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RISPOSTA DI JON SOBRINO ALLA Notificatio” su errori e imprecisioni di due sue opere. (marzo 2007)

P. JON SOBRINO S.J. scrive a  P. PETER HANS KOLVENBACH (preposito generale della Compagnia di Gesù) a proposito della Notificatio” su errori e imprecisioni di due sue opere.

 Chi è JON SOBRINO
 

Carissimo p. Kolvenbach,

anzitutto la ringrazio per la lettera che mi scrisse il 20 novembre, e per tutti i passi da lei fatti per difendere i miei scritti e la mia persona. Adesso p. Idiàquez mi chiede di scriverle riguardo al mio atteggiamento di fronte alla Notificatio e le ragioni per le quali non aderisco – “senza riserve”, dice lei nella sua lettera – ad essa. In un breve testo prossimamente esporrò la mia reazione alla notificatio, dato che, come lei dice, è prassi che la notizia appaia nei mezzi di comunicazione e che i colleghi teologi aspettino una mia parola.

 

La ragione fondamentale.


La ragione fondamentale è la seguente. Un buon numero di teologi hanno letto i miei due libri prima che fosse pubblicato il testo della Congregazione della fede del 2004. Molti di loro lessero anche il testo della Congregazione. Il loro giudizio unanime è che nei miei due libri non c’è niente che non sia compatibile con la fede della Chiesa.

 

Il primo libro, “Jesucristo liberador. Lectura historico-teologica de Jesùs de Nazareth”, fu pubblicato in spagnolo nel 1991, 15 anni fa, ed è stato tradotto in portoghese, inglese e italiano. La traduzione portoghese ha l’imprimatur del cardinal Arns, del 4 dicembre 1992. Che io sappia, nessuna recensione o commentario teologico orale questionò la mia dottrina.

 

Il testo del secondo libro, “La fe en Jesucristo. Ensayo desde las vìctimas”, fu pubblicato nel 1999, sette anni fa, ed è stato tradotto in portoghese, inglese e italiano. Fu esaminato molto attentamente, prima della sua pubblicazione, da vari teologi, in alcuni casi per incarico del padre provinciale, Adàn Quadra, e in altri a richiesta mia. Sono i padri J. I. Gonzales Faus, J. Vives, X. Alegre, il presbitero Javier Vitoria, de Deusto; il p. Martin Maier, di “Stimmen der Zeit”. Molti di loro sono esperti in teologia dogmatica. Uno in esegesi, un altro in patristica.

 

Recentemente p. Sesbouè, su richiesta di p. Maier, nell’anno 2005 ebbe la cortesia di leggere il secondo libro, “La fe en Jesucristo”, conoscendo anche, da come capisco, il testo della Congregazione della fede del 2004. P. Maier gli chiese di controllare se c’era qualcosa nel mio libro contrario alla fede della Chiesa. La sua risposta di 15 pagine nel suo insieme loda il libro. E non trovò niente di criticabile dal punto di vista della fede. Solamente trovò un errore, che lui chiama tecnico, non dottrinale: “la mia intenzione è di mostrare il centro di gravità dell’opera e quanto egli prenda seriamente le affermazioni conciliari, come pure i titoli di Cristo nel Nuovo Testamento. Ho trovato un solo errore vero, cioè la sua interpretazione della “communicatio idiomatum”, ma non è che un errore tecnico e non dottrinale” (dico subito che non ho nessun inconveniente per chiarire, nella misura delle mie possibilità, questo errore tecnico).

 

Sul modo di analizzare il mio testo da parte della Congregazione dice questo: “Non ho voluto rispondere con troppa precisione al documento della Congregazione della Fede, che esamina anche il primo libro di Sobrino e mi pare talmente esagerato da non aver valore. Talleyrand ripeteva questa frase: «ciò che è esagerato è insignificante!». Con questo metodo deliberatamente dubbioso io posso leggere molte eresie nelle encicliche di Giovanni Paolo II! Ne ho comunque tenuto conto nella mia valutazione. Ho voluto dire che questo libro mi sembra più rigoroso nelle sue formulazioni del precedente. Ho anche citato dei testi della Tradizione, o contemporanei, o anche dei papi, che sono sulla linea di Sobrino (in questo seguo il metodo della CDF!)”.

