NELLE SEGRETE DELL'OPUS DEI. IN UN LIBRO TESTIMONIANZE DI FUORIUSCITI
DOC-1821. ROMA-ADISTA. Oltre 85mila membri in
tutto il mondo, di cui quasi 20mila numerari (cioè laici che fanno i voti di
povertà, castità e obbedienza); 1.850 sacerdoti, 2 cardinali (uno dei quali,
Julián Herranz, è il presidente del Pontificio Consiglio per l'interpretazione
dei testi legislativi) e 41 vescovi, la maggior parte dei quali in America
Latina; 15 università con circa 80mila iscritti, 11 scuole di gestione
aziendale con 10mila allievi, 130 fra scuole elementari, medie, superiori e
centri di formazione professionale con quasi 40mila studenti: sono i numeri
dell'Opus Dei, l'organizzazione fondata in Spagna nel 1928 da Josemaría Escrivá
(canonizzato a tempo di record nel 2002 da Giovanni Paolo II) ed elevata a
Prelatura personale del papa – caso tuttora unico nel mondo cattolico –
dallo stesso Wojtyla.
Sull'Opus Dei sono appena usciti due libri, molto diversi fra loro: un'indagine
di John Allen, vaticanista del "National Catholic Reporter", che
traccia la storia e passa in rassegna i caratteri originali e gli aspetti
fondamentali della "forza più controversa nella Chiesa cattolica" (Opus
Dei. La vera storia, Newton Compton, Roma, 2006, pp. 364, euro 14,90), e una
raccolta di testimonianze inedite, curata da Ferruccio Pinotti, di numerari
fuorisciti dall'Opus Dei (Opus Dei segreta, Bur, Milano, 2006, pp. 476, euro
11,50).
Quella di Allen, per ammissione dello stesso autore, è un'inchiesta sull'Opus
Dei semi-autorizzata dai suoi stessi dirigenti: "l'organizzazione mi ha
concesso un accesso privilegiato di cui non ha usufruito prima nessun altro
giornalista", scrive Allen nell'introduzione, "la collaborazione"
è stata "totale". E infatti il libro, ricco di dati e di
informazioni, più che a raccontare i "segreti" dell'organizzazione
sembra tendere a giustificare gli aspetti maggiormente controversi dell'Opus –
dalla finanza alla segretezza, dal ruolo all'interno della Chiesa alle tecniche
di reclutamento di nuovi adepti –, andando ad evidenziare le eccezioni
positive e operando continui confronti – che spesso appaiono accostamenti
impropri – con altre congregazioni religiose, prima fra tutti la Compagnia di
Gesù, storica avversaria dell'Opus.
È l'Opus Dei visto dal di dentro quello che invece emerge dal libro di
testimonianze raccolte da Pinotti in cui 16 numerari e numerarie di tutto il
mondo usciti dall'Opus Dei negli ultimi vent'anni svelano senza reticenze i loro
vissuti all'interno dell'organizzazione: il reclutamento, la pressione
psicologica, il lavoro, la vita spirituale, le mortificazioni corporali, i
rapporti con le famiglie, la repressione sessuale, la gestione del denaro. In
appendice viene pubblicato un documento ad uso interno: la Guida bibliografica,
cioè una sorta di Indice dei libri proibiti a cui devono attenersi tutti i
membri dell'Opus. Un elenco di 60.541 volumi, dai classici ai contemporanei,
classificati in diversi gradi fruibilità: libri che possono essere letti da
tutti; libri che, per essere letti, richiedono un discreto tasso di formazione
morale e dottrinale; libri che richiedono il permesso del direttore spirituale;
libri proibiti, o che possono essere letti solo con il permesso speciale del
Prelato (cioè il capo della prelatura, al momento mons. Javier Echevarría). E
fra questi ultimi ci sono le opere di Vittorio Alfieri, Honoré De Balzac,
Leonardo Boff, Dietrich Bonhoeffer, Bertolt Brecht, Cartesio, Gabriel García Márquez,
Hans Küng, Blaise Pascal, Pier Paolo Pasolini, Cesare Pavese, Sergio Quinzio,
Jean-Jacques Rousseau, Leonardo Sciascia, Stendhal, Giancarlo Zizola, Emile Zola
e di molti altri, fra cui diversi ‘insospettabili'.
