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IL GIORNO IN CUI IL PAPA NERO PIANSE. LA VIA CRUCIS DI P. ARRUPE


ADISTA n° 12 del 9.2.2008

DOC-1955. BOLOGNA-ADISTA. A molti, appena appresa la notizia dell’elezione di p. Adolfo Nicolás a preposito generale della Compagnia di Gesù, è venuto spontaneo pensare a p. Pedro Arrupe, superiore dei gesuiti dal 1965 al 1983: entrambi spagnoli – Arrupe di Bilbao, Nicolàs di Villamuriel de Cerrato Palencia –, entrambi impegnati nel servizio pastorale in Estremo Oriente, entrambi provinciali dei gesuiti per il Giappone prima di essere scelti come successori di sant’Ignazio di Loyola (v. Adista n. 9/08).

Superiore dei gesuiti dal 1965 al 1983, p. Arrupe lasciò di fatto la carica nel 1981 – in seguito alla trombosi che lo colpì – anche se formalmente la conservò fino al 1983. In realtà Arrupe avrebbe voluto che le sue dimissioni venissero accettate nel momento stesso in cui si ammalò, ma allora ci fu una manovra di Giovanni Paolo II – attuata dai ‘suoi’ uomini all’interno della Compagnia di Gesù, p. Paolo Dezza e p. Giuseppe Pittau – per ritardare di due anni la convocazione della Congregazione con l’obiettivo di scongiurare che venisse eletto l’assistente di Arrupe, quel p. Vincent O’Keefe che "il pontefice considerava inadeguato per le sue posizioni eccessivamente liberali". La manovra riuscì a metà: la Congregazione venne infatti rinviata di due anni – secondo la tattica wojtylana del "binario morto", che consisteva "nell’aspettare che i problemi si risolvessero o imputridissero per esaurimento storico" –, p. O’Keefe non venne eletto, ma non venne scelto nemmeno il candidato di Wojtyla, p. Pittau. Toccò invece a p. Peter Hans Kolvenbach.

La vicenda è raccontata con dovizia di particolari dal gesuita spagnolo p. Manuel Alcalà in un saggio contenuto nel volume curato da Gianni La Bella, docente di Storia contemporanea all’Università di Modena e Reggio Emilio, da poco pubblicato dalle edizioni "Il Mulino" di Bologna (Pedro Arrupe. Un uomo per gli altri, pp. 1084, euro 55). Il libro – a cui hanno collaborato oltre 20 studiosi, la maggior parte dei quali membri della Compagnia di Gesù ma anche alcuni storici – ricostruisce in maniera esauriente i 28 anni del generalato di Arrupe descrivendone numerosissimi aspetti: la 31.ma Congregazione, quando venne eletto preposito generale; l’azione di Arrupe nei Paesi dei vari continenti in cui i gesuiti erano presenti; le vicende della 32.ma Congregazione generale, convocata da Arrupe, spinto dalla "necessità di cercare, precisare e concretizzare ancor più ed in maniera più effettiva il modo di servizio che la Compagnia deve prestare alla Chiesa in un mondo che cambia"; i conflitti all’interno dell’ordine e le tensioni con la Curia romana; l’impegno per la giustizia, il rapporto con il marxismo, la nascita del servizio internazionale per i rifugiati; e gli ultimi 10 anni di vita (dal 1981 al 1991) trascorsi nella malattia. Un volume che, scrive La Bella nell’introduzione, "non pretende di sciogliere tutti gli interrogativi che ancora avvolgono il lungo periodo del suo generalato" ma che, messi da parte i "giudizi schematici" e "una stantia e superficiale iconografia", intende "inserirlo e collocarlo nella complessità della storia, della società e della Chiesa del suo tempo". Pubblichiamo di seguito il saggio di p. Manuel Alcalà, intitolato Le dimissioni. (l. k.)

