HOME PAGE          SOMMARIO TEMI


LE PAROLE DEL VIAGGIO

Cosa salvare della tradizione per una comunità cristiana adulta

 da "Tempi di Fratenità" agosto/settembre 2008

chi è Franco BARBERO 

Nel proseguire la ricerca iniziata nel numero di novembre con l'articolo sull'essenziale della nostra

fede, proseguita con l’'intervento di Marco Chiauzza, la comunità di Torino ha invitato il 2 marzo

scorso Franco Barbero, presbitero della comunità di Pinerolo ponendogli in particolare alcune

domande circa il valore della tradizione cristiana.

Di una tradizione che pesa come un macigno con tutti i suoi dogmi e la sua dottrina, ed alla quale

tuttavia siamo riconoscenti per averci trasmesso la poca fede che abbiamo, quanto rimane da salvare?

Come si è formata, e perche ha avuto un esito che tanto spesso ci sembra così lontano dallo spirito

evangelico di Gesù? e poi, riconciliarsi o rompere del tutto con la tradizione?

Queste alcune delle domande che gli abbiamo posto, alle quali Franco ha risposto mettendo in gioco, come sempre, tutta la sua appassionata ricerca di fede: ne riportiamo la sintesi degli elementi centrali.

 

Raccolgo 1‘invito a riflettere sulla tradizione riferendovi alcune tracce del percorso che sto compiendo. La domanda circa “una fede da reinventare”, che nella chiesa di base assume uno spazio enorme, mi pare sempre più un’istanza essenziale, poiché riguarda la dimensione adulta della nostra fede.  Già sul livello terminologico bisognerebbe intenderci. La Lettera agli Ebrei dice, in un bellissimo linguaggio letterario col quale ci racconta il vissuto storico dei credenti, che noi viviamo dentro una grande nube di testimoni: questa mi è sembrata l’immagine più bella per parlare della tradizione.

La tradizione in origine trasmetteva la testimonianza di fede vissuta e detta. Nel testo greco i termini sono molto diversi: originariamente e la paràdosis, il tradurre, il portare avanti, mentre molto presto, già nei tardivi scritti del Secondo Testamento (lettere a Timoteo ), si parla si para-theke, il deposito: già qui c’è una concezione di verità “certe” depositate da qualche parte.  Leggendo i testi biblici diventa invece subito evidente che i soggetti portatori di questa testimo-nianza sono molti: molte vite, molti modi di vivere la fede, molte voci. La tradizione era originaria-mente questo voluminoso insieme diversificato, spesso sintetizzato in poche parole, ma sempre in un intreccio nel quale le persone coinvolte annunciavano ciò che vivevano: prima di tutto, confor-memente allo spirito ed alla prassi ebraica, viene il vivere, e poi il dire ciò che si vive.

Ma non dimentichiamo che le tradizioni a volte si perdono, a volte vengono cancellate, a volte vengono dimenticate, oppure denigrate, o esaltate, riferite dagli avversari, o fatte sparire: il mo-mento della narrazione tradizionale è variegato, ma non solo, è anche un po’ caotico. Anche nella storia dei credenti, come in ogni relazione umana, spesso il pensiero di un altro o di un’altra viene filtrato attraverso un ‘interpretazione: per questo la tradizione che è giunta fino a noi non può essere considerata un percorso lineare, angelico, ma è anch’ essa il prodotto di persone e comunità che stavano all’interno di relazioni umane e storiche, con tutti i limiti che ciò comporta.

Per fare qualche esempio: come mai non troviamo più il Vangelo dei Nazirei, degli Ebrei o quello degli Ebioniti? Come mai non troviamo più gli scritti di decine e decine di donne dei tanti secoli nei quali la tradizione si è costruita? Semplicemente perche nel corso del tempo alcuni materiali sono stati privilegiati, e quindi trasmessi, ed altri manipolati, o nascosti del tutto.  La domanda su che cosa conservare e che cosa buttare, così come ce la poniamo noi oggi, ha attraversato le generazioni; e ciò innanzitutto è dipeso da motivi concreti, la qualità ed il contesto di lavoro dei copisti, i materiali usati e la loro conservazione. Molta tradizione insomma si è anche venuta formando in base ai concreti ritrovamenti effettuati ed alla qualità dei testi che realmente abbiamo potuto recuperare.

