
dell’Udienza concessa il 5 ottobre 2007 ai membri della Commissione teologica
internazionale, prestigioso organismo che collabora con
la Congregazione
per la dottrina della fede e che come quella è presieduto dal card. Levada, il
papa ha ricordato che “si sono tenuti o si stanno organizzando, da parte di
diversi centri universitari e associazioni, simposi o giornate di studio al fine
di individuare linee e convergenze utili per un approfondimento costruttivo ed
efficace della dottrina sulla legge morale naturale” e che quindi sulla
questione è lecito attendersi presto un significativo contributo della
Commissione stessa.
Se ci si chiede il motivo della centralità attribuita alla legge naturale e
alla problematica morale, credo che la risposta plausibile sia una sola:
l’obiettivo perseguito è la riconquista di un’egemonia culturale da tempo
perduta. Infatti, se vuole non solo parlare ai cattolici ma anche presentarsi
come interlocutore nel dibattito sui temi che toccano tutta la società, il
magistero non ha altra scelta: non potendo pretendere che tutti accettino i suoi
dogmi di fede, che tra l’altro coinvolgono sempre meno gli stessi fedeli, deve
insistere sui principi morali, considerati espressione di una legge naturale
fondata sulla ragione, e perciò valida per tutti, credenti e non credenti.
Dissenso vietato
Se si vuole riaffermare il valore della legge naturale, la prima cosa da fare è
evidentemente soffocare il dissenso interno. E infatti gli ultimi due pontefici
non hanno avuto esitazioni nel ribadire il ruolo del magistero e nel punire, nei
modi oggi praticabili (non è più tempo di roghi!), i dissenzienti. E, se non
si possono costringere le masse all’obbedienza, almeno si costringono al
silenzio i teologi. Per quanto riguarda l’ambito della morale, l’intervento
più significativo ai fini della normalizzazione è sicuramente l’enciclica Veritatis
splendor, del 1993, nella quale Giovanni Paolo II, deciso avversario del
rinnovamento della teologia morale post-conciliare, dichiara che è “necessario
riflettere sull'insieme dell'insegnamento morale della Chiesa, con lo scopo
preciso di richiamare alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che
nell'attuale contesto rischiano di essere deformate o negate. Si è determinata,
infatti, una nuova situazione entro la stessa comunità cristiana, che ha
conosciuto il diffondersi di molteplici dubbi ed obiezioni, di ordine umano e
psicologico, sociale e culturale, religioso ed anche propriamente teologico, in
merito agli insegnamenti morali della Chiesa”(n 4).
Il papa, infatti, sa che anche nel mondo cattolico “si respinge la dottrina
tradizionale sulla legge naturale, sull'universalità e sulla permanente validità
dei suoi precetti; si considerano semplicemente inaccettabili alcuni
insegnamenti morali della Chiesa; si ritiene che lo stesso Magistero possa
intervenire in materia morale solo per «esortare le coscienze» e per «proporre
i valori», ai quali ciascuno ispirerà poi autonomamente le decisioni e le
scelte della vita”(ivi). Per questo ritiene necessario intervenire
sulla questione come mai era accaduto in passato: “È la prima volta, infatti,
che il Magistero della Chiesa espone con una certa ampiezza gli elementi
fondamentali”(n 115) della dottrina morale cristiana.
L’insegnamento dei principi etici era affidato, per lunga consuetudine, ai
teologi moralisti, ma ora sono proprio loro che mettono in discussione la
dottrina tradizionale e perciò il papa intende richiamare i vescovi al dovere
della vigilanza, perché “fa parte del nostro ministero pastorale vegliare
sulla trasmissione fedele di questo insegnamento morale e ricorrere alle misure
opportune perché i fedeli siano custoditi da ogni dottrina e teoria ad esso
contraria. In questo compito siamo tutti aiutati dai teologi; tuttavia, le
opinioni teologiche non costituiscono né la regola né la norma del nostro
insegnamento. La sua autorità deriva, con l'assistenza dello Spirito Santo e
nella comunione cum Petro et sub Petro, dalla nostra fedeltà alla fede
cattolica ricevuta dagli Apostoli”(n 116).
