Piani di guerra di
George Bush per sgominare il «nemico»
Lucio Manisco
il manifesto 21.1.2007
L'opzione di un attacco aereo contro gli
impianti nucleari e le infrastrutture economiche e militari dell'Iran allo
studio degli strateghi del Pentagono da più di due anni è entrata in fase di
attuazione lo scorso novembre dopo la sconfitta repubblicana nelle elezioni
congressuali e i sempre più catastrofici rovesci delle operazioni militari e
politiche statunitensi in Iraq.
L'ipotesi secondo cui le ultime decisioni del vice-presidente Cheney e dei
neo-con annunziate dal presidente George Bush mirassero unicamente a reperire
soluzioni posticce come l'irachizzazione del conflitto, a ritardare i tempi
della disfatta e a lasciare nel 2008 a un'amministrazione democratica il compito
di evacuare gli ultimi funzionari statunitensi dai tetti dell'Ambasciata a
Baghdad si è dimostrata ottimistica e è stata smentita dai fatti: solo una
grande guerra mediorientale con la partecipazione di Israele e della Nato,
secondo i piani di figuri come Douglas Feith, David Wurmser, Michael Ledeen e
gli altri dell'American enterprise institute sopraggiunti a colmare i vuoti
degli ultimi rimpasti, potrà rimescolare le carte mediorientali, ristabilire
un'indiscussa egemonia militare e economica della superpotenza in questo settore
strategico, fermare, frenare o condizionare l'ascesa di paesi come la Cina e
l'India, ridimensionare gli ambiziosi disegni della Russia di Putin, last but
not least mantenere tra due anni al potere i neo e theo-con e salvarli dalle
patrie galere. Sono i fatti e non le interpretazioni o i primi allarmati
commenti del New York Times e del Washington Post a indicare che piani così
folli sono già in avanzata fase di attuazione.
Gettato alle ortiche il piano Baker-Hamilton per la riduzione e la
ridislocazione del dispositivo militare Usa in Iraq e soprattutto per un
coinvolgimento diplomatico e politico della Siria e dell'Iran nella
stabilizzazione del paese, l'amministrazione Bush ha scelto l'opzione
diametralmente opposta di inviare altri 21.500 effettivi a Baghdad e nella
provincia di Anbar e di reclutare altri 90 mila soldati e marines come preludio
a un inevitabile ritorno alla coscrizione obbligatoria. Se 21.500 militari in più
sul teatro operativo rappresentano una escalation, si tratta di una escalation
singolare quando ai tempi di Rumsfeld i critici dell'operazione shock and awe
sostenevano che altri 200 mila soldati in aggiunta ai 145 mila già impiegati
non sarebbero stati sufficienti a domare l'insurrezione e le pulizie etniche
scatenate dalle autorità degli Stati uniti e poi sfuggite al loro controllo.
Le caratteristiche e le specializzazioni delle sette o otto nuove brigate che
stanno affluendo in Iraq indicano invece che gran parte di esse sarà adibita ai
compiti di difendere le linee di comunicazione e di istallare centinaia di
batterie antimissilistiche «Patriot-II» contro ritorsioni esterne nella
sottaciuta prospettiva di un conflitto allargato a altri paesi. Poche centinaia
di ufficiali e sottoufficiali Usa verranno enbedded nei reparti iracheni a
maggioranza sciita per evitare che si dedichino esclusivamente a sgozzare i
civili sunniti invece di tentare di ristabilire l'ordine a Baghdad.
Strabiliante a questo proposito l'invio di milizie kurde nella capitale, una
decisione paragonabile a quella di mandare truppe austriache in Sicilia per
combattere la mafia.
Come peraltro asserito dal presidente Bush sono stati i limiti imposti fino a
ieri all'impiego di mezzi militari americani quelli che hanno frustrato i
tentativi di riassumere il controllo della capitale: ecco perché da dieci
giorni a questa parte i quartieri ribelli vengono martellati dagli «Apache»,
dai «C-10» e dagli «F-16» dell'aviazione statunitense con un traguardo da «la
quiete regna a Varsavia».