Ho consegnato una copia del testo del p. Sesbouè al p. Idiaquez ed al p. Valentin Menendez.

 

Tutti questi teologi sono buoni conoscitori del tema cristologico, a livello teologico e dottrinale. Sono persone responsabili. Si sono concentrati esplicitamente su possibili miei errori dottrinali. Sono rispettosi della Chiesa. E non hanno trovato errori dottrinali né affermazioni pericolose. Allora non riesco a capire come la notificatio legge i miei testi in modo tanto diverso e persino contrario.

 

Questa è la prima e fondamentale ragione per non accettare la notificatio: “non mi sento rappresentato in assoluto nel giudizio globale della notificatio”. Per questo non mi sembra onorevole sottoscriverla. Inoltre, sarebbe una mancanza di rispetto verso i teologi menzionati.  

 

30 anni di relazioni con la gerarchia.

 

Il documento del 2004 e la notificatio non sono una totale sorpresa. Dal 1975 ho dovuto rispondere alla Congregazione per l’Educazione Cattolica, sotto il card. Garrone, nel 1976, e alla Congregazione della Fede, prima sotto il card. Seper e poi, varie volte, sotto il card. Ratzinger. Il p. Arrupe, soprattutto, ma anche il p. Vincent O’Keefe, come vicario generale, e il p. Paolo Dezza, come delegato papale, sempre mi hanno spinto a rispondere con onestà, fedeltà e umiltà. Mi hanno ringraziato per la mia disponibilità a rispondere e mi facevano capire che il modo di procedere delle curie vaticane non sempre si distingueva per la loro onestà ed il loro carattere molto evangelico. La mia esperienza, quindi, viene da lontano. E lei sa quello che è successo negli anni del suo generalato (del p. Arrupe).

 

Quello che voglio aggiungere adesso è che non solo ho avuto seri avvertimenti e accuse da queste congregazioni, soprattutto quella della Fede, ma che molto presto si creò in Vaticano, in varie curie diocesane e tra vari vescovi, un clima di opposizione alla mia teologia, e in generale alla teologia della liberazione. Si generò un clima di opposizione alla mia teologia a priori, senza la necessità di leggere molte volte i miei scritti. Sono 30 lunghi anni di storia. Menzionerò solo alcuni fatti significativi. Lo faccio non perché questa sia una ragione fondamentale per non sottoscrivere la notificatio, ma per capire la situazione nella quale viviamo e per capire che è difficile, almeno per me ed anche dando il meglio di me, affrontare onestamente, umanamente ed evangelicamente il problema. Per essere sincero, anche se ho detto che non è una ragione per non aderire alla notificatio, sento che non è etico per me “approvare o appoggiare” con la mia firma un modo di procedere poco evangelico, che ha dimensioni strutturali, in una certa misura, e che è abbastanza esteso. Ritengo che avvallare questi procedimenti non aiuta in niente la Chiesa di Gesù, né a presentare il volto di Dio nel nostro mondo, né ad incoraggiare  a seguire Gesù, né alla “lotta cruciale del nostro tempo”, la fede e la giustizia. Lo dico con grande modestia.

 

Alcuni fatti che dipendono dal clima di opposizione creato contro la mia teologia, al di là delle accuse delle congregazioni, sono i seguenti.

 

Mons. Romero scrive nel suo “Diario” il giorno 3 maggio 1979: “Ho fatto visita al p. Lopez Gall. Mi ha detto con la semplicità di un amico il giudizio negativo che si percepisce in alcuni settori sugli scritti teologici di Jon Sobrino”. Per quanto riguarda mons. Romero, pochi mesi dopo mi chiese di scrivergli il discorso che pronunciò nell’università di Lovanio il 2 febbraio 1980 – nel 1977 avevo già redatto per lui la seconda lettera pastorale “ La Chiesa , corpo di Cristo nella storia”.

