LA BORGHESIA DEL SALOTTO
BUONO CANCELLATA DAI MEDIA DI REGIME. UN INTERVENTO DEL PROCURATORE DI PALERMO
SCARPINATO
ADISTA n° 12 del 10.2.2007
DOC-1824. PALERMO-ADISTA. "I media di regime hanno fatto
credere all'opinione pubblica che in Sicilia esisteva un unico grande demiurgo
del male, un unico grande tessitore di illegalità, un'unica causa di
sottosviluppo: il genio del male Bernardo Provenzano". Ma la realtà è
molto diversa. A spiegarlo è il procuratore aggiunto di Palermo Roberto
Scarpinato, che in questo intervento (pronunciato in un convegno all'Università
di Palermo organizzato il 17 luglio 2006 dal periodico "AntimafiaDuemila"
- che ha pubblicato la relazione nei numeri 4 e 5/2006 - e dalla Facoltà di
Lettere e Filosofia) descrive il rapporto strettissimo tra "mafia militare
e popolare" e "borghesia mafiosa". L'occultamento, operato dai
media, di questo rapporto è finalizzato ad ottenere un effetto preciso: la
persuasione che "dopo l'arresto di Provenzano e dei suoi accoliti
finalmente tutti i problemi sono risolti e dunque la mafia non c'è più o è
divenuta un problema locale, con conseguente futuro spegnersi dei riflettori
nazionali e con prossima smobilitazione delle risorse per le forze di polizia,
per la magistratura, ecc.".
Il "sistema mafioso", invece, lungi dall'essere sconfitto, si sta oggi
‘nazionalizzando': se si considera che esso si fonda proprio "sul
prevalere del sistema personale su quello impersonale della norma, sul prevalere
dell'interesse personale del clan su quello politico, sulla cultura
dell'obbedienza e della sottomissione ai capi, si comprende quale sia il motivo
strutturale e sistematico del proliferare del metodo mafioso in campo nazionale
come profetizzato da Sciascia, Pasolini, Tranfaglia ed altri".
Pubblichiamo di seguito la relazione di Scarpinato.
MAFIA MEDIATICA, MAFIA BORGHESE
Bernardo Provenzano: un utile genio del male
A prestar fede ai media nazionali sembrerebbe che dopo l'arresto di Provenzano
il problema della mafia sia stato felicemente risolto o che comunque si avvii ad
una soluzione. Anche alcuni magistrati che godono di grossa audience presso i
media si sono spinti ad affermare che la mafia è in ginocchio, forse perché
suggestionati dalla grancassa dei media e da simili dichiarazioni di autorevoli
parlamentari che in anticipo hanno affermato che ormai il problema della mafia
non è più una questione nazionale bensì regionale. A prestare fede a tutti
costoro sembrerebbe che tra poco ai forestieri che giungono per la prima volta a
Palermo e chiedono notizie sulla città potremo rispondere in coro come nel film
di Benigni Johnny Stecchino: "A Palermo, cari signori, esiste un grave
problema: il traffico". Battute a parte, non credo che la realtà sia così.