Il bersaglio dell’enciclica sono esattamente i moralisti cattolici, a cui il
papa nega il diritto alla libera ricerca teologica. Il loro eventuale dissenso,
esclusa a priori l’ipotesi che possa essere ben motivato, è sempre
un’inaccettabile disobbedienza: “Il dissenso, fatto di calcolate
contestazioni e di polemiche attraverso i mezzi della comunicazione sociale, è
contrario alla comunione ecclesiale e alla retta comprensione della costituzione
gerarchica del Popolo di Dio. Nell'opposizione all'insegnamento dei Pastori
non si può riconoscere una legittima espressione né della libertà cristiana né
delle diversità dei doni dello Spirito”(n 113).
Verità per decreto
Bandito quindi il pluralismo teologico, dagli studiosi cattolici si esige
l’assoluta fedeltà ai principi contenuti nell’enciclica, il cui valore
dogmatico è ribadito più volte: “Ciascuno di noi conosce l'importanza della
dottrina che rappresenta il nucleo dell'insegnamento di questa Enciclica e che
oggi viene richiamata con l'autorità del successore di Pietro”(n 115). Chi si
aspettasse una confutazione degli errori dei teologi fondata su solidi argomenti
razionali resterebbe però deluso.
Per la condanna di buona parte della teologia morale contemporanea l’enciclica
si basa sostanzialmente sul principio di autorità. Il punto di partenza è
sempre
la Scrittura
, ma letta senza tener minimamente conto delle acquisizioni dell’esegesi
biblica contemporanea, e l’argomento principale, se non l’unico, è che le
nuove idee sono in contrasto con la fede, così come è stata interpretata dalla
tradizione e proposta dal magistero. La tesi, ad esempio, per cui “la
concezione tradizionale della legge naturale [...] presenterebbe come
leggi morali quelle che in se stesse sarebbero solo leggi biologiche”(n 47) è
inaccettabile perché “Questa teoria morale non è conforme alla verità
sull'uomo e sulla sua libertà. Essa contraddice agli insegnamenti della
Chiesa”(n 48).
La persona umana è unità di corpo e anima, e perciò “Una dottrina che
dissoci l'atto morale dalle dimensioni corporee del suo esercizio è contraria
agli insegnamenti della Sacra Scrittura e della Tradizione”(n 49). E
ancora, a proposito del rapporto tra libertà e legge: “le tendenze culturali
sopra ricordate, che contrappongono e separano tra loro la libertà e la legge
ed esaltano in modo idolatrico la libertà, conducono ad un'interpretazione
«creativa» della coscienza morale, che si allontana dalla posizione della
tradizione della Chiesa e del suo Magistero”(n 54).
E poiché insegnanti e medici cattolici spesso si allontanano dalle posizioni
della tradizione ecclesiastica e del magistero romano, bisogna, a norma di
diritto canonico, intervenire d’autorità per richiamarli all’ordine: “Una
particolare responsabilità si impone ai Vescovi per quanto riguarda le istituzioni
cattoliche. [...] Spetta a loro, in comunione con
la Santa Sede
, il compito di riconoscere, o di ritirare in casi di grave incoerenza,
l'appellativo di «cattolico» a scuole, università, cliniche e servizi
socio-sanitari, che si richiamano alla Chiesa”(n 116). È esattamente ciò che
è avvenuto nel corso degli ultimi anni.
