IL VATICANO RINNOVA LA POLEMICA CHE NEGA LE SUE RESPONSABILITÀ NELLA SHOAH
Pubblichiamo uno stralcio dal libro di Maria Mantello, "Ebreo. Un bersaglio senza fine. Storia dell’antisemitismo", Scipioni editore, 2002
Reticenze, silenzi,
collaborazionismi di Santa Romana Chiesa col nazifascismo
da ItaliaLaica - Giornale dei laici italiani 21-4-2007
“PIO XI fece
qualche timido tentativo, ma non ebbe il coraggio di impedire le leggi razziali,
PIO XII non fece neppure questo”.
(...)
Eugenio Pacelli prese il nome di Pio XII, per sottolineare la continuità della
sua azione ecclesiastica con quella del predecessore. Egli era stato, per conto
di Pio XI, l’artefice del Concordato con Hitler, che a quel patto aveva subito
dato il significato di lotta all’ebraismo mondiale.
Pacelli aveva appoggiato tutti i fascismi: Mussolini, gli ustascia croati,
Salazar e Francisco Franco, per la cui vittoria contro il fronte dei democratici
in quello stesso 1939 esultava: I disegni della Provvidenza, amatissimi
figlioli, si sono manifestati ancora una volta sulla Spagna eroica, nazione
eletta da Dio a principale strumento di evangelizzazione del Nuovo Mondo e come
baluardo inespugnabile della fede cattolica. (radiomessaggio agli spagnoli
del 16 aprile 1939).
(...) Pochi giorni dopo dalla sua incoronazione, Pacelli scriveva ad Hitler per
ricordare con cara memoria la collaborazione di quando era stato Nunzio
Apostolico in Germania, affinché questa potesse ora, in ispirito di pronta
collaborazione e vantaggio delle due parti, giungere a un salutare sviluppo.
Il concordato che Pacelli ricordava con “cara memoria“ ad Hitler era stato
firmato il 20 luglio del ’33, sei giorni dopo l’approvazione della legge
sulla sterilizzazione degli “affetti da malattie ereditarie”, categoria in
cui sarebbero stati accreditati anche gli oppositori politici del nazismo.
Che il razzismo fosse l’essenza del nazionalsocialismo, Adolf Hitler lo andava
enunciando già dagli anni ‘20. I suoi primi atti di governo, non erano altro,
dunque, che la messa in pratica di quanto aveva scritto nel Mein Kampf: Lo
Stato nazionale…deve mettere la razza al centro della vita generale. Deve
preoccuparsi di conservarla pura. Deve fare in modo che solo chi è sano generi
figli, che sia scandaloso il mettere al mondo bambini quando si è malati o
difettosi…Basterebbe impedire per secoli la capacità e la facoltà di
generare nei malati di corpo e di spirito…si avrà una razza che, almeno in
linea di principio, avrà eliminato i germi dell’odiena decadenza fisica e
morale.
Il Concordato con la Chiesa cattolica era stato firmato pochi mesi dopo da quel
23 marzo, data in cui Hitler aveva assunto i pieni poteri in Germania. Il
Vaticano era il primo paese straniero a riconoscere il governo di Hitler.
Già in aprile si cominciavano a manifestare i sinistri disegni antiebraici col
“boicottaggio” delle attività commerciali e professionali (1 aprile), con
l’esclusione dalla pubblica amministrazione (7 aprile), con l’introduzione
del numero chiuso negli studi statali (25 aprile), con l’esclusione dalla
cultura, dallo spettacolo e dall’informazione (22 settembre), con la
privazione di ereditare proprietà terriere (29 settembre). Intanto le violenze
e i pestaggi impuniti di ebrei e antinazisti dilagavano e dal 10 maggio si
bruciavano, i libri che il regime considerava pericolosi, come quelli di A.
Einstein, di Erich Maria Remarque, di Thomas Mann, di Proust, di Gide, di Zola,
di Freud… solo per citare i nomi più noti.
Ecco il rogo di libri raccontato da W. L. Shirer nella sua Storia del terzo
Reich: la sera del 10 maggio del 1933, circa quattro mesi dopo la nomina di
Hitler a cancelliere, ebbe luogo a Berlino, una scena a cui non si era assistito
nel mondo occidentale dai tempi del tardo Medioevo. Verso la mezzanotte, una
fiaccolata di migliaia di studenti fece capo a una piazza dell’Unter den
Linden di fronte all’Università di Berlino. Le torce accese furono gettate su
una montagna di libri raccolti in quel luogo, e mentre le fiamme li avvolgevano
altri libri venivano lanciati sul fuoco, finché ne furono distrutti circa
ventimila. Scene simili ebbero luogo anche in parecchie altre città.
Il razzismo come ideologia, la violenza come strumento erano sotto gli occhi di
tutti, e Pacelli non poteva certo ignorare che quel trattamento era riservato
anche a quei cattolici, come il giornalista Fritz Gerlinch, che ancora avevano
il coraggio di opporsi al nazismo; a quanti militavano nel partito cattolico del
Centro, su cui la Chiesa per spianare la strada al Concordato premeva
perché si sciogliesse. Pacelli conosceva bene la situazione. La diplomazia lo
informava anche degli ebrei che si licenziavano “spontaneamente” o si
suicidavano, e di come nella Baviera cominciavano a veicolare le proposte di far
studiare ad esempio gli studenti di medicina ebrei solo su malati e cadaveri
ebrei, e di poter essere assistiti solo da infermieri ebrei. La situazione della
Germania doveva essere già nel 1933 talmente drammatica, che perfino
l’ambasciatore italiano a Berlino, Vittorio Cerruti, esprimeva il proprio
raccapriccio in una sua relazione del 5 maggio indirizzata a Mussolini. Egli
raccontava di essersi trovato di fronte ad uno “spettacolo poco civile e
disgustoso, per il miscuglio di burocrazia e brutalità con cui veniva eseguito”.