 

Scrissi il discorso di Lovanio. Gli piacque, lo lesse integralmente e mi ringraziò.

Prima della sua conversione come vescovo, Monsignore mi aveva accusato di pericoli dottrinali, e ciò mostra che lui sapeva muoversi in questa problematica (scrisse anche un giudizio critico contro la “Teologia politica” di Ellacuria nel 1974). Però poi non mi fece parte mai di tali pericoli. Credo che la mia teologia gli sembrasse dottrinalmente corretta – almeno sostanzialmente. (So molto bene che in Vaticano un problema per la sua canonizzazione è stato il mio possibile influsso nei suoi scritti e omelie. Scrissi un testo di 20 pagine su questi. E lo firmai).

 

Quando Alfonso Lopez Trujillo fu nominato cardinale, disse poco dopo in un gruppo, più o meno pubblicamente, che l’avrebbe fatta finita con Gustavo Gutierrez, Leonardo Boff, Ronaldo Muñoz e Jon Sobrino. Così me lo raccontarono, e mi sembra molto verosimile. Le storie di Lopez Trujillo con p. Ellacurìa – con monsignor Romero soprattutto – e con me sono interminabili. Continuano fino al giorno d’oggi. E cominciarono presto. Credo che nel 1976 o 1977 parlò contro la teologia di p. Ellacuria e mia in una riunione della Conferenza Episcopale del Salvador, alla cui riunione si autoinvitò. Dopo, in una lettera a Ellacuria, negò risolutamente che avesse parlato di lui e di me in detta conferenza. Però noi avevamo la testimonianza di prima mano di mons. Rivera, che fu presente alla riunione della conferenza episcopale.

 

Nel 1983 il card. Corripio, arcivescovo di Mexico, proibì la celebrazione di un congresso di teologia. Lo organizzavano i passionisti per celebrare, secondo il loro carisma, l’anno della redenzione, che era stato voluto da Giovanni Paolo II. Volevano trattare teologicamente il tema della croce di Cristo e quella dei nostri popoli. Mi invitarono e accettai. Dopo mi comunicarono il divieto del cardinale. La ragione, o una ragione importante, era che io avrei tenuto due conferenze nel congresso.

In Honduras, l’arcivescovo sgridò un gruppo di religiose perché erano andate in una diocesi vicina per ascoltare una mia conferenza. Mi aveva invitato il vescovo. Credo che si chiamasse mons. Corrivau, canadese.

Solo un esempio in più per non stancarla. Nel 1987 o 1988, più o meno, fui invitato a parlare ad un numeroso gruppo di laici in Argentina, nella diocesi di mons. Hesayne. Si trattava di rivitalizzare i cristiani che avevano sofferto durante la dittatura. E accettai. Poco dopo ricevetti una lettera di mons. Hesayne, che mi diceva che la mia visita alla sua diocesi era stata oggetto di dibattito in una riunione della Conferenza Episcopale.

 

Il card. Primatesta disse che gli sembrava una pessima idea che io andassi a parlare in Argentina. Mons. Hesayne mi difese come persona e difese la mia ortodossia. Domandò al cardinale se aveva letto qualche mio libro, e riconobbe di no. Tuttavia però il vescovo si vide obbligato a cancellare il mio invito. Mi scrisse e si scusò con molto affetto e umiltà, e mi chiese di comprendere la situazione. Gli risposi che capivo, e lo ringraziavo.

 

Di quello che ho detto finora sull’Argentina ne sono certo. Quanto segue lo ascoltai da due preti, non so se argentini o boliviani, che passarono per l’UCA. Al vedermi, mi dissero che sapevano quello che era successo in Argentina. In breve, nella riunione della conferenza episcopale avevano detto a mons. Hesayne che doveva decidere: o invitava Jon Sobrino nella sua diocesi, e il papa non sarebbe passato nella sua diocesi nella prossima visita in Argentina, o accettava la visita del papa alla sua diocesi e Jon Sobrino non poteva passare per di là.