Pubblichiamo di seguito una parte di una delle testimonianze presenti nel libro:
quella dell'ex numeraria Amina Mazzali (una delle tre donne italiane che
raccontano la loro storia) che, fra le altre cose, narra del suo colloquio di
‘ammissione' svolto con la numeraria Paola Binetti, ora deputata della
Margherita e fondatrice, insieme all'ex presidente della Acli Luigi Bobba, del
gruppo dei teo-dem.
A QUINDICI ANNI NELL'OPUS DEI
(…) Al termine delle scuole medie, Amina e i
suoi genitori si sono posti il problema di dove proseguire le superiori: Milano,
se non si appartiene alla classe del privilegio, non è una città facile; e
scegliere un ambiente tranquillo e protetto è ritenuto da alcuni una garanzia
per non incorrere nei pericoli della droga o in strane frequentazioni.
Amina racconta che fu un cugino a segnalarle un istituto appartenente - ma
questo ‘dettaglio' lo capi molto dopo - alla galassia delle scuole create
dall'Opus Dei a Milano e nel resto d'Italia, attraverso la Faes (le scuole Faes
– Famiglia & Scuola – fanno capo a un'associazione di genitori, per lo
più sopranumerari dell'Opus Dei, che gestisce scuole in diverse città
italiane, ndr). Le disse che era una scuola speciale e molto buona, che poteva
frequentare corsi extra in tante materie interessanti, ricevere una formazione
personalizzata. Certo, essendo una scuola privata c'era da pagare una retta; ma
la famiglia avrebbe sopportato volentieri il sacrificio, pur di dare il meglio
ad Amina e a suo fratello.
Prima di essere ammessi all'istituto, era necessario un colloquio per stabilire
le attitudini e le propensioni alla scelta del liceo. Amina sostenne l'‘esame'
con una numeraria dell'Opus Dei, Paola Binetti, una psichiatra che in seguito
sarebbe divenuta famosa come presidente del Comitato Scienza e Vita, poi eletta
deputato nelle liste della Margherita alle elezioni politiche dell'aprile 2006.
Già quel primo incontro ebbe un carattere strano, inatteso. "Ero
determinata, al termine delle medie, a iscrivermi al liceo scientifico, avevo già
fatto la pre-iscrizione all'Istituto Gonzaga di Milano. Ma in quell'incontro
Paola Binetti mi esaltò i vantaggi di un'educazione classica e mi fece il
panegirico di quella scuola, con tutte le attività formative complementari che
mi offriva. (...) Aveva una capacità di persuasione e di influenza psicologica
davvero incredibili. Alla fine mi convinse e mi iscrissi al classico. Fu così
convincente che uscii dal colloquio con una idea ben chiara: sarei stata
disposta a fare il classico pur di frequentare una scuola così speciale. Sapevo
che le classi non erano miste, come alle medie che avevo frequentato, ma
solamente femminili, ma al momento non vi diedi peso perché le innumerevoli
qualità di quella scuola così come mi erano state illustrate valevano bene
quel sacrificio. Anche le insegnanti erano solo donne. Le ragazzine delle
elementari e delle medie portavano una divisa con una gonna kilt, fino all'anno
prima era obbligatorio anche per quelle del liceo, una cosa piuttosto
inusuale". (...)
Lentamente, attorno ad Amina si dispiega il meccanismo del coinvolgimento
inconsapevole con il quale l'Opus Dei recluta le sue nuove leve, per la maggior
parte in età adolescenziale. Una tecnica collaudata, formalizzata nei dettagli.