Chi vive a Palermo nella dura trincea della quotidianità è costretto a
sperimentare sulla propria pelle come la realtà sia sideralmente lontana da
quella edulcorata e virtuale ammannita dai media di regime. È costretto a
sperimentare come Palermo, metafora della Sicilia e sempre più del sistema
Italia, si sia riappropriata della propria profonda identità, un'identità che
forse più che dalla mafia è stata violentata dall'antimafia della stagione
della procura di Gian Carlo Caselli e sia tornata ad essere il popolo delle tribù,
delle lobby, dei clan, del clientelismo, del nepotismo, terreno di coltura di
tutte le mafie. È costretto a sperimentare come questo sia ancora un luogo dove
non esiste uno statuto della cittadinanza, ma solo quello del suddito e del
cliente e dove, se non fai parte della casta dei potenti e se non hai santi in
paradiso, i tuoi diritti restano sulla carta e vivere è molto difficile, a
volte può diventare un inferno e ti trovi ad un passo dalla morte. Dico
"ad un passo dalla morte" perché questa è una città dove la
malasanità, figlia della mafia bianca e della malapolitica, semina 40 morti in
un solo anno. Sono cifre da capogiro, da Terzo mondo. Questo è un luogo dove se
non hai buone entrature personali nel mondo della sanità il miglior medico
resta l'Alitalia, cioè prendi l'aereo e vai a curarti nell'Italia civile. Una
città dove, per quanto riguarda la nomina dei dirigenti, la distribuzione delle
risorse pubbliche, imperano il clientelismo, il nepotismo, la spartizione
lottizzatoria senza nessun rispetto della meritocrazia e dell'interesse
pubblico, cosicché chi si ostina a restare con la schiena dritta e non si
rassegna a vendere l'anima a qualche padrino politico-mafioso è costretto a
restare ai margini. Una città dove non ha senso parlare di lavoro libero e
dignitoso, perché costituisce una drammatica realtà di massa quella di
migliaia di lavoratori del settore terziario e dell'edilizia che pur di non
essere licenziati accettano di non avere il versamento dei contributi o
accettano il decurtamento sottobanco della busta paga fino al 40%. Una città
nella quale moltissime imprese restano sul mercato grazie all'evasione fiscale,
al mancato pagamento dei contributi ai dipendenti, al sottopagamento, alla
sistematica violazione delle norme antinfortunistiche che determinano ogni anno
morti, incidenti sul lavoro che non vengono quasi mai denunciati dai lavoratori
perché altrimenti questi verrebbero definiti rompiscatole o inaffidabili e
sarebbero emarginati dal mondo del lavoro. Una città nella quale molte altre
imprese ingrassano non grazie al rispetto delle regole del mercato, ma grazie
alla costruzione di veri e propri oligopoli di settori protetti da potentati
politici e mafiosi. Una città nella quale chi vuole fare impresa liberamente
deve misurarsi con queste e con mille altre difficoltà e spesso, se ha bisogno
di finanziamenti pubblici, di autorizzazioni, si trova dinanzi alla drammatica
scelta di dover rinunciare o di piegare la testa e infeudarsi a qualche tribù
politica alla quale giurare eterna fedeltà. Una città nella quale il divario
tra poveri e ricchi cresce vertiginosamente. Mentre nel centro cittadino le
borse di Louis Vitton da due mila euro si vendono come il pane, in quartieri
degradati come lo Zen, abbandonati al proprio destino, cresce in modo
vertiginoso il numero dei disperati che pur di sfuggire a un destino infame e
pur di non tirare la carretta per quattro lire senza dignità sono disposti a
tutto. Eppure, a fronte di tutto ciò e di molto altro a cui non è possibile
fare cenno altrimenti passiamo la serata ad inventariare le illegalità di massa
che tempestano questa città, i media di regime hanno fatto credere all'opinione
pubblica che in Sicilia esisteva un unico grande demiurgo del male, un unico
grande tessitore di illegalità, un'unica causa di sottosviluppo: il genio del
male Bernardo Provenzano ed i suoi accoliti. Non vi è stato nessun affare
sporco in questi ultimi anni, dalla malasanità alla manipolazione degli
appalti, dalle nomine truccate dei primari, ai manager del settore pubblico
dietro il quale non si sia fatto aleggiare il fantasma del genio del male
Bernardo Provenzano. Da qui l'epopea mediatica provenzaniana in un susseguirsi
ossessivo di servizi televisivi e giornalistici sulla dieta di Provenzano a base
di ricotta, di miele, di cicoria, sulla prostata di Provenzano, sulla sua
cicatrice al collo e via discorrendo. Da qui l'ovvia equazione mediatica che
dopo l'arresto di Provenzano e dei suoi accoliti finalmente tutti i problemi
sono risolti e dunque la mafia non c'è più o è divenuta un problema locale,
con conseguente futuro spegnersi dei riflettori nazionali e con prossima
smobilitazione delle risorse per le forze di polizia, per la magistratura, ecc.