 

Dall’ortodossia al magistero

Un ulteriore passaggio avvenne poi quando dalla tradizione come testimonianza di vita si passò, progressivamente, alla tradizione come dottrina.  Qui cominciò ad affermarsi la priorità del logos, della riflessione e del pensiero, rispetto alla vita vissuta.

Le parole hanno così cominciato a diventare più importanti della vita, dimenticando che esse spesso abitano lontano dall’esistenza dei credenti e non ne rispecchiano la vita.

Perdendo un elemento costitutivo della tradizione, che è la vita dei credenti, è avvenuto uno spostamento importante, che ha portato dalla centralità dell’ esperienza ad una concezione della tradizione come dottrina, didachè, quindi come deposito; un passaggio molto impoverente!  Tutto questo cresce in modo parossistico nel secondo e terzo secolo, con l’Adversus haereses di Ireneo, testo con il quale nasce ormai, negli anni dal 110 al 180 d.C., la divisione tra ortodossia ed eresia. L’elemento centrale non è più la vita dei credenti, ma l’esame di una dottrina, tagliando quindi con il coltello la retta dottrina dall’errore.

In realtà anche noi oggi consideriamo di essee un felice miscuglio di tante cose, e l’unica possibilità che abbiamo per convertirci è di sapere che in noi, per dirla con Agostino, grazia e peccato abitano, o per dirla in modo paolino, luce e tenebra, questo noi siamo. Questo rappresenta l’essenza della nostra creaturalità! Invece, iniziare a distinguere la ricerca di fede in ortodossia ed eresia significa creare un dualismo sempre più lontano dalla realtà, dove I’ eresia - come sappiamo - spesso non è altro che la dottrina della parte perdente.

Un caso importante di cui abbiamo documentazione precisa è la breve storia del dogma trinitario e cristologico: rispetto alla figura di Gesù, ciò che era verità ortodossa nel 325 diventa eresia nel 328!                                                                                                                                                                                                                                                                             In un processo che diventa quindi sempre più rigido, all’interno della dualità ortodossia/eresia nasce l’apologetica: essa rappresenta un’ altra sensibilità, un codice letterario e  storico per il quale diventa importante difendere le proprie idee dalle accuse, e promuoverne una superiorità.  L’apologetica viene progressivamente vissuta come difesa dalle accuse dei pagani, e degli ebrei, ma rimanendo finalizzata alla promozione di una superiorità, in seguito designa una esclusiva priorità rispetto al progetto di salvezza.                                                                                                                                                                                                                                             

L’ assunzione progressiva del diritto romano ed anche l’osmosi con il mondo e la cultura ellenistica hanno forgiato un linguaggio ed un immaginario, una cultura, una strutturazione dei gruppi sul modello patriarcale e monocratico. In tal modo si è progressivamente stabilito un modello, che nella teoria è l’ortodossia ma che poi è diventato anche un modello nella vita. E poiché la chiesa intanto si stava mondanizzando, e già ben prima di Costantino cominciava a fare alleanze sotterranee con il potere, nasce la corrente ebionita, poi quella dei padri del deserto. Essi forgiano l’origine del cristianesimo ascetico, ed accanto all’ortodossia della dottrina hanno dato la vita all’ortodossia della prassi ascetica.  Qui iniziò la discussione, in realtà ancora aperta oggi, sulla progressiva rottura e contrapposizione con l’ebraismo. Il cristianesimo nascerà con tutta probabilità negli anni che van-no intorno al 150 d.C.; i grandi studiosi documentano che l’individuazione di una nuova religione, separata dall’ebraismo, non possa esser concepita prima di questi anni. Ed è in questo tempo che fiorisce la dottrina del fuori della chiesa non c’ è salvezza con la quale arriveremo alla svolta di Nicea.

Osserviamo allora le basi di quella che poi nel Concilio di Trento diventerà la grande discussione - a sua volta ripresa dal Concilio Vaticano Il nella Dei Verbum - sulla dottrina delle due fonti: il cammino della fede è fatto dalla scrittura e dalla tradizione, dicono i padri del Concilio di Trento nel sedicesimo secolo; il protestantesimo aveva annunciato che c’è invece il sola scriptura, un ‘unica fonte legittimante. Questa grande discussione, se i riferimenti per il credente devono essere le due fonti o soltanto la scrittura, era presente già in altri termini fin dalle origini del cristianesimo; ma  l‘accentuazione della dottrina delle due fonti da parte del Concilio Vaticano I, in opposizione alla Riforma, ha rappresentato un momento tragico, perche in queste semplificazioni polemiche si contrae la riflessione. E la tradizione si è identificata così soprattutto con l’elemento più autoritario, il magistero.