"Alcune compagne di scuola mi spiegarono che, parallelamente alla scuola,
c'erano dei club femminili, che potevo frequentare insieme a loro. Così ho
iniziato ad andare, a frequentare quegli incontri". L'impatto iniziale fu
positivo, incoraggiante. (…) Ad Amina viene pian piano fatto capire che ha di
fronte un'opportunità splendida, quella di entrare in un mondo sconosciuto, ma
ricco di possibilità: l'Opus Dei. Non le viene spiegato, tuttavia, cosa
significhi la vita da numeraria, l'impegno al celibato apostolico cui ci si
obbliga per tutta la vita. Né gli enormi sacrifici che dovrà affrontare, o il
lavoro di apostolato ovvero il ‘reclutamento' delle nuove leve, che sarà
tenuta a compiere per il resto della sua vita. Non le viene nemmeno prospettato
un percorso futuro diverso, come soprannumeraria, quindi con la possibilità di
costruirsi una famiglia propria. Quello che le viene proposto è un ‘mondo',
la chance di ‘innamorarsi' di un ideale più grande di tutto. Tutto questo
viene promosso con affetto, tenerezza, attenzioni, iniezioni di autostima.
L'età nella quale ad Amina viene prospettata l'entrata nell'Opus Dei è quella
dei grandi turbamenti, dello sconvolgimento del corpo, della percezione
affettiva alterata. "Hanno iniziato a propormi di entrare nell'Opus Dei
quando avevo quindici anni, era il 1985. E non ero nemmeno la più giovane.
Quando mi hanno contattato una mia compagna di classe, della stessa età, era già
dell'Opera da un po' di tempo. Non è così infrequente che si provochi la
‘crisi vocazionale' a ragazzi così giovani. In realtà anche a me in seguito
e capitato di parlare di vocazione a ragazze molto giovani, anche di tredici
anni, e questo non è affatto scoraggiato dai direttori, anzi. Ti viene spiegato
in mille occasioni e mille modi che offrire la possibilità di donare la vita a
Dio nell'Opus Dei è il favore più grande che puoi fare loro, perché questo è
un privilegio che pochi hanno, e dona la felicità più grande. Nessuno di noi
aveva la percezione che stava forzando delle coscienze ancora deboli e immature:
pensavamo di fare il loro bene. Questo è quello che ci insegnavano e che è
anche scritto nelle pubblicazioni interne. È questa la cosa terribile, sei
profondamente convinta di fare il bene delle persone e invece le stai
manipolando, stai causando loro dei danni nella coscienza e nello sviluppo
psicologico, che magari pagheranno per lungo tempo in termini di sofferenze
interiori, squilibri, disadattamento sociale". (…)
"La prima volta che mi proposero di entrare nell'Opus Dei lo fecero
attraverso questa mia amica e compagna di classe, mia coetanea e già
dell'Opera, in un'occasione particolare: si teneva la novena dell'Immacolata nel
Duomo di Milano, c'era una certa atmosfera, molto speciale. Incaricarono lei
perché ovviamente fa più effetto che te ne parli una della tua età che già
ha fatto il grande salto. Mi disse: ‘Hai mai pensato alla vocazione? Alla
possibilità di donare tutta la tua vita a Dio e diventare numeraria dell'Opus
Dei?'. All'inizio sono caduta dalle nuvole, le ho detto di no, allora lei ha
insistito un po' e mi ha detto: ‘Se vuoi, puoi parlarne con la tutor'. Io
all'epoca ero molto aperta, ingenua, senza pregiudizi; per cui ho risposto:
‘Va bene parliamone, tanto cosa ci perdo?'. La tutor era una ragazza più
grande, molto intelligente, un'universitaria che era la leader del club dove
andavo io ogni tanto. Una persona molto sveglia, con una forte personalità. Una
giovane donna che sembrava aver provato la vita, e che dava l'idea di aver
rinunciato a un'esistenza ‘normale' per qualcosa di più grande, per una
missione. Il suo esempio mi fece molta impressione. Mi hanno conquistato così,
parlandomi della missione in termini di coraggio, di una scelta di vita forte.