Se si prova a ragionare
Peccato, perché i moralisti cattolici avevano messo in discussione la nozione
di legge naturale sulla base di argomenti razionali che forse meritavano una
maggiore attenzione. Essi hanno fatto notare che la nozione di legge naturale è
stata elaborata - soprattutto ad opera di Tommaso d’Aquino che ha ripreso i più
significativi contributi del pensiero greco - in un contesto come quello
medievale in cui i costumi erano relativamente omogenei e il ritmo della storia
talmente lento che i cambiamenti passavano inosservati, la società era
strutturata in quadri decisamente statici e fortemente gerarchici e la vita
umana era soggetta ai processi della natura, le cui leggi fisiche o biologiche
apparivano assolutamente immodificabili. In tale contesto, è ovvio che
apparissero come fondati sulla natura fatti quali la sottomissione della donna
all’uomo, la schiavitù o il legame necessario tra sessualità e procreazione.
Ma è altrettanto ovvio che quei dati non appaiono più ‘naturali’
nell’odierno contesto culturale. Gli studi di etnologia e di antropologia
culturale hanno infatti mostrato una tale varietà e una tale mutevolezza nei
comportamenti umani da escludere l’assolutizzazione di costumi che tutt’al
più sono diffusi e stabili solo in ben determinate regioni ed epoche. La
mentalità odierna poi, valorizzando libertà e uguaglianza, abitua alla mobilità
sociale e non accetta più passivamente le stratificazioni esistenti. La
rivoluzione scientifico-tecnologica, inoltre, ha reso possibile un dominio dei
processi fisici e biologici tale da far tramontare definitivamente l'idea di una
natura immodificabile.
La scienza, infatti, ha mutato non solo l'idea che l'uomo aveva del mondo della
natura ma anche quella che aveva di sé; l'essere umano si scopre oggi capace di
trasformare se stesso, la società in cui vive e il mondo che lo circonda: «la
natura immutabile dell'uomo - osservava A. Bausola già diversi anni fa - appare
allora un mito, proprio di società che non riuscivano a mutare l'uomo; oggi si
vede che l'immutabile può mutare, che esso è solo il presente (e il
passato, prima creduto sempre tornante in cicli che sembravano eterni)
gratuitamente assolutizzato» (Filosofia e mondanizzazione, in A. Bausola,
Natura e progetto dell'uomo. Riflessioni sul dibattito contemporaneo,
Milano 1977, p. 5).
Pur facendo parte del mondo della natura, l'uomo se ne distingue proprio per la
sua creatività e niente è più naturale che l'esercizio di questa libertà
creativa, che può manifestarsi «nel dirigere in nuove direzioni le tendenze,
di fatto plastiche nell'uomo, nel potenziare lo sviluppo di certi impulsi
piuttosto che di altri, e, al limite, nel modificare la stessa natura
dell’uomo (modificando il soma, e con ciò anche, forse, il sistema degli
impulsi)» (Natura e cultura, in Bausola, Natura e progetto, pp.
64-65).
In un mondo che è stato trasformato dalla rivoluzione scientifica e
tecnologica, e che ancor più lo sarà in futuro, l’uomo è perciò ormai
consapevole che il suo compito non è quello di attuare un disegno già
stabilito ma, come scriveva negli anni settanta un noto moralista cattolico,
quello di individuare il modello di umanità che merita di essere perseguito in
ciascuna epoca: «con l'avvento della scienza e della tecnica l'uomo sperimenta,
in effetti, il suo potere creatore. Secondo una nota espressione, egli
'umanizza' la natura e si umanizza lui stesso trasformandola; la natura
trasformata lo trasforma a sua volta e modifica profondamente la coscienza e la
conoscenza che egli ha di se stesso e della sua storia» (R. Simon, Fonder la
morale. Dialectique de la foi et de la raison pratique, Paris 1974, p. 149).
Con la teoria dell’evoluzione, infine, la scienza ha modificato ancora più
radicalmente l’autocomprensione dell’uomo, perché, come osserva Giannino
Piana, professore ordinario di Etica cristiana nell’università di Urbino, “la
natura non risulta più espressione di un processo razionale guidato nel suo
divenire da un’intelligenza, ma appare piuttosto come una realtà in costante
mutamento, in cui affiorano deficienze e disfunzioni, spiegabili soltanto come
effetto di aggiustamenti operati dalla selezione naturale. Il che rende
evidentemente poco plausibile il ricorso a essa quale paradigma per l’agire
morale” (G. Piana, Si può ancora parlare di ‘natura’? Considerazioni
antropologico-etiche, in Aggiornamenti sociali, settembre-ottobre
2006, p 680).