 

Non voglio stancarla ulteriormente, anche se mi credo potrei raccontale più storie. Anche di vescovi che si sono opposti alla mia partecipazione a conferenze in Spagna. Questa “cattiva fama” non credo che fosse qualcosa specificamente personale, ma parte della campagna contro la teologia della liberazione.

 

Ed ora formulo la mia seconda ragione per non aderire. Ha a che vedere meno direttamente con i documenti della Congregazione della Fede e più con il modo di precedere del Vaticano negli ultimi 20 o 30 anni. In questi anni molti teologi e teologhe, gente buona, con limitazioni ovviamente, amanti di Cristo e della Chiesa, e con un grande amore ai poveri, sono stati perseguitati senza misericordia. E non solo loro. Anche vescovi, come lei sa, mons. Romero in vita (tuttora c’è chi non lo vuole in Vaticano, o per lo meno non vogliono il mons. Romero reale, ma un mons. Romero annacquato), dom Helder Camara dopo la sua morte, mons. Proaño, dom Samuel Ruiz, e un molto lungo “eccetera”. Han cercato di decapitare, a volte in malo modo, la CLAR e migliaia di religiose e religiosi di immensa generosità, e ciò è molto doloroso a causa dell’umiltà di molti di essi. E soprattutto hanno fatto tutto il possibile perché spariscano le comunità di base, i piccoli, i privilegiati di Dio.

 

Aderire alla notificatio, che esprime in buona parte questa campagna e questo modo di procedere, molte volte chiaramente ingiusto, contro tanta gente buona, sento che sarebbe come approvarla. Non voglio peccare di arroganza, però non credo che aiuterebbe la causa dei poveri di Gesù e della Chiesa dei poveri.

 

Le critiche alla mia teologia del teologo Joseph Ratzinger.

 

Questo tema mi sembra importante per comprendere dove siamo, anche se non è una ragione per non firmare la notificatio.

Poco prima di pubblicare la prima Istruzione su alcuni aspetti della teologia della liberazione, corse, in forma manoscritta, un testo del card. J. Ratzinger su questa teologia. P. Cesar Jerez, allora provinciale, ricevette il testo da un amico gesuita, degli Stati Uniti. Il testo fu pubblicato dopo in 30 Giorni, III/3 (1984), pp. 48-55.

 

Io potei leggerlo, già pubblicato ne Il Regno. Documenti 21 (1984) pp. 220- 223. In questo articolo si menzionano i nomi di 4 teologi della liberazione: Gustavo Gutierrez, Hugo Assmann, Ignacio Ellacuría e il mio, che è quello più frequentemente citato. Cito testualmente quello che dice su di me. I riferimenti sono tratti dal mio libro “Jesùs en America Latina. Su significado para la fe e la cristología”, San Salvador 1982.


Ratzinger: “rispetto alla fede dice, per esempio, J. Sobrino: «l’esperienza che Gesù ha di Dio è radicalmente storica”; “la sua fede si converte in fedeltà”. Sobrino rimpiazza fondamentalmente, di conseguenza, la fede con la “fedeltà alla storia” (fedeltà alla storia, 143-144).

Commento. Quello che io dico testualmente è: “la sua fede nel mistero di Dio si converte in fedeltà a questo mistero”, con ciò voglio sottolineare la realtà del processo dell’atto di fede. Dico anche che “la lettera (agli Ebrei) riassume mirabilmente come si realizza in Gesù la fedeltà storica e nella storia attraverso la pratica dell’amore agli uomini e la fedeltà al mistero di Dio” (p .144). L’interpretazione di Ratzinger di sostituire la fede con la fedeltà alla storia è ingiustificata. Ripeto più volte: “fedeltà al mistero di Dio”.

 

Ratzinger: “Gesù è fedele alla profonda convinzione che il mistero della vita degli uomini… è realmente l’ultimo” (p. 144). Qui si produce quella fusione tra Dio e la storia che dà la possibilità a Sobrino di conservare, riguardo a Gesù, la formula di Calcedonia, però con un significato totalmente alterato: si vede come i criteri classici dell’ortodossia non sono applicabili all’analisi di questa teologia.