L'esperienza in parrocchia e poi dalle Orsoline mi aveva instillato un iniziale
senso della fede. Già lì c'erano stati degli incontri, dei ritiri. Avevo una
fede molto sincera, molto pulita". (…)
"L'approccio dell'Opus Dei faceva leva su una personalità, la mia, ancora
non formata. Accettavo con grande fiducia quello che mi arrivava dai ‘grandi',
dalle altre studentesse più anziane di me e dai miei genitori, come qualcosa di
illuminante. Ero sempre stata attorniata da persone che mi volevano bene e che
utilizzavano la loro esperienza per darmi buoni consigli, consigli
disinteressati, solo per aiutarmi. Ero abituata a fidarmi di loro e quindi
affrontavo ogni orientamento che proveniva dagli adulti con poco spirito
critico. Ero come una spugna che assorbe. Non avevo assolutamente coscienza
allora di cosa fosse davvero l'Opera o la vita da numeraria; ciò che avevo era
un'idea estremamente vaga e affascinante: dedicare la mia vita a una missione. Sì,
è vero che loro, in teoria, mi dissero ‘Devi essere pronta a dare tutto', però
un conto è dire una frase generica a un'adolescente piena di ideali romantici,
un altro conto poi è arrivare al concreto, spiegare cosa significa. Avevo
capito solo che avrei continuato a studiare e poi a lavorare, dedicando tutto il
resto del mio tempo all'Opus Dei. Sì, certo, c'era il discorso del non
sposarsi; ma a quell'età, a quindici anni, rinunciarci non ti pare un
sacrificio, bensì una scelta eroica. Oltre a questo, sapevo che bisognava
andare ad abitare in un Centro dell'Opus Dei, frequentando nel contempo
l'università. Punto. Non sapevo nient'altro".
(…) "E a diciassette anni ho presentato la domanda di ammissione all'Opus
Dei. Ricordo che erano tutte contente, le ragazze dell'Opera che frequentavo.
Scrissi la lettera indirizzata al Padre, don Alvaro del Portillo. Questa domanda
la si scrive come se si scrivesse una lettera a un vero padre, con parole
d'affetto e di fiducia. Dai quattordici ai sedici anni e mezzo la lettera va
scritta al Vicario Regionale. Ma dai diciassette anni in poi io ero a tutti gli
effetti numeraria, vivevo come una numeraria". Amina, pur non risiedendo in
una ‘casa' dell'Opus Dei, inizia presto a capire quali sono i rituali che
contrassegnano la vita dei fedeli laici nell'Opera: sveglia alle 6 del mattino,
baciare il pavimento, una preghiera di offerta della giornata alla Madonna - il
Serviam -, pulizie di casa, orazione, Messa, studio, due ore di cilicio,
apostolato, reclutamento di possibili nuove numerarie, confessione una volta
alla settimana, altre orazioni, lettura di un libro di spiritualità, esame di
coscienza e a letto presto, in modo da dormire sette ore e mezzo o otto.
(…) I genitori di Amina erano totalmente all'oscuro della scelta di vita
compiuta dalla figlia. "Anche questo aspetto è stato terrificante: all'Opus
Dei mi hanno sconsigliato di parlarne con i miei genitori. Mentre discutevamo
della vocazione io dissi alla mia tutor: ‘Mi piacerebbe parlarne con i miei,
chiedere se sono d'accordo'. Mi risposero: ‘È meglio di no. Loro sono fuori
dal nostro mondo, non hanno il nostro spirito e probabilmente non capiranno. Non
potranno darti un consiglio su una cosa che non conoscono, loro non possono
avere la grazia di stato necessaria per darti un buon consiglio. È meglio che
chiedi consiglio a una di noi, o a un sacerdote dell'Opera. Ai tuoi casomai lo
dirai più avanti, dopo averli preparati bene'. (…)".
Quando i genitori hanno saputo che Amína era diventata numeraria sono rimasti
profondamente turbati. "I miei l'hanno saputo per caso, avevo già diciotto
anni, era passato diverso tempo da quando avevo chiesto l'ammissione. Avevo
lasciato un mio diario in giro, aperto, sulla scrivania di camera mia. Mia mamma
è molto curiosa, l'ha visto e non ha potuto resistere, ha cominciato a leggere.
Quando ha letto alcune frasi che le hanno fatto capire che ero diventata
numeraria mi ha fatto una scenata allucinante, mi ha detto che ero pazza, che
non esisteva che io non le avessi detto niente, che era assurdo dover apprendere
certe cose dal mio diario. Io invece di essere sollevata ero arrabbiata nera,
perché mi sembrava che avesse infranto la mia privacy. Lei era sconvolta,
piangeva. Era stato un grosso trauma, per lei e anche per me". La signora
Mazzali ne parlò con il marito. "Sì, neanche mio padre era d'accordo.
