Unioni
di fatto tra diritti e doveri
Giannino Piana
Rocca,
15 marzo 2007
Il
dibattito sulle “unioni di fatto” (o, più correttamente, “unioni
civili”) ha assunto, in questi ultimi mesi nel nostro Paese, toni sempre più
accesi. La recente approvazione da parte del Governo dei DICO (l’unico
dissenziente è stato il Ministro della Giustizia Mastella che non ha
partecipato alla seduta del Consiglio dei Ministri) ha provocato l’insorgere
di dure reazioni nell’ambito della gerarchia cattolica.
La
ragione principale del dissenso, espresso in forme drastiche (talora con accenti
persino apocalittici), è la paura che venga minato alle radici l’istituto
della famiglia fondata sul matrimonio. Pur non misconoscendo l’opportunità di
fornire tutela giuridica ad alcuni diritti individuali, i vescovi hanno più
volte ribadito la convinzione che ciò dovesse avvenire mediante il ricorso al
diritto privato, applicando le norme già vigenti o elaborandone, se necessario,
delle nuove, ma evitando in ogni caso qualsiasi forma di riconoscimento pubblico
delle unioni extramatrimoniali, poiché questo avrebbe implicato
l’introduzione nell’ordinamento dello Stato di un matrimonio di serie B o,
secondo altri, di un quasi-matrimonio, che finirebbe per indebolire gravemente
l’istituto matrimoniale. Se infatti – si dice – viene offerta alle coppie
conviventi l’opportunità di acquisire i diritti finora riservati alle coppie
regolarmente sposate, molti saranno tentati di scegliere la strada meno
impegnativa, quella della convivenza, infliggendo in tal modo un vulnus
mortale ad un istituto già duramente provato e che riveste un ruolo di
grande rilievo per lo sviluppo ordinato della società civile.
Un
intervento duro e massiccio
Questi
motivi spiegherebbero perché, nonostante lo sforzo dei Ministri Bindi e
Pollastrini (e dei loro esperti, i costituzionalisti Ceccanti e Balduzzi,
ambedue di estrazione cattolica) di dare vita a un modello di regolamentazione
che privilegia i diritti individuali ponendo in secondo piano il fatto
dell’unione (il progetto governativo non prevede la registrazione
all’anagrafe in forma congiunta ma puramente contestuale), la tensione non si
è attenuata. Gli interventi della gerarchia si sono, al contrario,
moltiplicati, assumendo connotati sempre più aspri, fino ad affermare
l’inutilità del provvedimento varato, considerato del tutto “superfluo”,
o a preannunciare la promulgazione di “indicazioni vincolanti” in materia
per i cattolici.
La
questione ha anzitutto importanti risvolti di ordine politico, che meritano
qualche considerazione. Non vi è dubbio che la posizione assunta dai vescovi
costituisca una esplicita intromissione della gerarchia nel dibattito che si
aprirà tra qualche mese in Parlamento e che essa abbia già avuto ampie
risonanze nell’ambito dell’opinione pubblica e nel quadro della vita
politica: la ricompattazione, del tutto strumentale, dei partiti di opposizione
(con spudorati voltafaccia di alcuni leader politici che si
erano precedentemente dichiarati possibilisti nei confronti del provvedimento)
non è che la prima tangibile conseguenza di questa intromissione.
A
sorprendere, d’altronde, è soprattutto l’accanimento con cui i vescovi si
sono mossi e si muovono. Pur riconoscendo alla questione delle coppie di fatto
un significativo risvolto sociale, si deve ammettere che la reazione appare
sproporzionata, soprattutto se si considera che su altre questioni, ben più
socialmente rilevanti, perché legate a temi fondamentali come quelli della
giustizia e della legalità, dove cioè in gioco sono i cardini stessi
dell’ordinamento civile, non risulta esservi stato alcun intervento ufficiale
dell’episcopato italiano. Si pensi al totale silenzio di fronte a eventi
gravemente destabilizzanti, quali la promulgazione delle cosiddette leggi ad
personam o le affermazioni
dell’ex Presidente del Consiglio Berlusconi circa la legittimità
dell’evasione fiscale o l’invito rivolto dallo stesso ex Presidente agli
italiani, in campagna elettorale, a votare secondo i propri interessi anziché
secondo quelli del Paese. Non si conferma qui l’impressione che l’attenzione
della chiesa nei confronti dei temi della politica tenda a concentrarsi
prevalentemente (e quasi esclusivamente) su questioni che hanno a che fare con
l’“etica privata” – e in particolare con l’area della sessualità (si
pensi alle cosiddette questioni “eticamente sensibili”) – anziché
prendere in seria considerazione questioni cruciali come quelle attinenti la
sfera dell’“etica pubblica”?
