COSA PENSA LA CHIESA QUANDO PARLA DI DIALOGO?
Gustavo Zagrebelsky
la Repubblica - 10-1-2007
Il dialogo, anche quello così frequentemente
auspicato tra i cattolici e gli altri (che si indicano, in negativo, come i
non-cattolici), presuppone una condizione: che le parti si riconoscano pari, in
razionalità e moralità. Se si parte dal presupposto che l´altro non è solo
uno che pensa diversamente, ma è uno da meno o, addirittura, è un mentecatto o
un immorale, il dialogo sarà perfettamente inutile; sarà tempo perduto,
adescamento o simulazione. Dove vige questo pregiudizio, ci si ignora o ci si
combatte. Si potrà anche fare finta di dialogare, come lo stratega che
procrastina lo scontro e rafforza intanto le posizioni. Ma dialogare
onestamente, no, non si potrà. Il maestro del dialogo è quel Socrate che
giungeva perfino a gioire di soccombere nella discussione (chi è colto in
errore, si libera di un male e quindi riceve un bene). Ma non occorre essere
Socrate per comprendere che se non c´è reciproca disponibilità e apertura,
tanto vale andarsene ognuno per la sua strada, sempre che non si voglia prendere
a bastonate. Onde, se sinceramente si dice: "Il dialogo, così necessario,
tra laici e cattolici" (J. Ratzinger, L´Europa nella crisi delle culture,
Il Regno – documenti, 9/2005), si dovrebbe supporre che questo riconoscimento
di razionalità e moralità sia acquisito. Ma è così?
Nei pubblici interventi della gerarchia cattolica sulla condizione della fede
cristiana nel mondo attuale, domina un dubbio angoscioso circa la fine imminente
di un ciclo storico, iniziato millesettecento anni fa, con l´unione della fede
cristiana e della potenza politica, rappresentata allora dall´Impero romano. Il
dubbio non è che la fede religiosa, e tanto meno la fede cristiana, in quanto
tali, siano destinate a scomparire: l´evidenza mostra il contrario.
Il dubbio serpeggiante è invece che la fede cattolica sia destinata a essere
assorbita nella sfera puramente soggettiva delle essenze spirituali individuali,
perdendo così valore oggettivo e vincolante di coesione sociale. In una
formula: credere senza appartenere. Così si spiega l´insistenza, mai stata così
accentuata, sulla dimensione necessariamente pubblica o politica della religione
cristiana cattolica (e solo di questa). L´Europa, si ripete all´infinito, è
in decadenza e, si aggiunge, ciò deriva dal fatto che l´oggettività sembra
essere diventato il privilegio esclusivo della scienza. Tutto ciò che scienza
non è, sarebbe irrimediabilmente sottoposto al relativismo delle credenze
individuali che, nella sfera pubblica democratica, si esprimono illimitatamente
e arbitrariamente con la forza del numero.
Nihil sub sole novum. Se leggessimo oggi la Quanta cura, l´Enciclica del
Sillabo (1861), troveremmo molte ragioni di riflessione comparativa tra lo
spirito di allora e quello che domina oggi nelle alte sfere. In quella «tristissima
età nostra», scriveva Pio IX, si trattava di difendersi dalla secolarizzazione
politica, dal liberalismo, dalla libertà di coscienza, dalla riduzione dell´autorità
a forza del numero, dalla filosofia senza teologia; in breve: dalla «moderna
civiltà». Oggi molte cose sono cambiate, a iniziare dal linguaggio, onde non
si parla più, ad esempio, di uomini empi «che schizzano come i flutti di
procelloso mare la spuma delle loro fallacie e promettono libertà, mentre sono
schiavi della corruzione» (una citazione tra tante). Ma la sensazione cattolica
dell´assedio in «una Europa – diciamo così (così dice il papa Benedetto
XVI) – in decadenza» non è diversa. Le cause sono ancora quelle di allora,
attualizzate: non più il liberalismo ma la democrazia «insana», cioè basata
sull´onnipotenza del numero; non più la libertà di coscienza ma il «relativismo
etico»; non più la filosofia atea ma la scienza che non conosce limiti. Allora
come oggi, la radice del male è il rifiuto di riconoscere nel magistero della
Chiesa, in ultima e decisiva istanza, il fondamento vincolante della civiltà
europea, un rifiuto che sottoporrebbe l´Europa di oggi a una "prova di
trazione" fuori della tradizione cristiana.
