IL
LIBRO DELLO STORICO SERGIO LUZZATTO APRE NUOVI DUBBI SUL FRATE DI PIETRaLCINA
Padre Pio, il giallo delle stigmate
Sergio
Luzzatto
Corriere
della Sera 24 ottobre 2007
Un
farmacista: «Nel 1919 fece acquistare dell'acido fenico, sostanza adatta per
procurarsi piaghe alle mani»
I
l cerchio intorno a padre Pio aveva cominciato a stringersi fra giugno e luglio
del 1920: poco dopo che era pervenuta al Sant'Uffizio la lettera- perizia di
padre Gemelli sull'«uomo a ristretto campo di coscienza», «soggetto malato»,
mistico da clinica psichiatrica. Giurate nelle mani del vescovo di Foggia,
monsignor Salvatore Bella, e da questi inoltrate, le testimonianze di due buoni
cristiani della diocesi pugliese avevano proiettato sul corpo dolorante del
cappuccino un'ombra sinistra. Più che profumo di mammole o di violette, odore
di santità, dalla cella di padre Pio erano sembrati sprigionarsi effluvi di
acidi e di veleni, odore di impostura.
Il primo documento portava in calce la firma del dottor Valentini Vista,
che a Foggia era titolare di una farmacia nella centralissima piazza Lanza. Al
vescovo, il professionista aveva riferito anzitutto le circostanze originarie
del suo interesse per padre Pio. La tragica morte del fratello, occorsa il 28
settembre 1918 (per effetto dell'epidemia di spagnola, possiamo facilmente
ipotizzare). La speranza che il frate cappuccino, proprio in quei giorni
trafitto dalle stigmate, potesse intercedere per l'anima del defunto. (...) Il
dottor Valentini Vista era poi venuto al dunque. Nella tarda estate del '19, il
pellegrinaggio a San Giovanni era stato compiuto da una sua cugina, la
ventottenne Maria De Vito: «Giovane molto buona, brava e religiosa», lei
stessa proprietaria di una farmacia. La donna si era trattenuta nel Gargano per
un mese, condividendo con altre devote il quotidiano train de vie del santo
vivo.
Il
problema si era presentato al rientro in città della signorina De Vito:
«Quando ella tornò a Foggia mi portò i saluti di Padre Pio e mi chiese a nome
di lui e in stretto segreto dell'acido fenico puro dicendomi che serviva per
Padre Pio, e mi presentò una bottiglietta della capacità di un cento grammi,
bottiglietta datale da Padre Pio stesso, sulla quale era appiccicato un bollino
col segno del veleno (cioè il teschietto di morte) e la quale bottiglietta io
avrei dovuto riempire di acido fenico puro che, come si sa, è un veleno e
brucia e caustica enormemente allorquando lo si adopera integralmente. A tale
richiesta io pensai che quell'acido fenico adoperato così puro potesse servire
a Padre Pio per procurarsi o irritarsi quelle piaghette alle mani».
A Foggia, voci sul ritrovamento di acido fenico nella cella di padre Pio
avevano circolato già nella primavera di quel 1919, inducendo il professor
Morrica a pubblicare sul Mattino di Napoli i propri dubbi di scienziato intorno
alle presunte stigmate del cappuccino. Non fosse che per questo, il dottor
Valentini Vista era rimasto particolarmente colpito dalla richiesta di acido
fenico puro che il frate aveva affidato alla confidenza di Maria De Vito.
Tuttavia, «trattandosi di Padre Pio», egli si era persuaso che la richiesta
avesse motivazioni innocenti, e aveva consegnato alla cugina la bottiglia con
l'acido. Ma la perplessità del farmacista era divenuta sospetto poche settimane
dopo, quando il cappuccino di San Giovanni aveva trasmesso alla donna – di
nuovo, sotto consegna del silenzio – una seconda richiesta: quattro grammi di
veratrina.
Rivolgendosi a monsignor Bella, Valentini Vista illustrò la composizione
chimica di quest'ultimo prodotto e insistette sul suo carattere fortemente
caustico. «La veratrina è tale veleno che solo il medico può e deve vedere se
sia il caso di prescriverla», spiegò il farmacista. A scopi terapeutici, la
posologia indicata per la veratrina era compresa fra uno e cinque milligrammi
per dose, sotto forma di pillole o mescolata a sciroppo. «Si parla dunque di
milligrammi! La richiesta di Padre Pio fu invece di quattro grammi! ». E tale
«quantità enorme trattandosi di un veleno», il frate aveva domandato «senza
la giustificazione della ricetta medica relativa», e «con tanta segretezza»...