Anche lui era sconcertato, ma ebbe una reazione più pacata. Mi disse di
riflettere bene su quello che stavo facendo, sulle mie scelte. ‘L'importante -
disse - è che non ti fai forzare, che sia una decisione tua'. Io dicevo: ‘No,
assolutamente non accadrà, questo percorso è una decisione mia'. In realtà
ero già stata programmata a rispondere a quelle obiezioni. All'Opus Dei mi
dicevano: ‘Guarda che ti diranno questo e quest'altro, sii preparata, puoi
rispondere così e così. Ma devi rispondere con convinzione, non devi dare
l'impressione di riportare delle ragioni di altri, devi convincertene prima tu'.
Loro ti preparano le domande e le risposte, ti allenano a rispondere con le loro
ragioni, che chiaramente ti convincono molto. Nell'Opera i vertici sono riusciti
a pensare a tutte le possibili opposizioni, a ogni critica, e alle relative
risposte da fornire".
Mortificazione corporale
(…) "A diciassette anni ho iniziato la mortificazione corporale: dovevo
portare il cilicio alla coscia e frustarmi con la disciplina, ovvero la frusta.
Non è una scelta, o una cosa facoltativa: te la chiedono espressamente, la
mortificazione corporale. Il cilicio e la disciplina li dovevo usare solo quando
mi trovavo nei Centri dell'Opus Dei, perché all'epoca - durante il liceo -
abitavo ancora con i miei e solo all'università mi trasferii in una residenza
dell'Opera. Ma già prima dovetti adattare il mio stile alle nuove regole della
vita che avevo scelto, compresi la frusta e il cilicio". (…) "La
numeraria che mi aveva trattato - questo il termine che usano per indicare
l'azione di seguire passo dopo passo un giovane per avvicinarlo all'Opera -
iniziò a parlarmi di questa cosa, la mortificazione corporale. Disse che era
per volere del Padre. Io, quando la numeraria più grande che si occupava di me
mi ha parlato della mortificazione corporale, sono rimasta allibita, pensavo che
mi prendesse in giro, che scherzasse. Ricordo che me ne parlò durante un
tragitto in metropolitana, a Milano, un'ambientazione piuttosto strana per un
discorso del genere. Quando le espressi tutto il mio stupore mi spiegò che era
un modo per avvicinarsi a Cristo. Mi ricordò che avevo promesso di essere
disposta a dare tutto. Se ti tiri indietro, ti dicono che sei una persona
inaffidabile, che non sei degna della chiamata privilegiata di Dio, che sei una
vigliacca". (…)
"Da quel momento in poi il mio rapporto con l'Opus Dei era basato tutto sul
senso di colpa. Mi dissero: ‘Tu hai dato la vita a Dio una volta per sempre,
ti sei impegnata, devi farlo'. Tutto era basato su quello. Dicevano: ‘Se ti
tiri indietro non sei una persona corretta, volti le spalle a Dio.' Pian piano
sviluppi un senso di colpa che ti costringe a fare anche ciò che non vorresti;
perché non è del tuo giudizio che ti devi fidare ma della voce di Dio che ti
viene attraverso i direttori".
La scena della ‘prima volta' in cui Amina iniziò a far uso del cilicio e
della disciplina è bene impressa nella sua mente. "Io frequentavo uno dei
loro club, il Tamia Club di Milano, ma li le ragazze come me non ci abitavano.