E il Piana ricorda in una nota della medesima pagina – ma io credo che il
fatto meri-terebbe ben maggiore rilievo – che “lo stesso card. Ratzinger
(oggi papa Benedetto XVI) in un confronto con il filosofo tedesco Juergen
Habermas ha ammesso che ‘con la vittoria della teoria dell’evoluzione [...]
che oggi in larga misura sembra incontro-vertibile’ il richiamo tradizionale
al diritto naturale ‘purtroppo risulta spuntato’, perchè è ormai evidente
che ‘la natura come tale [...] non è razionale’ (Habermas J. – Ratzinger
J., Etica, religione e Stato liberale, in Humanitas, 2 [2004] 256
s.)”.
Una morale a misura d’uomo
La scoperta della straordinaria varietà, nello spazio e nel tempo, delle
convinzioni morali, la creazione di un quadro economico-sociale più libero e
dinamico, la diffusione della teoria evoluzionistica e l'esperienza della
capacità umana di dominare i processi naturali hanno prodotto dunque la
consapevolezza ormai irreversibile che i confini tra natura e cultura sono molto
meno netti di quanto non si credesse un tempo. Infatti non ci si trova mai di
fronte alla natura nella sua immediatezza ma sempre di fronte ad una natura già
interpretata - e interpretazioni e relative valutazioni sono mutevoli -
dall'uomo: viene, cioè, di volta in volta dichiarato ‘naturale’ ciò che in
una determinata cultura appare tale. La linea di confine tra natura e cultura si
rivela perciò come un prodotto della cultura stessa.
Se si riconoscono la storicità della natura dell'uomo, la plasticità delle sue
inclinazioni fondamentali e la reinterpretazione culturale di esse, le
conseguenze in campo morale sono inevitabili. Rinunciando alla pretesa di
fornire precetti morali immutabili, si assegnerà alla ragione il compito di
trovare di volta in volta soluzioni efficaci per i problemi posti
dall'esperienza, tenendo conto dei valori di cui si ha consapevolezza in un
determinato momento storico, e che proprio scelte inizialmente scandalose ed
esperienze inedite possono far emergere.
L’istanza morale può esprimersi allora in maniera necessaria e immutabile non
con precetti che stabiliscono in modo definitivo la liceità o meno di
determinati comportamenti ma solo con formule che sottolineano il dovere di
agire da uomini, individuando ciò che va fatto qui e ora. Tesi, questa, oggi
comune tra gli studiosi cristiani ma già presente sei decenni fa nell’opera
di un grande moralista cattolico che, pur tra tanti condizionamenti, scriveva
anticipando i tempi: “non è obbligatorio per la natura umana, e dunque
per ogni uomo, che quell’atto non compiendo il quale egli decade
necessariamente dalla sua dignità umana”(J. Leclercq, Les grandes lignes
de la philosophie morale, Louvain-Paris 1946, p 407).
I moralisti che aprono simili prospettive, quindi, non ritengono affatto che
tutto sia lecito: al contrario, sono certi che sia assolutamente necessario
individuare criteri che consentano di discernere ciò che è eticamente
legittimo da ciò che non lo è. Ma tale criterio ha come fondamento non la
natura – delle cui leggi fisiche e biologiche bisogna certo tener conto – ma
appunto la dignità dell’uomo: il nocciolo duro dell’etica è il
riconoscimento del valore di ciò che la tradizione cristiana indica col termine
‘persona’, un soggetto cioè capace di pensare e di agire liberamente,
entrando in relazione con altre persone. Morale è allora tutto ciò che ha
effetti umanizzanti per sé e per gli altri, immorale ciò che attenta alla
dignità propria come degli altri esseri umani. Posizione, questa, che forse è
non solo la più ragionevole ma anche la più coerente con lo spirito
evangelico.