Nel ’35 le leggi di Norimberga tolgono agli ebrei la piena cittadinanza e
vietano i matrimoni con gli “ariani”.
Nel 1938, con l’annessione dell’Austria (Anschluss), inizia la
colonizzazione dell’Europa da parte di Hitler, la conquista del mondo da
intrapendere col successivo conflitto mondiale (costato circa cinquanta milioni
di morti) da parte di una razza che si riteneva superiore: la più alta
umanità sulla terra -come era scritto nel Mein Kampf- “in marcia su
quella via che dall’odierna ristrettezza di spazio vitale condurrà
all’acquisto di nuovo territorio…punto d’appoggio per la politica di
potenza”.
Da questo momento, con il contributo dei collaborazionisti locali, senza i quali
il massacro non si sarebbe potuto realizzare, si ha la “caccia agli ebrei”:
alle discriminazioni seguono le deportazioni, “le uccisioni selvagge” (Einsatzgruppen),
l’avvelenamento negli “autocarri a gas”…fino alla “soluzione
finale”: il sistema scientifico dello sterminio con cui si intendeva far
scomparire dall’Europa e dal mondo gli ebrei (...).
Durante il suo pontificato Pacelli, tramite le vie diplomatiche, i nunzi
apostolici, semplici testimonianze, la stampa clandestina, riceveva continue
denunce dei crimini contro gli ebrei. Ma mentre su questo taceva, si compiaceva,
ad esempio, per il successo del governo fascista di Vichy in Francia e del suo
maresciallo Pétain, in cui vedeva il segno del fortunato rinnovamento della
vita religiosa in Francia.
Vale appena ricordare, che sarà proprio l’azione collaborazionista di Pètain
a permettere che più di 76.000 ebrei francesi venissero portati a morire ad
Auschwitz.
Nel 1943 gli inglesi avevano largamente diffuso un libretto che già nel titolo,
Lo sterminio degli ebrei, costituiva un’equivocabile denuncia.
Forse non si sapeva dell’entità numerica del massacro, ma che esso fosse in
atto non lo si poteva ignorare, lo sapevano gli alleati, lo sapeva la Croce
rossa internazionale, lo sapeva il papa. Questi, nel 1942, quando l’entità
della tragedia della Soluzione Finale era un dato incontrovertibile e sotto le
pressioni delle ambasciate inglesi ed americane perché egli prendesse
posizione, si lasciò andare nel discorso della Vigilia di Natale ad una
generica pietà verso persone che senza veruna colpa propria, talora solo per
ragione di nazionalità o stirpe, sono destinate alla morte o a un progressivo
deperimento.
Erano parole talmente vaghe e generiche da potersi riferire a chiunque. (...)
Papa Pacelli almeno di un fatto crudele fu lui stesso testimone: la deportazione
degli ebrei romani il 16 ottobre del 1943. A Roma gli ebrei romani, vennero
praticamente arrestati sotto le sue finestre, e Pacelli tacque anche allora.
Egli aveva saputo subito del rastrellamento in quell’alba del 16 ottobre del
’43, la principessa Enza Pignatelli lo aveva avvisato e Pacelli aveva avuto la
conferma attraverso l’ambasciata tedesca, ma non intervenne. Sappiamo che fu
informato costantemente dai vescovi locali del triste viaggio nei vagoni
bestiame blindati, delle grida di disperazione, dei pianti dei bambini, ma pare
che la sua preoccupazione più impellente fosse per l’impatto che la
deportazione avrebbe avuto sulla Resistenza romana: sui “comunisti” a cui la
assimilava. Quei comunisti contro cui, alle elezioni democratiche del 1948
lancerà la sua potente scomunica.
Il papa temeva che la imminente disfatta tedesca avrebbe aperto la strada al
comunismo, e per questo vedeva con grande preoccupazione sia le azioni
partigiane, sia la possibile vittoria degli angloamericani alleati della Russia
comunista. L’ambasciatore tedesco in Italia, Ernest von Weizsacker nel
settembre del ‘43 aveva comunicato a Berlino che era: sogno del Vaticano
che le potenze occidentali riconoscessero i loro veri interessi, finchè erano
ancora in tempo e agissero in comune con i tedeschi per salvare la civiltà
occidentale dal bolscevismo.
Eppure a guerra finita, il papa stesso sostenne di aver difeso gli ebrei e di
aver condannato il nazionalsocialismo. Niente di più falso, evidentemente il Pastor
Angelicus recitava come nel film che aveva voluto su di lui e nel quale era
lo ieratico attore protagonista. Molti ebrei si potettero sottrarre alla
deportazione per l’aiuto generoso di semplici cittadini italiani, ma anche di
molti religiosi che li accolsero. Peccato che poi a guerra finita, molti di
questi stessi religiosi abbiano avuto anche il merito di ospitare e far
espatriare i criminali nazisti, che proprio grazie alla via diplomatica vaticana
poterono trovare sicuri lasciapassare per il sud America.