 

LA SORDA INCOMPRENSIONE DI PAPA WOJTYLA


 di Manuel Alcalá

(...) Arrupe, ricevuto in udienza da Giovanni Paolo II, espose la situazione della Compagnia e annunciò al papa che si sarebbe riunito a Roma dal 17 al 21 settembre del 1979 con 14 presidenti di conferenze dei provinciali per trattare alcuni punti del governo, tra i quali il servizio dottrinale alla Chiesa e la collaborazione con i vescovi (...). Il papa considerava Arrupe più un uomo di ispirazione che di governo e aveva ricevuto molte lamentele sul suo conto da parte di diverse persone, contenute in un voluminoso rapporto della curia. Il pontefice vide perciò nell'udienza chiesta dai provinciali l'opportunità ideale per mettere alla prova la tempra di Arrupe.

Preparò dunque un discorso in italiano, breve e incisivo, che rappresentava di fatto una sconfessione pubblica del governo di Arrupe di fronte al qualificato gruppo dei collaboratori più stretti, ricevuti in udienza il 21 settembre 1979. Dopo i saluti protocollari, il papa affermò che "anche la compagnia era stata colpita dalla crisi di cui soffriva la vita religiosa e che ciò aveva disorientato il popolo cristiano, preoccupando la Chiesa, la gerarchia e lo stesso pontefice". Raccomandò perciò di rimediare alle deplorabili mancanze con la necessaria fermezza, affinché l’ordine vivesse e agisse animato dal genuino spirito ignaziano (...).

Arrupe pensa alle dimissioni

(...) Il 3 gennaio 1980, il generale era stato nuovamente ricevuto in udienza da Giovanni Paolo II, che gli aveva parlato della situazione della Compagnia senza però rivelargli i suoi piani per il futuro. Tale reticenza preoccupava il generale, perché lasciava trasparire un atteggiamento di sfiducia. Fu forse per questo che nel febbraio seguente disse chiaramente ai suoi assistenti che si sentiva stanco e privo dell'abi-tuale energia, cioè carente della "vitalità necessaria" al governo. Essi non diedero molta importanza al tema. Più tardi, agli inizi di marzo, ripeté ai consiglieri generali, in modo ordinato e in un clima di serenità, le ragioni che lo facevano propendere per le dimissioni. In un primo tempo alcuni non si mostrarono d'accordo con le intenzioni di Arrupe, che chiese loro di fare discernimento. Cosa che fecero, prima individualmente, poi in gruppo.

Sebbene fino a quel momento i quattro assistenti ad providentiam - Jean-Yves Calvèz (Francia), Parmananda C.A. Divarkar (India), Cecil McGarry (Irlanda) e Vincent O'Kee-fe (Usa) - non si fossero accorti della situazione, adesso compresero bene, e unanimemente, come stessero le cose. I motivi più o meno esplicitamente addotti da Arrupe erano l'età (73 anni, che alla fine del processo di dimissioni sarebbero stati 75) e i conseguenti effetti sulla salute; il governo che si prolungava ormai da quindici anni; l'oppor-tunità di scegliere un generale più giovane e con maggiori energie, nonché di mettere in moto il metodo delle dimissioni approvato nella 31a Congregazione Generale. È probabile che nella Consulta ufficiale, i cui archivi non sono ancora accessibili, fossero aggiunte altre ragioni: le frequenti tensioni del suo governo con la curia romana e con Paolo VI, gli avvertimenti di Giovanni Paolo I e la crescente mancanza di sintonia con papa Wojtyla che avrebbe reso difficile, prima o poi, il governo dell'ordine. Arrupe sembrava ritenere che la sua missione di generale fosse essenzialmente giunta al suo termine.