La censura dei media di Regime
Per comprendere come sia stato possibile ordire questa colossale truffa
culturale che trae in inganno l'opinio-ne pubblica nazionale e persino alcuni
operatori culturali in buona fede occorre riflettere che il sapere, e in
particolare il sapere sulla mafia, non è mai stato innocente o neutrale. Il
sistema mediatico e culturale che crea l'oggetto mafia, che crea cioè la
percezione collettiva della mafia, non è un mondo a parte, ma rispecchia al suo
interno gli stessi rapporti di potere che esistono nel mondo politico della
società. La strategia da sempre adottata da questo sistema di potere, divenuta
particolarmente raffinata in questi ultimi anni, è stata quella di puntare
tutti i riflettori su Provenzano facendolo divenire una icona mediatica
polarizzante che ha consentito di oscurare tutto il resto. Con l'espressione
"tutto il resto" intendo il rinnovato ruolo egemonico assunto dalla
borghesia mafiosa tornata ad essere oggi, dopo il decennio della parentesi
corleonese, quella che è sempre stata nella storia della mafia: cioè
l'architrave portante del sistema di potere mafioso.
A proposito dell'oscuramento, per anni Rai e televisioni private hanno operato
una censura sistematica su tutte le vicende criminali che riguardano la
borghesia mafiosa. Faccio soltanto alcuni esempi. Se oggi provate a chiedere ad
un cittadino di Bologna o di Padova o di Roma che fine ha fatto il processo
Andreotti, nove volte su dieci vi sentirete rispondere che Andreotti è stato
assolto con formula piena. E quando questo cittadino apprenderà che invece con
sentenza definitiva è stato accertato che Andreotti ha avuto rapporti organici
con la mafia fino al 1980 ed ha partecipato a riunioni con capimafia in Sicilia
in cui si discuteva dell'omicidio del presidente della Regione Piersanti
Mattarella ti guarderà incredulo ed allibito.
Come si è potuto verificare questo capolavoro di disinformazione di massa? Mi
soffermo su questo aspetto perché costituisce un prototipo della
disinformazione di regime. Tutte le udienze del processo Andreotti sono state
riprese dalle telecamere. Il presidente del Tribunale, all'inizio del processo,
per evitare che l'aula dell'udienza si trasformasse in un accampamento occupato
da decine e decine di operatori di televisioni di tutto il mondo ha autorizzato
soltanto le riprese televisive della Rai imponendo però l'obbligo alla Rai di
cedere le riprese anche alle altre televisioni private. Ebbene, al termine del
processo è stato impedito che una puntata della famosa trasmissione Rai Un
processo in pretura venisse dedicata al processo Andreotti. Così gli italiani
hanno potuto vedere numerose puntate di questa trasmissione dedicate a delitti
passionali, a rapine, a stupri, ma è stato loro negato di vedere una sintesi di
quello che è stato definito il processo del secolo.
La televisione tedesca ha chiesto alla Rai nazionale una copia delle riprese
televisive dietro pagamento. La Rai ha negato l'autorizzazione.
Bruno Vespa ha dedicato una puntata trionfale della sua trasmissione Porta a
porta all'assoluzione di Andreotti in primo grado. Quando però Andreotti in
secondo grado ed in Cassazione è stato riconosciuto colluso con la mafia fino
al 1980, Vespa ha dedicato due puntate a Padre Pio e alla vertiginosa crescita
del prezzo degli ortaggi in Italia. La stessa cosa Vespa ha fatto quando
Marcello Dell'Utri è stato condannato in primo grado a 9 anni per concorso
esterno con la mafia. Quella sera la puntata è stata dedicata, se non ricordo
male, alla sessualità dei cinquantenni. Lo storico Nicola Tranfaglia ha
raccontato le gravissime difficoltà che ha dovuto superare per trovare un
editore che gli pubblicasse un libro sul processo Andreotti. L'attrice Piera
Degli Esposti ha affermato che a seguito di fortissime pressioni ha dovuto
rinunciare a mettere in scena lo spettacolo teatrale sul processo Andreotti.
Certamente tutti ricorderete le polemiche sorte dopo la trasmissione Report. Il
servizio di Mariagrazia Mazzola spiegava come in Sicilia il pagamento del pizzo
fosse un fenomeno di massa. Nell'arco di una settima è stata imbastita una
trasmissione definita di riparazione, nel corso della quale sono stati
intervistati alcuni imprenditori che hanno dichiarato di non essere mai stati a
contatto con la mafia. Il caso ha voluto che 15 giorni dopo la Procura di
Caltanissetta, nel corso di un'indagine sulla mafia, abbia accertato che questi
imprenditori erano coinvolti nel pagamento di tangenti. Ricordiamo anche la
censura della Rai sulla trasmissione di Lucarelli dedicata ai mandanti delle
stragi e la recente censura operata sulla fiction di Falcone.