Ben più imponente e minacciosa nell'ambito della progettata grande guerra
mediorientale la mobilitazione della potenza aeronavale Usa nel Golfo Persico e
nell'Oceano Indiano: alla Quinta flotta con base nel Bahrain con una portaerei e
venti grandi unità verrà aggiunto l'intero squadrone navale del Pacifico forte
di una e forse due portaerei e venticinque tra incrociatori, sommergibili
nucleari, unità lanciamissili e navi appoggio. Complessivamente due delle
portaerei potranno mantenere operativi nei cieli, ventiquattro ore su
ventiquattro, 185 caccia-bombardieri ai quali vanno aggiunti i «B-52» della
base di Diego Garcia e gli «Stealth» invisibili ai radar di Aviano, Vicenza,
Stanheim e East Anglia. E per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale il
comando operativo delle forze di terra, di mare e dell'aria, «CentCom», è
stato affidato non a un generale dell'esercito ma a un ammiraglio, William J.
Fallon, trasferito dallo scacchiere strategico del Pacifico.
Primario in questo scenario bellico il ruolo di Israele: il fallimento del
devastante attacco contro il Libano è stato probabilmente dovuto non solo alla
resistenza Hezbollah ma anche al fatto che gli alti comandi militari di Israele
erano in altre faccende affaccendati. Le esercitazioni ad esempio con la nuova
flottiglia di sommergibili tedeschi Dolphin equipaggiati con i missili
Tomahawk-Cruise, già dislocati nell'Oceano Indiano, con altri cacciabombardieri
«F-16» di nuova generazione forniti dagli Stati uniti e armati con bombe a «alta
penetrazione» o «bunker busting». Molti di questi mezzi aerei sono stati
impiegati lo scorso anno in incursioni notturne su un bersaglio che simulava
l'impianto nucleare iraniano di Natanz e in voli a lungo raggio da due basi
israeliane su Gibilterra. Se un primo attacco all'Iran dovesse partire da
Israele provocando ritorsioni di sorta, l'appoggio degli Stati uniti non sarebbe
solo massiccio ma spazzerebbe via qualsiasi opposizione del Congresso e di gran
parte dell'opinione pubblica statunitense.
Continua intanto a un ritmo sempre più febbrile la campagna propagandistica
dell'amministrazione Bush contro l'Iran: alla vigilia dell'incursione di forze
speciali Usa nella sede consolare della città kurda di Abril, il presidente
aveva proclamato l'intento di «identificare e distruggere le reti che
forniscono armi a tecnologia avanzata e addestramento ai nemici dell'Iraq». Il
nuovo segretario della difesa Robert M. Gates in missione a Kabul e al comando
della Nato a Bruxelles tornava il 16 del corrente mese sullo stesso tema
asserendo che l'Iran «si stava comportando in maniera estremamente negativa in
Medio Oriente» e che gli Stati uniti con la mobilitazione del loro dispositivo
aeronavale in questo settore mondiale intendevano dimostrare la loro
determinazione di mantenere la loro presenza nel Golfo Persico. Per quanto
riguarda l'Afghanistan lo stesso Gates si è trovato d'accordo con il superfalco
e segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer sulla previsione di
un'insurrezione generale dei talebani nella prossima primavera e sulla necessità
che i paesi europei con una presenza militare in questo paese la rafforzino per
«sgominare il nemico».
C'è stato infine il viaggio del segretario di stato Condoleezza Rice in Medio
Oriente, destinato ufficialmente a far ripartire il negoziato della road map tra
Israele e Palestina. In realtà - ha scritto sul New York Times l'ex-assistente
segretario di stato James Dobbins - il vero scopo della missione è stato quello
di varare una coalizione anti-iraniana tra i governi arabi più conservatori e
di contribuire al finanziamento all'armamento delle milizie anti-hezbollah e
anti-hamas in Libano e in Palestina.
A parte una verbosa opposizione che dovrebbe trovare espressione in una
risoluzione congressuale contro la escalation in corso - qualcosa di simile a
una raccomandazione che lascerà il tempo che trova - il nuovo Congresso a
maggioranza democratica non intende affatto dissipare questo pauroso scenario di
guerra con i poteri legislativi di cui dispone: respingere a febbraio la
richiesta del presidente di aggiungere altri 65 miliardi di dollari al
finanziamento del conflitto iracheno, promuovere inchieste per corruzione e
peculato contro i maggiori esponenti dell'amministrazione o addirittura varare
la procedura dell'impeachment, della destituzione, cioè, del capo
dell'esecutivo per avere costantemente mentito sulle ragioni della guerra e
sulla sua gestione da più di tre anni a questa parte.