La votazione degli assistenti sul problema fu in maggioranza positiva. Per questo, alla metà di marzo del 1980, Arrupe fece il secondo passo obbligato, chiedendo il voto segreto dei provinciali entro il 16 aprile, il giorno precedente alla Pasqua. La risposta finale di quasi tutti i provinciali (83) fu largamente positiva, tranne cinque o sei. Un'approvazione così massiccia gli fu, per sua stessa ammissione, di grande consolazione. Poco dopo il generale iniziò la redazione della convocazione di una nuova Congregazione generale, in occasione della quale pensava di presentare le dimissioni. Con un'iniziativa personale, presa contro il parere di alcuni consiglieri (...), Arrupe chiese di essere ricevuto in udienza dal papa. Lo fece dopo aver conosciuto la risposta dell'ordine, e non prima, come disse chiaramente a chi scrive. Trascorsa una settimana senza ricevere risposta, fatto abbastanza insolito, chiese a un vescovo gesuita in visita ad limina di informare il papa del suo desiderio. Nemmeno questo servì. Arrupe era sempre più preoccupato. Il rapporto con il pontefice sembrava incrinato. Alla fine, fece ricorso a un gesuita polacco che aveva facile accesso al Vaticano. Gli chiese di segnalare al cardinal Casaroli che il generale aveva urgenza di informare il papa su un tema di coscienza. Solo allora gli fu concessa l'udienza, che si svolse il 18 aprile 1980.

Arrupe fu accompagnato fino alla porta dello studio del papa dal suo primo assistente generale, Vincent O'Keefe, che rimase ad attenderlo fuori. L'incontro durò circa dieci minuti. Il generale espose al papa in poche parole la sua intenzione di dimettersi, i motivi che ne erano alla base e i passi già intrapresi, secondo la legislazione della Compagnia. Il pontefice restò stupefatto. Molto sorpreso, lo interruppe due volte per rivolgergli delle domande. "Cosa posso fare riguardo a questo processo?". Arrupe rispose: "Quello che vuole, poiché lei è il nostro superiore". Il papa commentò: "Bene". La seconda domanda, più incisiva, fu rivolta al termine del breve colloquio: "Crede che la Compagnia mi obbedirà?". Il generale rispose: "Sicuramente, Santità". Egli ripeté: "Bene". La conversazione terminò così. Mentre si congedavano, già in piedi, il papa disse ad Arrupe di attendere la risposta.

(...) Il primo maggio 1980, alla vigilia della visita apostolica a sei paesi dell'Africa centrale, arrivò dal Vaticano una lettera firmata dal papa che ordinava al generale di sospendere la preparazione della Congregazione generale, perché non la considerava "opportuna per il bene della Chiesa, né per quello della Compagnia". Gli avrebbe parlato del tema più avanti. A quanto sembra, Giovanni Paolo II non reputava sufficienti le consultazioni già effettuate per prendere una decisione.

Questa carta e l'anomala udienza precedente, nella quale non vi era stato un concreto chiarimento, rappresentarono una duplice mazzata per Arrupe. Non solo stava franando il suo piano, già approvato dall'ordine, ma faceva difetto anche la comunicazione con il suo superiore. Nondimeno, la sua reazione fu esemplare. Informò i suoi consiglieri, continuando il governo ordinario con grande fiducia in Dio, nonostante la desolazione interiore. (...)

Sebbene non ci venga detto chiaramente in cosa consistesse quella desolazione, è quasi certo che si trattava della sua situazione di generale impedito e messo sotto tutela, con un futuro governo minacciato. Nella citata conversazione che ebbi con lui, poche settimane dopo quegli esercizi spirituali, mi disse con tutta chiarezza che egli metteva in conto anche la destituzione dal suo incarico da parte del papa. Aggiunse: "Non credo che lo farà, ma se dovesse avvenire, mi bastano cinque minuti per fare fagotto e ritornare in Giappone". (...)