Questi sono soltanto alcuni degli episodi più noti. Ma i giornalisti che
lavorano in Rai raccontano, in camera caritatis, come vivono sulla propria pelle
la censura quotidiana sulle notizie di mafia che riguardano la mafia politica e
i colletti bianchi; una censura che si esplica certe volte nel tagliare i
servizi, altre volte nell'edulcorarli, altre volte ancora nel mandarli in onda
soltanto a tarda notte. A dimostrazione di come il sistema mediatico e culturale
italiano riproduca al suo interno gli stessi rapporti di forza del sistema
politico, ricordo che l'ultima relazione della Commissione Parlamentare
Antimafia approvata dalla maggioranza di centro destra sia giunta al punto di
negare di fatto il carattere strutturale del rapporto mafia-politica,
riducendolo ad una situazione transitoria (leggo testualmente) "legata a
condizioni di incultura, di scarsa mobilitazione, a tensioni sociali e a momenti
di crisi morale ed economica".
Questa sistematica censura sul versante della mafia borghese da parte dei media
di regime fa esatto pendant con l'informazione a senso unico sulla mafia
militare e con l'ininterrotto spot su Provenzano elevato a simbolo totalizzante
della mafia. Il culmine di questa strategia è stata a mio parere la
trasmissione dedicata da Rai 2 alla cattura di Provenzano avvenuta all'interno
del covo di Montagna dei Cavalli. Non so se l'avete vista. Torno a casa, accendo
la televisione ed ho l'impressione che abbiano montato un set televisivo che
riproduce il covo. Penso che sia di pessimo gusto. Quando si allarga la
panoramica non posso credere ai miei occhi. Era proprio il covo di Provenzano!
Da una parte si vedevano agenti della polizia scientifica in tuta bianca che
cercavano di rilevare le impronte, dall'altra parte una torma di giornalisti ed
operatori che toccavano qualsiasi cosa. Le telecamere indugiavano ossessivamente
su ciotole sporche di ricotta e sulle masserizie contadine del covo di
Provenzano. Il messaggio culturale era esplicito ed univoco: avete visto che
cos'è la mafia? Una storia di bassa macelleria criminale e di ex pastori come
Provenzano che vivono in casolari come questi che puzzano ancora di stallatico.
Messaggio rilanciato alla grande nei giorni successivi. Nella trasmissione di La
7 Otto e mezzo condotta da Giuliano Ferrara i vari intervenuti passavano il
tempo a ridacchiare, a darsi di gomito, facendo del sarcasmo su tutti i
magistrati che avevano invece sostenuto in questi anni i teoremi secondo cui la
mafia è una storia che riguarda i colletti bianchi.
Borghesia mafiosa e borghesia nazionale di Regime
Alla luce di questa premessa è chiaro che affrontare il problema del futuro
della mafia partendo dalla cattura di Provenzano e con riguardo solo per gli
equilibri interni della mafia militare e popolare significa cadere nella
trappola culturale ordita dagli apparati di regime. Significa abboccare all'amo
degli strateghi della disinformazione realizzata con l'informazione a senso
ossessivamente unico. Resto convinto che il futuro del sistema del potere
mafioso non si gioca intorno al destino di un Provenzano oggi, di un Riina ieri,
di un Luciano Liggio l'altro ieri. Chi conosce la storia di questo Paese sa che
il presente ed il futuro della mafia, oggi come ieri, si gioca piuttosto
sull'evoluzione interna della borghesia mafiosa, una delle componenti
strutturali della borghesia nazionale di regime. Chi conosce la storia con la S
maiuscola di questo Paese sa che quella della mafia non è solo storia di bassa
macelleria giudiziaria, ma è anche e soprattutto la storia di settori di una
classe dirigente delle più violente d'Europa che dall'Unità d'Italia ad oggi
ha usato la violenza mafiosa per bloccare i processi di rinnovamento politico
che mettevano a rischio il sistema di potere basato su privilegi e
sull'ingiustizia sociale. È la borghesia mafiosa che nell'immediato dopoguerra
ordina la strage di Portella della Ginestra dopo che le sinistre avevano vinto
le elezioni regionali nel 1947. Ed è la borghesia nazionale di regime, di cui
la borghesia mafiosa è componente, che copre poi i mandanti politici a livello
nazionale. Quella strage e le decine di omicidi di sindacalisti del mondo
politico e contadino chiusero per sempre una stagione politica, condannando il
movimento contadino ad un arretramento e inaugurando il centrismo a Roma come a
Palermo.