A quel punto, Valentini Vista aveva ritenuto di dover condividere i propri dubbi
con la cugina Maria, raccomandandole di non dare più seguito a qualsivoglia
sollecitazione farmacologica di padre Pio. Durante il successivo anno e mezzo,
il professionista non aveva comunicato a nessun altro il sospetto grave,
gravissimo, che il frate si servisse dell'una o dell'altra sostanza irritante «per
procurarsi o rendere più appariscenti le stigmate alle mani». Ma quando aveva
avuto notizia dell'imminente trasferimento di monsignor Bella, destinato alla
diocesi di Acireale, «per scrupolo di coscienza» e nell'«interesse della
Chiesa» il farmacista si era deciso a riferirgli l'accaduto.
La seconda testimonianza fu giurata nelle mani del vescovo dalla cugina del
dottor Valentini Vista, e risultò del tutto coerente con la prima. La
signorina De Vito confermò di avere trascorso un mese intero a San Giovanni
Rotondo, nell'estate del '19. Alla vigilia della sua partenza, padre Pio l'aveva
chiamata «in disparte» e le aveva parlato «con tutta segretezza», «imponendo
lo stesso segreto a me in relazione anche agli stessi frati suoi confratelli del
convento». Il cappuccino aveva consegnato a Maria una boccetta vuota, pregando
di farla riempire con acido fenico puro e di rimandargliela indietro «a mezzo
dello chauffeur che prestava servizio nell'autocarro passeggieri da Foggia a S.
Giovanni». Quanto all'uso cui l'acido era destinato, padre Pio aveva detto che
gli serviva «per la disinfezione delle siringhe occorrenti alle iniezioni che
egli praticava ai novizi di cui era maestro ». La richiesta dei quattro grammi
di veratrina le era giunta circa un mese dopo, per il tramite d'una penitente di
ritorno da San Giovanni. Maria De Vito si era consultata con Valentini Vista,
che le aveva suggerito di non mandare più nulla a padre Pio. E che le aveva
raccomandato di non parlarne con nessuno, «potendo il nostro sospetto essere
temerario ».
Temerario, il sospetto del bravo farmacista e della devota sua cugina?
Non sembrò giudicarlo tale il vescovo di Foggia, che pensò bene di inoltrare
al Sant'Uffizio le deposizioni di entrambi. D'altronde, un po' tutte le
gerarchie ecclesiastiche locali si mostravano scettiche sulla fama di santità
di padre Pio. Se il ministro della provincia cappuccina, padre Pietro da
Ischitella, metteva in guardia il ministro generale dal «fanatismo » e dall'«affarismo»
dei sangiovannesi, l'arcivescovo di Manfredonia, monsignor Pasquale Gagliardi,
rappresentava come totalmente fuori controllo la situazione della vita religiosa
a San Giovanni Rotondo.
Da subito nella storia di padre Pio, i detrattori impiegarono quali capi
d'accusa quelli che erano stati per secoli i due luoghi comuni di ogni
polemica contro la falsa santità: il sesso e il lucro. E per quarant'anni dopo
il 1920, il celestiale profumo intorno alla cella e al corpo di padre Pio
riuscirà puzzo di zolfo al naso di quanti insisteranno sulle ricadute
economiche o almanaccheranno sui risvolti carnali della sua esperienza
carismatica. Ma nell'immediato, a fronte delle deposizioni di Maria De Vito e
del dottor Valentini Vista, soprattutto urgente da chiarire dovette sembrare al
Sant'Uffizio la questione delle stigmate. Tanto più che il vescovo di Foggia,
inoltrando a Roma le due testimonianze giurate, aveva accluso alla
corrispondenza un documento che lo storico del ventunesimo secolo non riesce a
maneggiare – nell'archivio vaticano della Congregazione per
Se davvero padre Pio necessitava di acido fenico per disinfettare le siringhe
con cui faceva iniezioni ai novizi, perché mai procedeva in maniera così
obliqua, rinunciando a chiedere una semplice ricetta al medico dei cappuccini,
trasmettendo l'ordine in segreto alla cugina di un farmacista amico, e
coinvolgendo nell'affaire l'autista del servizio pullman tra Foggia e San
Giovanni Rotondo? Ce n'era abbastanza per incuriosire un Sant'Uffizio che
possiamo immaginare già sospettoso dopo avere messo agli atti la perizia di
padre Gemelli. Di sicuro, i prelati della Suprema Congregazione non dubitarono
dell'attendibilità delle testimonianze del dottor Valentini Vista e della
signorina De Vito, così evidentemente suffragate dall'autografo di padre Pio.
Agli atti del Sant'Uffizio figurava anche la trascrizione di una seconda lettera
autografa del cappuccino a Maria De Vito, il cui poscritto corrispondeva
esattamente al tenore della deposizione di quest'ultima: «Avrei bisogno di un