Questa non è più la concezione della traditio dei viventi, fatta di vita vissuta e di parole dette lungo il cammino, ma è invece l’insegnamento autorevole di coloro che sono stati a ciò designati: nasce così una strutturazione rigida, che vedrà il suo culmine nel 1870 con la definizione dell’infallibilità del romano pontefice.

Il Concilio Vaticano II nella Dei Verbum non entrerà volutamente in questa questione, ma al numero 10 dirà che scrittura e tradizione convergono, tentando di non scegliere fra una o due fonti,

ma di fare in modo che scrittura e tradizione si richiamino a vicenda; una dinamica che aveva

l’esigenza di non rompere l’unità conciliare ed entrare almeno inizialmente nella discussione teologica ed ecumenica del tempo, ed anche nella ricerca positiva di quel tempo.

 

Verso una dottrina sempre più pesante

Ma la vera svolta era accaduta molto tempo prima, quando l’impero e la cristianità si sono saldati. La data mitica che ricordiamo è il 325 ma le radici sono ben anteriori. Dando vita alla cristianitas avviene la cascata dogmatica, devozionale e liturgica, in una serie infinita di dogmi.

Mentre il dokei era l’opinare, le parole dette lungo il viaggio, ta dogmata diventano le parole forti, le pietre di riferimento assoluto, macigni irremovibili; e chi non aveva questi passaggi                                                                                                                                   veniva escluso dall’abitare la fede.  Questo comporta anche una traslazione dei significati: non c’ è più la concezione narrativa della ricerca della verità, ciò che noi nel cammino siamo riusciti a capire indicando un fin qua, che non è mai definitivo, ma c’ è una condizione tassativa e normativa: queste sono le parole e queste formulazioni sono perentorie, irremovibili ed immodificabili - come dirà poi il Concilio di Trento e ripeterà il Vaticano I.  La cascata è incredibile, ne ricordiamo soltanto alcuni passaggi: nel 325 il Concilio di Nicea, nel 381 Costantinopoli, poi nel 431 Efeso, nel 451 Calcedonia, e potremmo continuare: ciascuno con le sue infallibili e definitive certezze!  Nello stesso tempo, mentre si pongono le dogmatiche cristologiche, nasce anche il quadruplice dogma mariano: nel Concilio di Efeso si proclama la divina maternità; nel 649 il Concilio Lateranense I dichiara che Maria è vergine prima, durante, e dopo il parto; nel 1854 Pio IX stabilisce l‘Immacolata concezione; nel 1950 infine viene proclamata l’assunzione in cielo in corpo ed anima.

Cinque cardinali hanno recentemente avanzato l’idea di un quinto dogma mariano, il suo essere corredentrice, riprendendo l’antica teologia del collo: se Cristo è il capo, e noi siamo il corpo, tra il capo e il corpo c’è un collo, e questo è rappresentato da Maria. La teologia del collo ha avuto uno sviluppo incredibile, è diventata una teologia totalizzante, anche se a noi oggi fa piuttosto sorridere.