 

Commento. Il contesto di ciò che ho scritto è che “la storia rende credibile la sua fedeltà a Dio, e la fedeltà a Dio, a colui che lo inviò, scatena la fedeltà alla storia, all’ ‘essere a favore degli altri’ (p. 144). Non confondo assolutamente Gesù e la storia. Inoltre, la fedeltà non è ad una storia astratta, o lontana da Dio o assolutizzata, ma è la fedeltà all’amore dei fratelli, che è ciò che ha carattere di realtà ultima specifica nel Nuovo Testamento ed è mediazione della realtà di Dio.

 

Ratzinger: “Ignacio Ellacurìa insinua questo dato nella tappa del libro su questo tema: Sobrino “dice di nuovo… che Gesù è Dio, però aggiungendo immediatamente che il Dio vero è solo quello che si rivela storicamente e scandalosamente in Gesù e nei poveri, che continuano la sua presenza. Solo chi mantiene in tensione e unitariamente queste due affermazioni è ortodosso”.

 

Commento. Non vedo che c’è di male in quanto affermato da Ellacuria.

 

Ratzinger: “il concetto fondamentale della predicazione di Gesù è il “Regno di Dio”. Questo concetto si ritrova anche nel nucleo delle teologie della liberazione, però letto su un sottofondo di ermeneutica marxista. Secondo Jon Sobrino, il regno non deve intendersi in modo spiritualista, né universalista, né nel senso di una riserva escatologia astratta. Deve essere inteso in forma partitica e orientato verso la prassi. Solo a partire dalla prassi di Gesù, e non teoricamente, si può definire quello che significa il Regno; lavorare con la realtà storica che ci circonda per trasformarla nel Regno” (p. 166).

 

Commento: É falso che io parli del regno di Dio avendo alla base l’ermeneutica marxista. È certo che do un’importanza decisiva al riprodurre la prassi di Gesù per ottenere un concetto che possa avvicinarci a quello che ebbe Gesù. Però quest’ultimo è un problema di epistemologia filosofica, che ha anche radici nella comprensione biblica di ciò che è conoscere. Come dicono Geremia ed Osea: “fare giustizia, non è questo conoscermi?”.

 

Ratzinger: “In questo contesto voglio anche menzionare l’interpretazione impressionante, però in definitiva spaventosa, della morte e della resurrezione che fa Jon Sobrino. Stabilisce anzitutto, contrariamente alle concezioni universaliste, che la resurrezione è, in primo luogo, una speranza per i crocifissi, i quali costituiscono la maggioranza degli uomini: tutti questi milioni ai quali l’ingiustizia strutturale viene imposta come una lenta crocifissione (176). Il credente prende parte anche lui alla signoria di Gesù sulla storia attraverso l’instaurazione del Regno, e cioè nella lotta per la giustizia e per la liberazione integrale, nella trasformazione delle strutture ingiuste in strutture più umane. Questa signoria sulla storia si esercita nella misura in cui si ripete nella storia il gesto di Dio che risuscita Gesù, e cioè dando vita ai crocifissi della storia (181). L’uomo ha assunto il ruolo di Dio, e in questo si manifesta tutta la trasformazione del messaggio biblico in modo quasi tragico, se si pensa a come questo tentativo di imitazione di Dio si è realizzato e si realizza”.

 

Commento. Se la resurrezione di Gesù è quella di un crocifisso, mi sembra almeno plausibile comprendere teologicamente la speranza in primo luogo per i crocifissi. A questa speranza possiamo partecipare “tutti”, nella misura in cui partecipiamo alla croce.

 

E “ripetere nella storia il gesto di Dio” è ovviamente un linguaggio metaforico. Non ha niente a che vedere né con hybris né con arroganza. Fa risuonare invece l’ideale di Gesù: “siano buoni come il Padre celeste è buono”.