Vangelo o potere
È lecito, allora, concludere che l’idea di legge naturale non appartiene alla
chiesa cattolica intesa come popolo di credenti ma solo a una gerarchia
ecclesiastica che, anche se gode, almeno in Italia, di grande visibilità
mediatica, è ben poco ascoltata dai fedeli. Una gerarchia che, per mostrare la
granitica compattezza necessaria per intervenire da protagonista sulla scena
pubblica, non esita a zittire i suoi teologi e a separarsi dal popolo che pure
vorrebbe guidare.
La situazione, in effetti, è davvero paradossale: mentre il messaggio
evangelico appare sempre più estraneo alla maggior parte dei cittadini
italiani, il Vaticano esercita una crescente influenza sulle istituzioni col suo
tentativo di condizionare, in nome di arcaici principi morali spacciati per
precetti naturali, l’attività parlamentare, al punto da mettere in pericolo
la stessa laicità dello stato.
Non pare quindi peregrina l’ipotesi che la riaffermazione vaticana
dell’etica tradizionale, sino allo scontro col sentire morale di un’umanità
che attribuisce ormai alla coscienza la responsabilità delle proprie scelte,
serva, al di là delle intenzioni soggettive, più che a testimoniare il vangelo
a mantenere il prestigio di un’autorità che chiaramente non potrebbe più
pretendere assoluta obbedienza se, mutando i suoi insegnamenti, riconoscesse la
propria fallibilità.
Non è facile, infatti, sostenere che il cuore del messaggio evangelico sia
costituito dalla preoccupazione per la famiglia e dalla conseguente
regolamentazione della sessualità. Pare, piuttosto, che il vangelo insista su
un amore universale che ha come oggetto anche gli estranei e addirittura i
nemici: “amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori [...].
Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete?”(Matteo 5,
44.46). E ciò che soprattutto ostacola quest’amore non pare che sia il
piacere sessuale ma l’attaccamento alla ricchezza (mammona, in ebraico):
“nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro
oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a
Dio e a mammona”(Luca 16,13).
Eppure, in un mondo in cui classi dirigenti che si dicono cristiane professano
in realtà la religione del denaro, e per accumulare ricchezza provocano ogni
anno milioni di morti per fame, distruggono l’ambiente, rilegittimano la
guerra, fanno ricorso alla pena di morte e praticano ormai senza pudore la
tortura, non è dato ascoltare dal Vaticano una chiara parola di condanna:
“guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione”(Luca 6,24).
Mentre la nozione sempre meno credibile di legge naturale viene utilizzata come
una clava, soprattutto in campo sessuale, per riprovare quelle che vengono
considerate colpe private, le critiche rivolte ai responsabili della cosa
pubblica sono in molti casi piuttosto timide e non impediscono un’alleanza di
fatto con chi ha il potere.
Due pesi e due misure
Nel giugno del 2004, per esempio, nel corso della campagna per l'elezione del
presidente degli Stati Uniti, l'attuale pontefice, allora prefetto della
Congregazione per la dottrina della fede, in un memorandum riservato in lingua
inglese indirizzato alla conferenza episcopale americana scriveva: "Non
tutte le questioni morali hanno lo stesso peso morale dell'aborto e
dell'eutanasia. Per esempio, se un cattolico fosse in disaccordo col Santo Padre
sull'applicazione della pena capitale o sulla decisione di fare una guerra, egli
non sarebbe da considerarsi per questa ragione indegno di presentarsi a ricevere
la santa comunione. [...] Ci può essere una legittima diversità di opinione
anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull'applicare la pena di morte, non
però in alcun modo riguardo all'aborto e all'eutanasia".