Ma - tornando alla storia - nel V secolo nasce quello che nell’ebraismo sarebbe stato impossibile, il concetto di peccato originale, con Agostino e soprattutto con l’agostinianesimo che verrà dopo; la cosiddetta macula originalis. Ma nell’ebraismo il testo di Genesi al cap. 3 voleva rappresentare tutt’altro, la conditio creaturalis, il fatto che noi siamo delle creature, e che quindi portiamo lo stigma della nostra fragilità; e noi pensiamo che la fragilità vada vissuta senza angoscia, riconoscendoci in questa condizione di creatura; questo preserva molto la nostra serenità.  Leggendolo invece come peccato originale, nelle varie versioni, ciò ha portato all’elaborazione del battesimo dei bambini per cancellare il peccato originale, e poi, nel XII secolo, alla triade compatta inferno/purgatorio/paradiso. Così si è perso il valore dell’affidarci a Dio e sapere che possiamo avere un’estrema fiducia in Lui, rispetto al perdono ed all’accoglienza, consegnando il giorno della nostra morte la nostra vita nelle Sue mani; ed è nata invece la estensio potestatis, il potere della chiesa e la sua potestà di intercedere, dopo la morte, con la dottrina - ed anche l’industria - del suffragio. Nel XII secolo nasce anche l’Ave Maria; poco dopo il vincolo di credere che nell’eucaristia c’è la presenza reale - fisica di Gesù (solo reale non era sufficiente, perche poteva significare della fede!). Poi nel XV secolo nasce il Corpus Domini, e via dicendo, fino alle apparizioni, le guarigioni, Medjiugorie, Padre Pio: guardate che carico!  C’è qui un processo di ingigantimento, una escrescenza che ormai ha il sentore di una patologia, di una perdita di equilibrio che pone nel’ecumene cristiana la domanda sul rapporto di tutto questo con la nostra fede e con la scrittura.  Ma che intanto, nei processi di progressiva perdita di sicurezza psicologica delle persone, nella sofferenza e nella disperazione, definisce ormai un rapporto di potere, e di dominio sulle coscienze. Aspetti che in questi anni le comunità di base hanno molto bene esplorato.

 

Ritorno a Gesù di Nazareth

Nella ricerca sull’essenziale della fede per me, invece, la domanda centrale è quella sul significato del sentirmi discepolo del Nazareno.  Questo mi ha portato all’interesse per conoscere ancora meglio il Gesù di Nazareth, in una grande ricerca, nella quale ho un’enorme gratitudine per i tanti teologi che ci hanno preceduto, dove è stato interessante scoprire che su questi aspetti negli ultimi tre secoli c’è stata una grande ricerca, anche se poco conosciuta e poco fatta conoscere.  Il fatto è che, constatata la grande distanza che c’è fra il Gesù storico e quello annunciato dalla Chiesa, la domanda - sofferta - rimane quella relativa alla parentela che ancora rimane tra ciò che dice il Catechismo della chiesa cattolica e ciò che la ricerca di fede e teologica tenta di esprimere.

Lentamente, come sempre nelle ricerche, il tentativo di capire meglio ci ha portato a comprendere che ciò che era sbagliato non erano le formulazioni di Nicea e Calcedonia, quanto la loro ripetizione monotona ed ossessiva. Compito dei credenti non è quello di ripetere le formule apprese, ma quello di rinnovare il rischio di quelle donne e quegli uomini che a Nicea, ad Efeso, a Costantinopoli hanno tentato di dire la loro fede vissuta, in bene o in male, come sempre. Quindi non seppellire quelle formule, ma entrare invece nella dinamica che le ha prodotte, una dinamica di ricerca, di tentativi.

Per me il nodo rimane quello dell’approfondimento di Gesù, l’Ebreo. Oggi mi sembra paradossale che nel mondo cristiano, cattolico in particolare, da molti, Gesù è considerato il primo cristiano! E quasi quasi viene detto cristiano anche Dio!

La prima scoperta è quella che Dio non è assolutamente cristiano, che nemmeno Gesù è cristiano! O Kristos è “il Cristo”, un attributo, che aver trasformato in nome e cognome ci ha messo fuori strada. Sappiamo che Gesù non ha mai pensato di essere Dio; non gli è venuto nemmeno in mente di essere il messia; lui invece, credeva in Dio, e da credente lo pregava. Non ha mai fondato nessuna chiesa (la parola ecclesia significa assemblea, non designa la chiesa come viene intesa oggi). Certo che è detto Figlio di Dio: ma nell’ebraico Figlio di Dio vuol dire tutt’altro, si riferisce a colui sul quale Dio ha posto una benedizione, un investimento di missione.

Dunque, bisognava svestire questo Gesù dei panni... cristiani, e riscoprirne la dimensione autentica.

Alcuni si chiedono: ma se Gesù non è Dio, dov’è la nostra salvezza? Allora, finisce tutto?  Anche nel nostro cammino comunitario abbiamo avuto molte incertezze nel dirci queste cose, forse per il timore che Gesù sembrasse poi uno qualunque, e non significasse invece il portatore di un messaggio speciale, come se Dio non avesse investito in lui una missione particolare.