Da allora le sinistre non vinceranno più le elezioni e saranno condannate a
restare una forza minoritaria oscillando tra opposizione e compromesso. Quando
circa 30 anni dopo Piersanti Mattarella sulle orme di Moro tenterà di aprire le
porte del governo alla sinistra ancora una volta la borghesia mafiosa sarà
protagonista di un omicidio politico-mafioso che chiuderà per sempre in campo
nazionale la stagione dei governi di solidarietà nazionale.
Il processo Andreotti ha fotografato e consegnato alla storia questa vicenda
drammatica. Le riunioni nelle quali si è discusso dell'omicidio Mattarella e
alle quali partecipano i capi della mafia militare, i massimi esponenti della
borghesia mafiosa del tempo, Lima e i cugini Salvo e il simbolo vivente del
potere politico nazionale Giulio Andreotti non sono soltanto un capitolo
importante di una vicenda processuale, ma sono il fotogramma riassuntivo e
simbolico di un'intera storia nazionale. Se vogliamo capire che cos'è stata la
mafia, che cos'è oggi e che cosa sarà domani dobbiamo mettere da parte le
ricotte e le prostate di Provenzano propinateci dagli apparati culturali di
regime e inaugurare una riflessione, un dibattito nazionale serio su questa ed
altre vicende. Dovrebbe essere chiaro a tutti che dai vari Provenzano di oggi e
di ieri avremmo potuto liberarci da più di un secolo se tutti costoro non
avessero goduto a Palermo come a Roma della protezione dei vertici del potere
regionale e nazionale. (…)
Da Calciopoli ai furbetti del quartierino: Sicilia docet
Quello che è grave è che Sicilia docet. Le vicende giudiziarie di questi
ultimi anni in campo nazionale, da Calciopoli alla bancopoli dei furbetti del
quartierino, dal Savoia-gate al caso Parmalat, dalla recente tangentopoli
pugliese al caso Sismi, disegnano i contorni di una Italia in cui ampi settori
della classe dirigente sono agglutinati in una costellazione di associazione a
delinquere che mutuano almeno in parte il metodo mafioso per operare scelte
bancarie, conquistare settori di mercato, acquisire il controllo degli appalti,
ottenere illecitamente i finanziamenti pubblici per liberarsi degli avversari
politici. Associazione a delinquere che a volte sembra far parte di una più
vasta rete.
Il metodo mafioso a volte emerge chiaramente. A proposito di una recente
indagine che ha portato alla richiesta di arresto per concussione dell'ex
presidente della Puglia, il procuratore aggiunto di Bari ha testualmente
dichiarato: "Abbiamo trovato un modo di amministrare paragonabile
all'organizzazione di una cupola destinata a privilegiare l'interesse privato di
pochi". In altri casi il metodo mafioso traspare a piene mani dalla lettura
delle trascrizioni di intercettazioni dove personaggi che tengono le fila degli
illeciti sono in grado di condizionare interi settori grazie al potere di
intimidazione che deriva loro dal far parte di importanti lobby di potere. Si
realizza così che il problema mafia sia divenuto nazionale contrariamente a
quanti ne sostengono invece la sua regionalizzazione. Si realizza la previsione
sciasciana secondo cui ogni anno che passa la palma sale verso il nord. Lo
stesso Sciascia nello spiegare il senso del romanzo Il contesto, nel quale
denunciava la "mafiosizzazione" strisciante della società italiana,
così descriveva l'Italia: "Un Paese dove non avevano più corso le idee,
dove i principi ancora proclamati e conclamati venivano quotidianamente irrisi,
dove le ideologie si riducevano in politica a pure denominazioni nel gioco delle
parti che il potere si assegnava, dove soltanto il potere per il potere contava.