L’accanimento
segnalato rischia poi di risultare ancor più incomprensibile se si tiene conto
del fatto che in causa è il matrimonio civile – non quello religioso o
sacramentale, dove le ragioni che spingono alla scelta non possono certo essere
scalfite da considerazioni utilitariste o di comodo – e che tale matrimonio è
stato, almeno fino agli anni del Concilio, concepito dalla chiesa, per quanto
concerne i battezzati (che sono tuttora in Italia la stragrande maggioranza dei
cittadini), come una realtà “inesistente”, al punto di giudicare chi lo
sceglieva come “concubino“ e dunque come pubblico peccatore – è nota la querelle
sollevata, negli anni 50, dall’allora vescovo di Prato Mons. Pietro
Fiordelli – e che anche i documenti elaborati nel periodo
postconciliare faticano a conferirgli uno statuto preciso e autonomo,
riconoscendo al più che si tratta di un atto “non irrilevante” anche per i
cristiani.
Quale
difesa della famiglia?
Al
di là delle considerazioni di ordine politico, particolare attenzione va però
riservata alle motivazioni di carattere etico addotte dai vescovi, cioè al
dovere prioritario da essi ribadito di difendere la famiglia fondata sul
matrimonio, impedendo tutto ciò che può mettere a repentaglio la sua stabilità.
Ora non vi è dubbio che la famiglia tradizionale, la quale rappresenta ancor
oggi – come ci ricorda
A
determinare il dilatarsi di tale processo (in passato quantitativamente molto più
contenuto) hanno concorso (e concorrono) fattori di diversa natura, legati alle
profonde e rapide trasformazioni intervenute, in questi ultimi decenni,
soprattutto nella società occidentale. L’estrema mobilità dei rapporti,
dovuta sia all’estendersi dell’area di interscambio sociale, a seguito della
caduta delle barriere fisico-geografiche provocata dai nuovi mezzi di trasporto
e di informazione, sia all’accentuarsi del fenomeno della complessità
sociale, che favorisce lo sviluppo di appartenenze altamente differenziate, non
poteva che avere ricadute immediate anche sul terreno familiare, dando vita ad
una molteplicità di forme di convivenza, le cui tipologie riflettono
l’estrema varietà delle condizioni esistenziali delle persone.
Il
fenomeno del ricorso alle “unioni di fatto” non può dunque essere
considerato espressione di un mero capriccio individuale; è conseguenza di
mutazioni strutturali e culturali di grande portata, che determinano scelte
soggettive spesso improntate a un grande senso di responsabilità. L’arco
delle motivazioni comprende infatti, accanto a persone (e abbiamo ragione di
ritenere non siano molte) che optano per la convivenza per motivi strettamente
ideologici, cioè per un esplicito rifiuto dell’istituzione matrimoniale,
situazioni dove determinante è la precarietà economica come nel caso di coloro
che, a causa dell’instabilità della loro condizione lavorativa, non se la
sentono di dare vita a una unione matrimoniale; altre, nelle quali decisiva è
la fragilità psicologica come nel caso di molti giovani che, sentendosi
insicuri delle proprie decisioni, scelgono di sperimentare la convivenza prima
di assumersi un impegno più radicale o in quello di persone che, avendo fallito
un precedente matrimonio, preferiscono non ripetere la scelta per paura di
incorrere di nuovo in stati di grave difficoltà; altre infine – tale è la
situazione degli omosessuali – in cui, essendo preclusa in partenza la
possibilità di accesso al matrimonio, la convivenza diventa la via obbligata.