 

Fin qui il commento alle accuse di Ratzinger. Non riconosco la mia teologia in questa lettura dei testi. Inoltre, come lei ricorderà, il p. Alfaro scrisse un giudizio sul libro dal quale Ratzinger attinge le citazioni, senza riscontrare alcun errore nel suo articolo “Analisis del libro ‘Jesùs en America Latina’ de Jon Sobrino” (Revista Latinoamericana de Teologia 1, 1984, pp. 130-120). Per quanto riguarda l’ortodossia conclude testualmente:

Espressa e ripetuta affermazione della fede nella divinità (filiazione divina) di Cristo lungo tutto il libro;

riconoscimento credente del carattere normativo e vincolante dei dogmi cristologici, definiti dal magistero ecclesiale nei concili ecumenici;

fede nell’escatologia cristiana, iniziata già ora nel presente storico come anticipazione della sua pienezza futura meta-storica (oltre la morte);

fede nella liberazione cristiana come “liberazione integrale”, vale a dire come salvezza totale dell’uomo nella sua interiorità e corporeità, nella sua relazione con Dio, con gli altri, con la morte, con il mondo. Queste 4 verità della fede cristiana sono fondamentali per ogni cristologia. Sobrino le afferma senza alcuna ambiguità” (117-118).

 

Ed è grave che, senza citare il mio nome, l’Istruzione del 1984, IX, Traduzione “teologica di questo nucleo”, ripete alcune idee che Ratzinger pensa di aver trovato nel mio libro “alcuni arrivano perfino al punto di identificare Dio e la storia, e a divenire la fede come ‘fedeltà alla storia’” (n. 4).

 

Credo che il card. Ratzinger, nel 1984, non comprese totalmente la teologia della liberazione, né sembra aver accettato le riflessioni critiche di Juan Luis Segundo, “Teología de la liberación. Respuesta al cardenal Ratzinger”, Madrid 1985 e di I. Ellacurìa, “Estudio teológico-pastoral de la Instrucción sobre algunos aspectos de la teologia de ‘la liberación”, Revista latinoamericana de Teologia 2 (1984) 145-178. Personalmente credo che fino al giorno d’oggi gli è difficile capirla. E mi ha disgustato un commento che ho letto in almeno due occasioni É poco obbiettivo e può arrivare ad essere ingiusto, l’idea cioè che “quello che cercano (alcuni) teologi della liberazione è conseguire fama, richiamare l’attenzione”.

 

Concludo. Non è facile dialogare con la Congregazione della fede. A volte sembra impossibile. Sembra ossessionata dal trovare qualsiasi limitazione o errore, o dal ritenere tale quella che può essere una concettualizzazione distinta di qualche verità di fede. A mio parere qui c’è, in buona misura, ignoranza, pregiudizio ed ossessione per stroncare la teologia della liberazione. Sinceramente non è facile dialogare con questo tipo di mentalità.

 

Quante volte ho ricordato il presupposto degli Esercizi: “ogni buon cristiano deve essere più disposto a salvare la proposizione del prossimo che a condannarla”. In questi giorni ho letto nella stampa un paragrafo del libro di Benedetto XVI, di prossima pubblicazione, su Gesù di Nazaret: “credo che non sia necessario dire espressamente che questo libro non è in assoluto un atto magisteriale, ma l’espressione della mia ricerca personale del “volto del Signore” (Sal 27). Pertanto, ognuno ha la libertà di contraddirmi. Solo chiedo alle lettrici e ai lettori quell’anticipo di simpatia senza la quale non esiste comprensione possibile”.

Personalmente offro al papa simpatia e comprensione. E desidero fortemente che la Congregazione della fede tratti i teologi e teologhe allo stesso modo.

 

Problemi di fondo importanti

 

Nella mia risposta di marzo 2005 tentai di spiegare il mio pensiero. È stato inutile. Per questo adesso non commenterò, per l’ennesima volta, le accuse che mi fa la notificatio, perché fondamentalmente sono le stesse. Solo voglio menzionare alcuni temi importanti, sui quali in futuro potremmo offrire alcune riflessioni.