 

(...) Dopo le feste dell'Epifania, il 17 gennaio 1981 Arrupe fu di nuovo convocato da papa Wojtyla. Dalle sue successive confidenze, si seppe che quella fu l'unica volta in cui poté spiegargli tranquillamente le ragioni delle sue dimissioni. Tuttavia, non fu un incontro facile. Giovanni Paolo II, per evitare sorprese, si era ben preparato. Attraverso la Segreteria di Stato aveva chiesto a vari nunzi rapporti dettagliati sull'azione dei gesuiti nei rispettivi territori. Arrupe ne era già al corrente grazie ad amici diplomatici. Benché entrambi evitassero di fare allusione a tali informazioni, discussero sulle implicazioni che avrebbero avuto per l'ordine le sue eventuali dimissioni. Il papa voleva individuare i nomi dei possibili successori, ma lo stesso Arrupe non era in grado di fargliene, perché li ignorava. Il pontefice non svelò chiaramente i suoi disegni e congedò il gesuita, dicendogli che lo avrebbe chiamato più in là. Quello stesso giorno, il segretario del generale comunicò schiettamente all'ordine la notizia, che fu redatta in varie lingue. Il generale era tornato a casa turbato, ma anche avendo acquisito una certa chiarezza su alcuni punti. Anche se il papa non voleva destituirlo, voleva però metterne in discussione il governo. Secondo quanto mi disse in un secondo tempo, pensava che avrebbe nominato un delegato che ponesse sotto tutela la futura Congregazione generale. L'incognita era se l'eventuale coadiutore plenipotenziario sarebbe stato o meno un gesuita. La seconda eventualità lo atterriva, poiché non era in grado di prevedere la reazione della Compagnia. (...)

Trascorsero tre mesi. Il 13 aprile 1981 Giovanni Paolo convocò nuovamente Arrupe. Nel frattempo, aveva fatto nuovi sondaggi. (...) Il timore principale di papa Wojtyla non sembrava riguardare tanto il generale Arrupe, quanto piuttosto il suo possibile successore. Dalle informazioni raccolte, si aveva sentore che tra i candidati più probabili c'era il suo assistente Vincent O'Keefe, nordamericano, che il pontefice considerava inadeguato per le sue posizioni eccessivamente liberali e per le informazioni negative giuntegli sul suo conto. Secondo altre fonti, altro probabile candidato alla successione era il francese J. Y. Calvez, originario della Bretagna, professore, scrittore, intellettuale e redattore finale della lettera di Arrupe sull'analisi marxista. Tuttavia, le esegesi professorali dello scrittore francese sull'opzione dei gesuiti a favore "della fede e della giustizia", svolte nella 32a Congregazione Generale, non convincevano il pontefice. Nonostante tutto, entrambi sembravano avere più possibilità di Paolo Molinari, il candidato pubblico di certi "dissidenti", come avrebbe detto in un'occasione un cardinale spagnolo.

Di fatto, papa Wojtyla una volta di più si mantenne a distanza dal generale, seguendo la sua tattica del "binario morto", praticata con successo con i dirigenti comunisti in Polonia durante il suo pontificato. Il metodo consisteva nell'aspettare che i problemi si risolvessero o imputridissero per esaurimento storico. Ci fu dunque un'altra pausa ad kalendas graecas. La cosa curiosa è che, in qualche modo, colse nel segno. Non erano passati quattro mesi che Arrupe soffrì il grave episodio vascolare che lo inabilitò definitivamente al governo. Quello che il papa non aveva previsto è che, nello stesso mese della sua seconda udienza con il gesuita (...), egli stesso sarebbe stato gravemente ferito sul papamobile, cadendo nelle braccia del suo segretario Stanislaw Diwitz. Tre pallottole sparate dal terrorista e criminale turco Ali Agca lo colpirono il 13 maggio 1981 durante l'udienza di massa in piena piazza San Pietro. (...)

(...) Arrupe, dopo aver celebrato in casa il 16° anniversario della sua elezione a generale si recò a Yaoundé, in Cameroun, per partecipare al Simposio delle conferenze dei vescovi dell'Africa nera e del Madagascar, che si sarebbe svolto dal 28 maggio al 5 luglio. A Roma lasciò Jean Calvez come vicario pro-tempore. Venti giorni dopo, svolse un secondo viaggio, recandosi nelle Filippine dal 26 luglio al 7 agosto, per celebrare il quarto centenario dell'arrivo dei gesuiti nel-l'arcipelago e assistere all'incontro della Confederazione dei religiosi dell'Asia orientale. (...) Questa volta il vicario a Roma fu Vincent O'Keefe22. (...)