In realtà Gesù non è stato affatto un profeta qualunque, ma il profeta in cui Dio ha promosso il massimo della profezia e dell’amore. Ma tutto questo lo si vede davvero solo partendo dalla scoperta di Gesù come ebreo.

 

Pregare Dio,  compiere la giustizia

Questo in che cosa mi aiuta a cercare l’ essenziale? Mi aiuta perchè per me l’essenziale della tradizione, del tradere fidem, del portare avanti questo cammino, sta dove dice il Levitico, come i vangeli sempre riprendono: Ama il signore Dio tuo con tutto il cuore e tutta la tua anima, e il prossimo tuo come te stesso. Amplificando questo concetto, come oggi la cultura cosmica ecologica ci stimola a fare, amare adorare Dio e vivere la solidarietà universale con le creature. Questi secondo me sono i due pilastri. Come scriveva Bonhoeffer in Resistenza e resa: tempo verrà in cui due cose saranno essenziali: adorare e pregare Dio, e fare la giustizia tra gli uomini.  Oggi abbiamo ampliato gli orizzonti, e tutta la creatura ha bisogno di giustizia, di solidarietà e di tenerezza: per me questo rimane l’essenziale.  Che va naturalmente declinato secondo le contingenze storiche; la responsabilità creativa di dire cosa vuol dire amare oggi appartiene a ciascuno di noi nel mondo in cui siamo.  Sottolineo che i comandamenti sono due, non uno, perche Dio non è una realtà teoretica ma una realtà di cui io sento l’amore che ci dà; amore verso il quale sento di dover rispondere, sapendo bene 1‘indefinibilità di Dio. Però non voglio avere con Dio un rapporto di sola conoscenza, ma un rapporto di adorazione. Adorare è pregare presso, un rapporto fiduciale.

Questi i due comandamenti dai quali, dice il Vangelo, dipendono la legge ed i profeti. Per me  l’essenziale tutto da declinare e coniugare nella storicità è questo messaggio del Levitico, reso espanso, portato alle estreme conseguenze; ciò era tipico della tradizione ebraica, che doveva sempre spingere in avanti le scritture, e Gesù rimane il maestro di questo dilatare in profondità ed espansione il messaggio ebraico della scrittura.

 

E infine: alcune avvertenze circa l’uso della tradizione

La tradizione va proprio assunta in modo plurale, non resa arrogante, ricordando che ogni percorso è debitore a tanti altri; invece, in ciascuno di noi persistono sempre tracce di visioni dogmatiche.

Dobbiamo quindi anche fra noi rispettare le nostre affezioni e le diverse culture, in un dialogo che persiste anche nelle chiese di base. Bisogna che restiamo nel mondo, assumendone i limiti, e sapere che i linguaggi sono quelli che sono.  Poi dobbiamo ricordare che non possiamo saltare i secoli: certo devo tener conto della storia, ma devo guardare avanti; il rispetto del presente non deve inibire lo sguardo in avanti: guardare lontano ma nella nostra libertà e responsabilità di credenti.

Ricordo ancora la priorità della prassi, perche quello che conta è ciò che si vive davanti aDio.  Perchè le parole - come in una pagina bellissima di Enrico Peyretti - nascondono, le parole occultano, le parole negano, le parole dicono, le parole sono foglie, le parole sono siepi. Ma tutto ha senso se mettiamo al centro la prassi.

Il che non significa sminuire la rilevanza dell’immaginario teologico. Da una parte è importante la centralità della prassi e dall’altra il lavoro teologico, perche liberare l’immaginario è liberatorio (e doveroso).

Resta l’esigenza che l’essenzializzazione della nostra fede non diventi uno svuotamento, un impoverimento. Nel movimento delle comunità di base già Mario Cuminetti, trent’anni fa, ci metteva in guardia da un taglio alle radici: guardate bene che nella selezione della tradizione non vi capiti di tagliare le radici, perche altrimenti, dopo, l’albero ve lo ritroverete secco -.ci diceva.