Possono essere siciliani e italiani la luce, il colore, gli accidenti, i
dettagli; ma la sostanza vuol essere quella di un apologo sul potere, sul potere
che sempre più degrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che
approssimativamente possiamo definire mafiosa". (…)
Il pericolo di una "democrazia mafiosa"
Nel mondo della politica, grazie alla riforma elettorale e al diniego assoluto
anche da parte del centro-sinistra nelle primarie, tutto il potere è stato
concentrato nelle mani di poche oligarchie di partito, di vertici di partito.
Una decina di persone in tutto il Parlamento formano la lista al di fuori di
qualsiasi processo democratico e decidono così autonomamente chi debba essere
eletto. Mario Pirani ha scritto a questo proposito che siamo tornati ai tempi
delle monarchie ottocentesche nelle quali la nomina del Parlamento veniva
graziosamente concessa dal sovrano. Nel mondo del lavoro grazie alla legge Biagi
si è avuta una vera e propria istituzionalizzazione del caporalato. Nel mondo
della magistratura tutto il potere è stato concentrato nelle mani di 26
procuratori della Repubblica, piccoli Cesari che sono divenuti gli unici
titolari del potere penale. La fascistizzazione e la feudalizzazione dello Stato
della società civile ha posto le premesse per la creazione della società
dell'obbedienza, per la costruzione di una società in cui l'asse sociale ruota
intorno al rapporto padrone-cliente, sovrano-suddito. Se si considera che il
sistema mafioso si fonda proprio su questa logica, sul prevalere del potere
personale su quello impersonale della norma, sul prevalere dell'interesse
personale del clan su quello pubblico, sulla cultura dell'obbedienza e della
sottomissione ai capi si comprende quale sia il motivo strutturale e sistemico
del proliferare del metodo mafioso in campo nazionale come profetizzato da
Sciascia, Pasolini, Tranfaglia ed altri.
Alla luce di queste premesse mi pare evidente che oggi come ieri il futuro
dell'antimafia non si gioca a Palermo ma a Roma. Le politiche criminali e
l'azione giudiziaria, quando devono misurarsi con fenomeni criminali come la
mafia che hanno un profondo radicamento sociale e macropolitico, possono
incidere soltanto sugli effetti e non sulle cause. Oggi più che mai a fronte
della deriva autoritaria e feudale del sistema politico italiano non è
possibile, secondo me, nemmeno immaginare una strategia antimafia se prima non
si ripristinano condizioni di agibilità democratica. Questa agibilità
democratica passa attraverso una sistematica "demafiosizzazione" del
sistema politico, culturale italiano. (Uso questo termine, "demafiosizzazione",
nell'accezione di Sciascia e di Tranfaglia). O se si preferisce attraverso la
sistematica eliminazione di tutte le tossine introdotte nell'ordinamento in
questi anni. Le tossine della istituzionalizzazione del conflitto di interessi,
quelle della legalizzazione della illegalità della classe dirigente, della
confisca della sovranità popolare, della creazione di un diritto diseguale,
della feudalizzazione del tessuto istituzionale, dell'imbavagliamento della
libera informazione, della precarizzazione del rapporto di lavoro, della
sostituzione del potere personale dei capi al primato della lobby impersonale e
generale, della sottoposizione della magistratura al controllo obliquo della
politica, della legittimazione culturale della corruzione e dei rapporti della
mafia e politica mediante la candidatura e l'elezione di soggetti inquisiti e
condannati per corruzione e mafia. Se queste tossine non saranno prontamente
eliminate dall'ordinamento, dal tessuto istituzionale italiano il metodo mafioso
è destinato a mio parere a divenire sempre più una componente strutturale
della politica e della società italiana e potremo felicemente avviarci verso
quella che alcuni analisti politici definiscono una "democrazia
mafiosa".
Sembra un ossimoro, ma non lo è. I consigli comunali sciolti per mafia sono un
esempio di "democrazia mafiosa". In fondo, se il piduismo tanto
deprecato negli anni ‘80 si è fatto Stato, se ciò che fino a 10 anni fa
sembrava fantapolitica è diventato realtà e ci siamo ormai abituati a
conviverci perché non dovremo assuefarci anche ad una borghesia mafiosa? In
questo ipotetico scenario futuro forse potrebbe anche avvenire che tra qualche
anno il tanto deprecato Provenzano rivendichi di essere riabilitato come uno che
veniva da lontano e guardava lontano e quindi come uno dei padri fondatori della
nuova costituzione materiale del Paese.