Invece c'era una residenza di riferimento, dove abitavano le numerarie, che si
chiamava Alzaia. Ed è avvenuto lì, per me, l'inizio del cilicio e della
disciplina. La numeraria che mi aveva seguito in tutto il percorso mi ha portato
in camera sua, in bagno. Li c'erano degli armadietti, dove tenevano questi
oggetti. Mi ha detto: ‘Le numerarie, per volere del Padre, devono compiere
ogni giorno la mortificazione corporale'. Mi ha spiegato come indossare il
cilicio e come usare la disciplina. Io la ascoltavo tra il divertito e lo
sconvolto, ancora non potevo crederci. Mi disse che bisognava essere disposti a
tutto, con tutti i corollari; disse che il cilicio si ispirava alla corona di
spine di Gesù, si giustificò dicendo che sono cose che si sono sempre usate
nella storia della Chiesa anche se adesso un po' meno che in passato. Mi ha dato
il cilicio e la disciplina, me li ha regalati. Forse ce li ho ancora, non so; o
forse li ho buttati via, in un momento di rabbia. La disciplina è formata da
una corda intrecciata e annodata, che forma un manico da cui si dipartono tre o
quattro funi intrecciate con nodi. Tra noi numerarie si diceva che il Padre
Josemaría avesse inserito dei chiodi nella frusta, delle lamette da tagliole
per farsi più male. In altri casi c'era chi inseriva, per farsi ancor più
male, delle palline di plastica".
Amina parla del cilicio. Ecco come descrive questo strumento medievale di
autopunizione. "È una cintura di metallo composta da vari semianelli,
ognuno dei quali ha delle punte, e va posizionata nella parte superiore della
coscia. Si può regolare e stringere come si vuole, ovviamente dipende dalla
generosità della persona se si mette stretto o largo. A me sono rimaste le
cicatrici, le ho ancora. Adesso si vedono un po' meno, ma quando le hai fresche
sono orrende da vedere. (…)".
Dai diciassette anni in poi, Amina ha iniziato a portare il cilicio tutti i
giorni. "Sì, lo portavo due ore al giorno, e ti assicuro che fa male.
Finché lo metti mentre studi, pian piano la gamba perde sensibilità. Per cui
mentre stai seduta è ancora sopportabile, ma quando ti alzi o cammini fa
veramente male, dà veramente fastidio. Poi anche lì c'era un'altra
mortificazione in più da sopportare: cercare di camminare senza far vedere che
portavamo il cilicio. All'esterno non doveva saperlo nessuno, tutti quelli che
erano fuori dalla nostra cerchia non lo sapevano. Non lo sapevano neanche la
maggior parte delle soprannumerarie".
Dipendenza psicologica
La mortificazione corporale in realtà è un aspetto marginale del processo di
negazione e umiliazione dell'io: è solo la trasposizione fisica di un complesso
percorso psicologico di autoannientamento.
"La chiave della sottomissione della volontà delle persone nell'Opera è
questa: ti insegnano a dubitare di te stessa e della tua capacità di giudizio e
a fidarti solo di quello che ti viene dai direttori e dall'Opera. Passo dopo
passo ti dimostrano che non puoi essere una buona guida di te stesso. Devi
seguire le indicazioni dei superiori che sanno meglio di te qual è il tuo bene
perché hanno la famosa ‘grazia di stato'. Se non obbedisci e segui ciò che
ti dice il tuo criterio di giudizio sei solo un superbo e un presuntuoso, non
puoi che sbagliare strada. Il motto è ‘chi obbedisce non può mai sbagliare'.
Devi rendere conto ai superiori di ogni momento della giornata, di ogni azione,
di ogni iniziativa. Mensilmente devi sottoporre alla loro approvazione il
‘planning settimanale', uno schema della settimana in cui giorno per giorno e
ora per ora vanno inserite le attività abituali previste. Devi chiedere il
permesso per ogni attività che sia appena un pochino più straordinaria.
Ricordo che all'inizio dovevamo chiedere il permesso anche per lavarci i
capelli, non ho mai capito perché. Lentamente diventi dipendente dall'Opera e
dai superiori, non ti senti più in grado di prendere decisioni autonome,
qualora ne prendessi il senso di colpa affiorerebbe immediatamente. Ti dicono
continuamente che la libertà è una delle nostre passioni dominanti, che
facciamo le cose perché ne abbiamo voglia, ma appena esci un pochino dal
tracciato le reprimende non si fanno attendere".