Il volo [di ritorno] arrivò a Roma all'ora prevista, le 5.30 della mattina del 7 agosto. I passeggeri scesero dall'aereo, passarono il controllo passaporti e la dogana. Ad attenderli c'erano due segretari: quello della Compagnia, il canadese Louis Laurendeau, e quello privato di Arrupe, lo spagnolo Luís García, alla guida dell'automobile della curia. Mentre montavano in macchina, Arrupe sentì qualcosa di strano alla testa, la mano destra cedette facendo cadere la sua piccola borsa, si portò la mano sinistra alla fronte come per alleviare il dolore e cominciò a dire frasi sconnesse. I tre compagni, allarmati, lo fecero entrare in macchina e si diressero a Roma a gran velocità. L'aeroporto di Fiumicino dista 32 chilometri dalla capitale. Nonostante lo scarso traffico dovuto all'ora di prima mattina e la velocità dell'automobile, ci volle mezz'ora per arrivare all'ospedale internazionale Salvator Mundi. Era trascorso un lungo periodo senza il sufficiente afflusso di sangue al cervello di Arrupe. Presto avremmo saputo che un'embolia nell'arteria carotidea destra aveva provocato una trombosi cerebrale, afasia parziale e paralisi emiplegica del braccio e della gamba destra (...). Poco a poco, si conobbe la portata del danno celebrale. Le prime speranze di un totale recupero sfumarono rapidamente.

(...) Dal 20 al 24 agosto 1981, si era svolta nella curia gesuita una riunione dei presidenti delle Conferenze dei provinciali, presieduta da O’Keefe, durante la quale furono esaminate la situazione e le sue ripercussioni sul governo. Si decise di chiedere esplicitamente il permesso al papa per convocare la Congregazione generale. È verosimile che questa notizia arrivò in Vaticano, seminando un certo allarme, attraverso qualche confidente della stessa curia gesuita (...).

Questo era proprio quello che il papa in quel momento non voleva concedere.

Compagnia commissariata

Giovanni Paolo II non aveva per nulla gradito la nomina di O'Keefe a vicario. Non ne apprezzava lo stile personale e l'impostazione di governo (...), considerava il primo assistente di Arrupe inadeguato alla carica di generale. Per prudenza, aveva taciuto quando questi era stato designato come vicario, ma ora (...) decise di eliminarlo in modo indiretto.

Martedì 6 ottobre, mentre O’Keefe lavorava nel suo studio, arrivò alla portineria della casa generalizia una chiamata telefonica dal Vaticano, annunciando per mezzogiorno la visita del segretario di Stato. (...) A mezzogiorno in punto, O’Keefe accolse il cardinal Agostino Casaroli alla porta della residenza di Borgo S. Spirito. Insieme presero l’ascensore fino all’infermeria, al terzo piano. Arrivati davanti alla stanza di Arrupe, il porporato chiese, in modo non protocollare ma cortese, di essere lasciato solo con il malato. Il vicario obbedì e attese in corridoio. Nella stanza era presente il fratello infermiere, responsabile dell’assistenza del generale. Non appena il cardinal Casaroli gli fece un cenno perché uscisse dalla stanza, il fratello Bandera oppose un netto rifiuto, dicendo che non poteva lasciare solo l’ammalato. Il porporato dovette cedere di fronte a tanto energica posizione.

Rafael Bandera, unico testimone del fatto, mi raccontò che, dopo l'iniziale gioia suscitata in Arrupe dall'interesse del cardinale per la sua salute, il suo sorriso si spense quando questi lesse la lettera del papa che portava con sé, finché non scoppiò a piangere. Questo è il testo della lettera:

"Al caro figlio Pedro Arrupe, preposito generale della Compagnia di Gesù. Con la stessa preoccupazione con cui ho ricevuto la notizia della sua malattia, come le scrissi nella lettera del 27 agosto, ho seguito, nelle ultime settimane, l'evoluzione della medesima con la quale il Signore, nella sua misteriosa provvidenza, ha disposto che lei serva la Compagnia di Gesù e la chiesa con la sua sofferenza e inazione forzata, come prima l’aveva servita con la sua infaticabile attività. Continuo a chiedere al Signore che le conceda presto la desiderata salute e che nel frattempo l’aiuti e la conforti con le sue divine consolazioni. La presente malattia mi ha fatto più vivamente cogliere il desiderio che lei dall'anno passato mi aveva manifestato di presentare la rinuncia del suo ufficio alla Congregazione generale. Un desiderio che, nelle attuali circostanze, appare ancor più giustificato, sebbene lei abbia provveduto con la nomina di un vicario pro-tempore alle necessità urgenti del governo della Compagnia. Da parte mia, le chiesi l'anno passato di differire la presentazione della sua rinuncia perché, come le indicai nelle nostre conversazioni dei primi mesi di quest'anno, vedevo la necessità di una preparazione più profonda della Compagnia per la Congregazione generale e speravo di metterla in moto insieme a lei, ma purtroppo questo non è stato possibile a causa del mio lungo ricovero in ospedale e adesso del suo presente stato di salute. Per questo, dopo avere riflettuto e pregato lungamente, sono giunto alla determinazione di affidare tale compito a un mio delegato che mi rappresenti più da vicino nella Compagnia, che si occupi della preparazione della Congregazione generale che bisognerà convocare al momento opportuno e che insieme, in mio nome, abbia la sovrintendenza del governo della Compagnia, fino all'elezione del nuovo preposito generale. A tal fine, nomino mio delegato per la Compagnia di Gesù il p. Paolo Dezza, in considerazione della sua lunga esperienza di vita e governo nella Compagnia e, allo stesso tempo, dispongo che sia aiutato dal padre Joseph (sic) Pittau, che ho conosciuto in Giappone come diligente preposito di quella provincia religiosa. La sua funzione sarà aiutare il delegato nell'esercizio delle sue funzioni e sostituirlo quando questi sia impedito o venga a mancare. Determinazioni più dettagliate sulle funzioni del delegato e del suo coadiutore potranno essere indicate in un documento complementare. Confido che la Compagnia saprà riconoscere in queste decisioni un segnale della mia affettuosa considerazione per la sua persona e della mia sincera benevolenza per tutta la Compagnia, poiché desidero vivamente il suo maggior bene che ridonderà in beneficio di tutta la chiesa, nella quale la stessa Compagnia sviluppa un ministero tanto ampio e diverso. Con questi sentimenti chiedo al Signore copiose grazie per lei e per tutta la Compagnia di Gesù e, come pegno dei doni celestiali imparto con particolare affetto a lei e a tutti i suoi fratelli la benedizione apostolica. Giovanni Paolo II".

Quando uscì dall'abitazione del malato, Casaroli dovette riconoscere a O'Keefe che non era molto sicuro che Arrupe avesse compreso il contenuto della lettera. Il Vicario, dopo aver salutato il cardinale, tornò nella stanza del malato e lo trovò che piangeva mentre chiedeva di essere portato nella cappella dell'infermeria. Egli aveva chiaramente compreso il significato della lettera. Se questo non bastasse, quando O'Keefe gli domandò in quale situazione si sarebbe trovata la sua giurisdizione di vicario generale, Arrupe rispose che non lo sapeva. Presto si sarebbe chiarito tutto. Il segretario dell'ordine, inviando il 13 ottobre la lettera del papa alla Compagnia, aggiungeva una precisazione fatta da Casaroli a nome del papa, indicando che Arrupe continuava a essere il generale, sebbene senza esercizio della sua autorità, a causa della malattia. Il vicario generale O'Keefe, che non era citato per nome nel documento del papa, era automaticamente rimpiazzato da Paolo Dezza (...).