Il
fatto che lo Stato (anche attraverso la sua legislazione) si prenda cura di
queste situazioni, garantendo alle persone coinvolte la tutela dei diritti –
dal diritto-dovere di assistere il partner bisognoso di cure, alla reversibilità
della pensione, fino ai diritti in materia di successione, ecc. – , non
provoca – ci pare – alcun vulnus
all’istituto del matrimonio. E questo non solo perché lo status delle “unioni di fatto” rimane giuridicamente diverso da
quello matrimoniale – è dunque improprio parlare di matrimonio di serie B o
di quasi-matrimonio – ma anche (e soprattutto) perché non sussiste alcun
motivo di competizione: il riconoscimento di diritti a persone che hanno scelto
altre forme di convivenza nulla toglie alla peculiarità della forma
matrimoniale, che continua ad essere il modello proposto come ideale, e dunque
giuridicamente più tutelato.
Le
vere cause della crisi familiare
Altre
sono le cause della crisi che la famiglia tradizionale vive, e di cui semmai il
forte incremento delle convivenze libere non è che l’effetto: dal diffondersi
di una cultura individualista, che rende irrilevante la valenza sociale di ogni
scelta, alla crescita di una visione consumistica della vita, che coinvolge
anche le relazioni affettive concorrendo ad accentuarne la fragilità, fino alla
carenza di politiche sociali adeguate, che consentano di dare piena espressione
alle legittime esigenze di coppia e di fare dignitosamente fronte ai bisogni
delle famiglie. Su queste cause andrebbe avviata una seria riflessione non solo
da parte delle istituzioni sociali e politiche ma anche da parte delle agenzie
educative, non esclusa la chiesa, per fare luce sulle proprie responsabilità e
per individuare cammini positivi che determinino una radicale inversione di
tendenza.
Diritti
individuali o diritti di coppia?
In
questo quadro appare poco convincente l’insistenza con cui da parte di alcuni
ambienti cattolici si è premuto per ottenere il riconoscimento che i diritti
delle persone che vivono in unioni di fatto vengano concepiti come semplici
diritti individuali. E’ fuori dubbio che titolari di diritti (e di doveri)
sono, in ultima analisi, gli individui (il che vale del resto anche per il
matrimonio). Ma non si può negare che i diritti dei soggetti ai quali si fa qui
riferimento sussistono in quanto esiste un rapporto stabile di coppia: la
possibilità stessa di parlare di diritti è infatti legata alla presenza di una
relazione affettiva durevole, che non rappresenta soltanto un fattore importante
per la vita dei due ma che assume anche una grande rilevanza sociale.
E’
piuttosto singolare che a farsi paladini di una visione incentrata sui
“diritti individuali” siano esponenti di un’area culturale, quella
cattolica, che ha inscritta nella propria tradizione – nel proprio DNA, si
direbbe – il superamento di una concezione rigidamente individualista
dell’uomo e la sua sostituzione con una concezione personalista, in cui la
relazione diventa fattore costitutivo dell’identità soggettiva. Non è forse
proprio a partire da questa acquisizione che assume pieno significato quella
visione “comunitaria” della società, purtroppo ancora lontana dall’essere
realizzata, che ci consentirebbe di uscire tanto dalla rigida (e semplificatoria)
dialettica tra individuo e Stato propria dell’ideologia liberale, quanto dal
collettivismo statalista oggi radicalmente in crisi, per spingerci – a questo
è finalizzato il ricupero del principio di sussidiarietà – a fare spazio a
un insieme di realtà intermedie che arricchiscono il tessuto sociale: dalla
famiglia a una miriade di forme relazionali e associative, che si sviluppano
spontaneamente dal basso e che, interagendo tra loro, danno vita alla “società
civile”?
Le
unioni di fatto vanno pertanto inserite nel contesto di questo processo di
aggregazione, non dimenticando che, per la particolare configurazione che
assumono e per la rilevanza sociale che rivestono, danno origine a diritti e
doveri che l’istituzione pubblica deve riconoscere e tutelare con mezzi
adeguati. In gioco vi è infatti non solo il rispetto di scelte
che – come si è accennato – nascono in larga misura da una
situazione di profondo cambiamento socioculturale con cui è doveroso
confrontarsi; vi è soprattutto la difesa di persone che finiscono per vedere
altrimenti compromessa la possibilità di una loro piena realizzazione umana; e,
più radicalmente, vi è l’impegno ad edificare una società solidale, che
metta ciascuno in grado di esercitare i propri diritti e assicuri pertanto a
tutti il pieno rispetto della dignità umana.