 

I poveri come luogo del fare teologia. È un problema di epistemologia teologica, esigito o almeno suggerito dalla Scrittura. Personalmente, non dubito che dai poveri si vede meglio la realtà e si comprende meglio la rivelazione di Dio.

 

Il mistero di Cristo sempre ci sorpassa. Mantengo come fondamentale che esso sia sacramento di Dio, presenza di Dio nel nostro mondo. E mantengo come ugualmente fondamentale che sia un essere umano e storico concreto. Il docetismo mi sembra che continui ad essere ancora il maggior pericolo della nostra fede.

 

La relazionalità costitutiva di Gesù con il Regno di Dio. Nelle parole più semplici possibili, il regno è un mondo come lo vuole Dio, nel quale ci sia giustizia e pace, rispetto e dignità, nel quale i poveri stiano al centro degli interessi dei credenti e delle chiese. Ugualmente, la relazionalità costitutiva di Gesù con un Dio che è Padre, nel quale confida totalmente, e in un Padre che è Dio, davanti al quale si pone in totale disponibilità.

 

Gesù è figlio di Dio, la parola fatta “sarx” (carne). In ciò vedo il mistero centrale della fede. La tra-scendenza si è fatta tra-discendenza per arrivare ad essere con-discendenza.

 

Gesù porta la salvezza definitiva, la verità e l’amore di Dio. La fa presente attraverso la sua vita, prassi, denuncia profetica e annuncio utopico, croce e resurrezione. E Puebla, rifacendosi a Mt 25, afferma che Cristo “ha voluto identificarsi con tenerezza speciale con i più deboli e poveri” (n. 196). Ubi pauperes ibi Christus.

 

Molte altre cose sono importanti nella fede. Solo ne voglio menzionare ancora una, che Giovanni XXIII e il card. Lercaro proclamarono nel Vaticano II: la Chiesa come “Chiesa dei poveri”. Chiesa di vera compassione, di profezia per difendere gli oppressi e di utopia per dar loro speranza.

 

In un mondo gravemente malato come l’attuale proponiamo come utopia che “extra pauperes nulla salus”.

 

Di questi e di molti altri temi bisogna parlare più approfonditamente. Credo che sia bene che tutti dialoghiamo. Personalmente sono disposto a ciò.

 

Carissimo padre Kolvenbach, questo era quanto volevo comunicarle. Lei sa bene che, nonostante queste cose siano sgradevoli, posso dirle che sono in pace. Una pace che viene dal ricordo di innumerevoli amici e amiche, di cui molti martiri. In questi giorni, il ricordo di p. Jon Cortina ci riporta nuovamente la gioia. Se mi permette di parlarle con totale sincerità, non mi sento “a casa” in questo mondo di curie, diplomazie, calcoli, potere, … Essere distante da “questo mondo”, nonostante io non l’abbia cercato, non mi produce angoscia. Se lei mi capisce bene, mi da addirittura sollievo.

 

Sento che la notificatio produrrà qualche sofferenza. Per dirlo con semplicità, soffriranno i miei familiari e amici, una sorella che ho, molto vicina a mons. Romero e ai martiri. Penso anche che questo renderà la vita più difficile, per esempio, al mio grande amico p. Rafael de Sivatte. Se non fossero pochi i problemi che ha già per mantenere con serietà il Dipartimento di Teologia – e lo fa molto bene, grazie alla sua grande capacità, dedizione e scienza – dovrà adesso trovare un altro professore di cristologia e, come lei saprà, dovrà pure cercare un altro professore di storia della chiesa, dato che il p. Rodolfo Cardenal non può insegnare perché non è ben visto dalla gerarchia del paese.

 

Non so se questa lunga lettera la aiuterà nelle sue conversazioni con il Vaticano. Spero di sì. Ho cercato di essere il più sincero possibile. La ringrazio per tutti i suoi sforzi fatti per difenderci.

 

La ricordo con affetto davanti al Signore.

 

 

p. Jon Sobrino