E infatti Benedetto XVI mantiene ottimi rapporti con l’amministrazione Bush,
favorevole alla guerra e alla pena di morte ma contraria all’aborto e
all’eutanasia, tanto che, ricevendo il 12 novembre 2005 il nuovo ambasciatore
degli Stati Uniti presso
la Santa Sede
, gli ha rivolto parole di apprezzamento per la politica americana: ''Confido
che il vostro Paese continui a dimostrare una leadership basata su un deciso
impegno in favore dei valori di libertà, integrità, autodeterminazione, mentre
cooperate con varie istanze internazionali che lavorano per costruire un
consenso autentico e sviluppano un'azione unitaria nei confronti delle
situazioni critiche per il futuro dell'intera famiglia umana''. Per la verità
la leadership morale americana appare oggi a milioni di uomini in tutto il mondo
sempre più compromessa proprio dalle scelte dell’attuale presidente!
Parimenti, in Italia il Vaticano intrattiene relazioni cordiali con influenti
personaggi che, pur dichiarandosi non credenti, possono orientare l’opinione
pubblica e le scelte politiche nella direzione gradita ai difensori dell’etica
tradizionale: saranno magari assolutamente estranei allo spirito evangelico, ma
hanno il merito di elogiare quello vaticano come alto magistero morale. Con tali
atei devoti le gerarchie ecclesiastiche dialogano sempre amabilmente mentre
mostrano scarsa disponibilità nei confronti dei credenti, come quelli che si
riconoscono nel movimento ‘Noi siamo chiesa’, che esprimono delle riserve
sul loro operato.
Ciò che importa è che il parlamento non legalizzi i comportamenti che il
Vaticano giudica contrastanti con la legge naturale. E nell’Esortazione
Apostolica Postsinodale Sacramentum caritatis, del febbraio 2007,
Benedetto XVI indica come valori non negoziabili “il rispetto e la difesa
della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale, la famiglia fondata
sul matrimonio tra uomo e donna, la libertà di educazione dei figli e la
promozione del bene comune in tutte le sue forme”(n 83). Mentre la richiesta
di promuovere il bene comune è abbastanza generica, e quindi lascia ampi
margini di manovra, si dichiara esplicitamente che non sono possibili
compromessi su questioni come l’eutanasia o l’omosessualità.
I cittadini che, a giudizio del Vaticano, hanno comportamenti devianti non
debbono aspettarsi dallo stato il riconoscimento del loro diritto a vivere
seguendo la propria coscienza e, se cattolici, debbono subire sanzioni
ecclesiastiche come, per esempio, l’esclusione dai sacramenti: “Il Sinodo
dei Vescovi - ricorda il papa nello stesso documento - ha confermato la prassi
della Chiesa, fondata sulla Sacra Scrittura (cfr Mc 10,2-12), di non
ammettere ai Sacramenti i divorziati risposati”(n 29). Però, se non si può
annullare il matrimonio e la nuova convivenza appare irreversibile, “
la Chiesa
incoraggia questi fedeli a impegnarsi a vivere la loro relazione secondo le
esigenze della legge di Dio, come amici, come fratello e sorella; così potranno
riaccostarsi alla mensa eucaristica, con le attenzioni previste dalla provata
prassi ecclesiale”(ivi).
È possibile proporre a due persone innamorate di amarsi come fratello e
sorella? La gerarchia ecclesiastica, con sovrano sprezzo del ridicolo, risponde
affermativamente: perchè il nuovo matrimonio si trasformi in una relazione
lecita in fondo si chiede ‘soltanto’ che i due rinuncino ai rapporti
sessuali! Un atteggiamento flessibile nei confronti dei poteri pubblici e
inflessibile nel campo della sfera privata, da regolamentare per legge secondo i
principi della morale naturale proposta dal magistero: finché persevererà su
questa via, il Vaticano manterrà certo il gradimento dei rappresentanti delle
istituzioni, desiderosi a loro volta della benedizione pontificia, ma apparirà
sempre più lontano dal sentire comune degli stessi credenti, nonostante
l’offensiva che Benedetto XVI intende scatenare sul tema della legge naturale
grazie ai tanto attesi contributi della Commissione teologica internazionale.