Reazioni nell’ordine

Dentro la compagnia le reazioni furono moderate, anche se di diverso segno (...). La reazione più critica venne dalla protesta rispettosa, in lettera redatta a Monaco il 27 ottobre e diretta al papa, di diciotto gesuiti tedeschi. Fu divulgata senza il loro consenso (come mi disse uno di loro). Si lamentavano con il pontefice per la sua sfiducia nei confronti dell'ordine, evidente nel suo non dire chiaramente le vere ragioni della sua oscura decisione (...):

"La decisione di Vostra Santità si discosta tanto dalla forma di agire della Santa Sede con la Compagnia di Gesù da suscitare, in non pochi di noi, notevoli problemi di coscienza, sebbene non sia messa in dubbio, sostanzialmente, la nostra fedeltà alla chiesa di Gesù Cristo e al suo papa. Santo Padre! Ci lasci scegliere il nostro futuro superiore generale con quella libertà che dagli inizi della chiesa fu sempre una delle norme fondamentali di tutti gli ordini. Questa libertà non è in nessun modo contraria all'essenza della chiesa. Mentre preghiamo per Sua Santità, davanti all'unico Signore della chiesa, non smetteremo di chiederle che continui ad assistere la Compagnia di Gesù" (...).

A partire dal giorno della sua destituzione di fatto, ma non de jure, Arrupe decise di continuare la sua vita sofferente, mostrando la sua obbedienza al papa. Invece di isolarsi, continuò a ricevere visite da tutto il mondo. Paolo Dezza, pratico del governo e buon conoscitore della diplomazia curiale, lo lasciò fare. Nel frattempo, dava l'impressione di vigilare sulle nomine fatte da Arrupe e di essere molto prudente e perfino indulgente verso gli antichi ribelli. Il suo primo atto ufficiale fu la lettera all'ordine, unita alla sua omelia nella cappella della curia generale, il 31 ottobre (...). Dopo aver ringraziato il generale malato per il suo esempio e tutti gli assistenti per la collaborazione prestata, affermava che la sua missione era riannodare "l'interrotto dialogo tra il papa e il generale, facendo in modo che la Compagnia sappia e accolga i desideri del papa, perché si possa procedere alla congregazione generale e tornare al regime normale". (...)

Il nuovo generale

Come era prevedibile, il delegato pontificio Dezza, con l’accordo papale, l’8 dicembre convocò la 32.ma Congregazione Generale, da celebrarsi nei primi giorni di settembre 1983. Cominciava una nuova tappa. Il giorno dopo, indicò questi punti di riflessione per la Congregazione generale: amore profondo e servizio fedele alla chiesa; segni visibili della vita consacrata e gerarchia dei valori nell'apostolato. (...)

Arrupe partecipò alla 33.ma Congregazione, che si svolse dal 2 settembre al 25 ottobre 1983. Il secondo giorno, l'as-semblea accolse le sue dimissioni. L'ex generale fu allora invitato in aula, mentre gli veniva rivolta un'ovazione interminabile. Il suo collaboratore Ignacio Iglesias lesse un commovente discorso di commiato, culminato nella preghiera ignaziana: "Prendi, Signore, e ricevi. [...] Dammi il tuo amore e la tua grazia, ché questo mi basta». Molti piangevano. Subito, alla prima votazione che durò meno di un'ora, venne l'elezione del successore, l'olandese Peter Hans Kolvenbach.

In quel momento, il papa era a Vienna per ricordare il terzo centenario della liberazione della città dall'assedio turco da parte del re polacco Jan Sobieski. Da Kahlenberg era volato in elicottero a Mariazell, dove si sarebbe conclusa la sua visita all'Austria. Arrivato al santuario mariano, Mar-tínez Somalo gli diede la notizia dell'elezione di Kolvenbach. Giovanni Paolo II non ne fu sorpreso, anche se non si trattava del suo candidato. In precedenza aveva commentato con qualcuno: "Vedrà che non eleggeranno Pittau". Aveva visto giusto, sebbene non si aspettasse un'elezione così rapida, al primo scrutinio, come era avvenuto nel passato in dodici occasioni. L'unica vera novità del processo era stata la maniera in cui era stato ‘eclissato’ Arrupe (...).