Ciò che sembra diverso è l´atteggiamento: allora, alla denuncia del male,
seguiva il rifiuto del mondo ostile; oggi, l´apertura al mondo. I nemici di
allora sono diventati «i nostri amici che non credono», con i quali si cerca
meritoriamente non solo di convivere, ma anche di collaborare. Non si lanciano
anatemi, ma si danno consigli (come quello di «vivere e indirizzare la propria
vita come se Dio ci fosse») e si partecipa intensivamente a quelle procedure
politiche della democrazia che, un tempo, erano condannate come opera del
demonio (v. L. Zannotti, La sana democrazia. Verità della Chiesa e principi
dello Stato, Torino, Giappichelli, 2005). Insomma: la Chiesa vuole essere
"dialogante".
Purtroppo però, adottato un atteggiamento esteriore amichevole, non sembra
mutato quello interiore. Gli interlocutori continuano a essere considerati non
come dei diversi, ma come degli inferiori, sul piano morale e razionale.
La morale. La questione non si pone – speriamo – nei termini triviali di una
graduatoria di meriti e demeriti. Nessuno dovrebbe arrischiarsi a rivendicare un
primato di questo genere. Non può esserci una competizione come questa, da cui
tutti rischierebbero di uscire malconci. Accade però talvolta che siano proprio
alcuni non credenti autolesionisti a tributare riconoscimenti di superiorità ai
credenti; oppure, che da parte cattolica, anche altolocata, si ricorra ancora
oggi a denunce di collusioni demoniache, non solo per modo di dire (la riduzione
delle figure della fede a simboli è condannata) onde, anche chi scrive questo
articolo potrebbe essere un adepto, nel migliore dei casi incosciente, di
Satana. La questione è diversa; è, per così dire, di ontologia morale. Solo i
credenti – questo il Leitmotiv – sarebbero capaci di "senso della
vita". La vita eterna promessa da Dio ai suoi fedeli dà un significato
alla loro vita mortale. Se tutto si consuma quaggiù, senza premi e punizioni
lassù, allora una cosa vale l´altra e, per ricorrere a Dostoevskij, «tutto è
permesso». Ecco allora il relativismo, l´indifferentismo, l´egoismo, il puro
calcolo di utilità, la sopraffazione, la disperazione, il non-senso della vita:
in breve, l´impossibilità di una morale esistenziale e, dunque, di una vita
rivolta al bene piuttosto che al male. Così ragionando, però, non si è
sfiorati dall´idea che si possa dire: la vita non ha un senso ma siamo noi a
doverglielo dare e, come si può fondare una morale sulla vita immortale dell´al
di là, così si possono cercare i fondamenti della vita morale nell´al di qua,
precisamente nel comune destino di noi mortali. Non si considera la possibilità
che qui, nella libertà, ci possa essere una ricerca morale – non facciamo
graduatorie – degna almeno quanto la fede in promesse di ricompense e
punizioni. Postulare una morale esterna, dispensata da un´autorità, sia pure
paterna come la Provvidenza divina, significa, nel grande colloquio sulla libertà
che occupa un celeberrimo capitolo (II, 5, 5) dei Karamazov, dare ragione all´Inquisitore
e torto al Cristo.
La ragione. Secondo tradizione cattolica, fede e ragione coincidono. Entrambe
procedono da Dio, e Dio non può contraddire se stesso. Se contraddizione c´è,
è solo apparente, in quanto una «verità di ragione» contraria alla fede è,
in realtà, «totalmente falsa» (Dei Filius, 1870, del Concilio Vaticano I).