In quest'ottica, particolarmente inquietante è l'argomen-to del controllo delle
letture. "I membri dell'Opera e specialmente i numerari e gli aggregati,
che sono più controllati, non possono leggere quello che vogliono. Ti viene
detto che i libri sono come il cibo dell'anima, devi stare attento a quello che
mangi perché potresti ingerire qualcosa di velenoso. Quello che leggi potrebbe
avvelenare o uccidere la tua anima. Prima di leggere un libro o un testo
scientifico o un saggio devi chiedere il permesso e controllare sulla Guida
bibliografica che classificazione ha. In realtà si tratta di uno strumento
simile all'antico Indice dei Libri Proibiti, oramai da tempo abolito dalla
Chiesa. Su questa guida ogni testo viene classificato con un numero che va da 1
a 6, dal meno al più ‘pericoloso'. A questa prassi si devono sottomettere
tutti, che siano studenti liceali o professori universitari, nessuno deve
sentirsi abbastanza scaltro o intelligente da non correre alcun pericolo. Se il
libro ha classificazione 1 o 2 puoi leggerlo tranquillamente, se ha 3, la
lettura va valutata dai direttori del tuo Centro, con un 4 o 5 devi avere il
permesso dei direttori e del Vicario Regionale, il 6 richiede il permesso
esplicito del Prelato.
"Ricordo un episodio che mi lasciò di sasso. Era il primo anno che abitavo
in un Centro dell'Opera, avevo appena iniziato Lettere classiche all'università
e frequentavo un corso di latino. Il tema era la letteratura latina del primo
cristianesimo e i miei testi erano esclusivamente brani di alcuni Padri della
Chiesa, tra cui S. Agostino e S. Ambrogio. Considerati gli autori e gli
argomenti ritenni non fosse necessarie chiedere il permesso, il giudizio
positivo mi pareva evidente. Quando se ne accorse la direttrice mi fece una
scenata violentissima, dicendo che non potevo permettermi assolutamente di
prendere alcuna iniziativa, che nessuno si era mai permesso una cosa simile e
che S. Agostino avrebbe anche potuto scrivere qualcosa che non andava bene.
Queste ultime, sono parole testuali, sono rimaste impresse a fuoco nella mia
memoria".
C'è uno strumento preciso, però, che permette pian piano che siano gli stessi
membri a regolare i propri pensieri e le proprie azioni secondo il criterio e le
direttive dell'Opus Dei: si chiama ‘buono spirito'.
"Questo aspetto è il più sottile ed è quello che permette di capire
perché molti membri dell'Opera non si rendono conto di essere manipolati e di
essere stati privati della libertà, anche i più intelligenti e con più doti
umane, anche quelli che all'apparenza paiono delle personalità forti e
determinate. Durante la formazione continua della coscienza, che nell'Opera non
finisce mai, i direttori giorno dopo giorno, anno dopo anno, ti mettono di
fronte un modello a cui adeguarsi, che viene chiamato ‘buono spirito' o
‘buon criterio'. In pratica consiste nel modo perfetto di vivere nell'Opus
Dei, che si evince dalle indicazioni del fondatore, dei suoi successori,
dall'esempio di vita dei primi membri storici. Pian piano ti viene indicato
tramite i mezzi di formazione e la pratica delle correzioni fraterne che
comportamenti assumere situazione per situazione per fare in modo che ogni tuo
gesto sia ‘di criterio' e guidato dal ‘buono spirito'. Bisogna sempre
chiedersi per esempio: che cosa farebbe nostro Padre in questa situazione? E
agire di conseguenza. In questo modo dopo un po' non sarà più necessario che i
direttori continuino a ricondurti nei ranghi, perché sarai tu stesso ad
autoregolarti, a chiuderti in certi margini, in fondo, a essere il carceriere di
te stesso. È per questo che i vertici dell'Opera possono permettersi di dire
che tutti i membri sono liberi di fare quello che ritengono più giusto secondo
coscienza, e che i membri stessi alla fine ne sono convinti. Ma è una libertà
fittizia, una prigionia peggiore che essere fisicamente impediti a muoversi. È
un carcere mentale fatto di comportamenti obbligatori e sensi di colpa che ti
perseguita continuamente e da cui anche i membri che trovano la forza di
lasciare l'Opera tardano molto a liberarsi, a volte qualche anno, a volte
decenni, talvolta, purtroppo, mai. Io ci ho messo cinque anni". (…)