Questa impostazione subordinava bensì la ragione alla fede ma, almeno, ne
riconosceva la distinzione, una distinzione che oggi sembra sfumare. Il
magistero cattolico segue scoscesi percorsi con l´intento di proporre un Dio
avente natura razionale (logos) e sostenere che, nella concezione
cristiano-cattolica attuale, fede e ragione coincidono. L´essere umano "di
ragione" è tale perché è anche "di fede", onde chi è senza o
contro la fede, è anche senza o contro la ragione. Queste proposizioni
rappresentano una svolta. Nella tradizione ebraico-cristiana (fino a poco fa la
tradizione), Dio è potenza e amore; la nuova filogenesi greco-cristiana propone
l´innesto del Cristianesimo nella concezione del Kosmos, quale ordine del mondo
corrispondente alla ragione regolatrice sovrana. La "natura", poiché
nessuno può pretendere di alterarla, diventa "diritto naturale";
logos e nomos finiscono per coincidere. Proclamandosi custode dell´ordine
natural-razionale, la Chiesa può proporsi come custode dell´ortodossia della
ragione; non solo della ragione filosofica, come è stato per secoli, ma anche
della ragione scientifica, cioè della ragione applicata alle scienze naturali.
Gli uomini di Chiesa diventano scienziati; anzi, scienziati accreditati più di
tutti gli altri, perché la loro "ragione" onnicomprensiva, che si
abbevera alla scienza di Dio, la teologia, può vantare un´esclusiva garanzia
di verità. Per qualche misterioso ricorso storico, riappare il volto del
cardinale Bellarmino, con la sola differenza che oggi, invece d´invocare l´autorità
delle Scritture contro Galileo, si invoca il logos divino.
Su simili premesse, è chiaro che il dialogo onesto che si auspicava all´inizio
è impossibile. L´interlocutore non cattolico, per la Chiesa, è uno che, in
moralità e razionalità, vale poco o niente; è uno che le circostanze inducono
a tollerare, ma di cui si farebbe volentieri a meno. A ben pensarci, la
"amichevole" proposta ai non credenti di «vivere [almeno] come se Dio
esistesse» è conseguenza di questo disprezzo. Se ci si confronta con loro, è
perché le condizioni storiche concrete non consentono di fare altrimenti. Il
dialogo non è questione di convinzione, ma di opportunismo dettato da forza
maggiore o da ragioni tattiche, nell´attesa che cambi la situazione. C´è una
distinzione molto cattolica tra tesi e ipotesi, una distinzione che consente
alla Chiesa i più spericolati adattamenti pratici anche molto distanti dalle
sue concezioni del bene e del giusto. La tesi è la dottrina cattolica nella sua
purezza; l´ipotesi è quanto di essa le circostanze consentono di realizzare.
Il dubbio è che il dialogo, per la Chiesa, sia solo "in ipotesi", in
vista di tempi migliori, come è per lo stratega di cui si diceva, che prende
tempo e accresce le sue munizioni.
Diverso era lo spirito del dialogo che anima molte pagine, aperte alla speranza,
del Concilio Vaticano II, nelle quali il "mondo moderno" è assunto
come interlocutore positivo, portatore di moralità ed espressivo di segni
meritevoli di ascolto. Diversa era la concezione del rapporto tra fede e
ragione, tra fede e attività dei cristiani nel mondo. La subordinazione al
magistero della Chiesa nel campo della fede non era vista in contraddizione con
la loro autonomia e responsabilità nei campi della ragione pratica. Questo era
il terreno sul quale la speranza di un dialogo onesto era costruita, il terreno
sul quale anche l´accettazione piena della democrazia da parte del mondo
cattolico poteva fondarsi. Ma è ancora così?
Nel mese di dicembre del 2005, nel pieno di accese polemiche sulle nostre
questioni di bioetica, durante le quali si dissero parole chiuse a ogni
confronto («principi non negoziabili», appelli all´obiezione di coscienza,
inviti al non-voto di candidati non in linea, ecc.), il presidente della
Conferenza episcopale italiana, cardinale Ruini, denunciati ancora una volta il
«secolarismo radicale» e il «relativismo» laico, sorprese tutti con queste
parole: «Si tratta di affidarsi, anche in questi ambiti, al libero confronto
delle idee, rispettandone gli esiti democratici pure quando non possiamo
condividerli […]; è bene che tutti ne prendiamo la più piena coscienza, per
stemperare il clima di un confronto che prevedibilmente si protrarrà assai a
lungo, arricchendosi di sempre nuovi argomenti». Sagge parole di dialogo. Ma
sia lecita la domanda: pronunciate "in tesi" o "in ipotesi"?
(10-1-2007)