Non si tratta quindi solo di un percorso verso una , essenzializzazione, ma anche di una acquisizione, perchè essenzializzare non vuol dire perdere: per esempio vuol dire anche ampliare il dialogo con le grandi religioni, relativizzare la nostra esperienza, sapere che Dio è più grande del cristianesimo, che Dio ha amato il mondo prima di Gesù, che Dio ha un mappamondo della salvezza completamente diverso dal nostro! Ricordiamo insomma che Dio è più grande del cri-stianesimo; ed in tal modo questa essenzializzazione diventa un allargamento degli orizzonti. Come per Adamo ed Eva l’Eden era piccolo, invece il mondo era più grande; dopo la caduta della Torre di Babele, la Terra è diventata più spaziosa, bisognava che cadesse la torre per rivedere la terra spaziosa. Qualche volta nel percorso di essenzialità è necessario proprio l’allargamento; non c’è solo il dimagrimento dogmatico o devozionalistico, ma anche un’acquisizione di nuovi orizzonti.

La fede che si essenzializza non diventa così una fede astenica, non nutrita, ma può diventare una fede molto ossigenata, molto aperta.

Certo è più difficile vivere da adulti e da adulte nella libertà: può sorprenderci la paura e credere che finita la nostra infallibilità svanisca la indefettibilità di Dio! Noi tutti siamo creature abitate dalla paura!  Guardate invece come Dio ci porta avanti, nonostante noi. Dio ci porta sulle spalle, ci vuole bene, ci fa maturare; il guaio è ripetere in modo rigido le acquisizioni dei credenti e dei teologi prima di noi. Da essi abbiamo molto da imparare, a partire dalla loro vita, che è stata una vita di fede.

Il tempo rende caduche le nostre parole, le rende impermanenti, le rende transitorie, e crea in noi la responsabilità e la gioia, l’audacia e l’umiltà - sembrano diverse ma sono parenti - di poter dire nuove pratiche di vita, nuove parole. Ecco la fiducia che voglio dare a Dio che ci aiuterà, ci accompagnerà a cercare i nuovi sentieri e a dire altre parole, non come verità da custodire in un mausoleo, ma come parole in attesa di altre parole; come parole del viaggio.

Le parole del viaggio tramontano come le nostre giornate per lasciare spazio ad altre parole ad altri percorsi, ad altri che continueranno questa strada dopo di noi meglio di noi.

DAL DIBATTITO:

“All’inizio qualcosa andò storto ...”

Il grande teologo svedese e americano Krister Sthendal, esploratore e maestro della prima ora per quanto riguarda i rapporti cristiano/ebraici, già nel 1967 scriveva: “All’inizio qualcosa andò storto, perche non sono persuaso che ciò che accadde alla rottura dei rapporti fra ebraismo e cristianesimo fosse davvero il volere di Dio. Non ci è possibile riconoscere che le nostre strade non si sono separate in conformità al volere di Dio, ma forse contro il volere di Dio?  So che questo è uno strano modo di parlare, so che può essere tacciato di romanticismo storico, un tentativo di far retrocedere le lancette della storia.

Ma perche dovremmo definirlo così, e non dire piuttosto che è giunto per noi il tempo di ritrovare le alternative che in quel tempo remoto andarono perdute, alternative che sono l’espressione teologica del nostro pentimento e delle nostre convinzioni, così come oggi si impongono alla nostra coscienza? “.

Queste frasi mi colpirono molto e da allora mi sono sempre state impresse: all’inizio qualcosa andò storto, che cosa?  Sthendal domanda se la separazione di ebraismo e cristianesimo fu necessaria e se corrispondeva al volere di Dio. Un tentativo di risposta - secondo Rolf Rendtorff - è che il cristianesimo nascente avrebbe dovuto mantenere la consapevolezza di essere parte dell’ebraismo. Questo può essere il punto di partenza decisivo della nostra ricerca delle alternative che sono andate perdute.  Anch’io oggi, come tanti teologi, mi sento ebreo discepolo del Nazareno: non ho mai creduto, da quando ho fatto questo passo, di appartenere ad un’altra religione; mi sento totalmente discepolo del Nazazeno, nella pluriformità delle appartenenze.  E con Eugen Drewermann sono  d’accordo che bisogna lavorare perche si stabilisca il rispetto delle diversità dei discepolati, ma che si arrivi a pensare, un giorno, a lavorare perche ebraismo, cristianesimo ed islamismo siano tre quartieri della stessa città.

Questo è importante perchè se Gesù il Nazareno non ha fondato un’ altra religione, io non mi sento di appartenere ad una religione che non è stata nelle sue intenzioni.  So di lavorare nello spazio in cui sono, nella nostra storia, ma il mio orientamento e appartenenza che sento è quella di essere un ebreo discepolo del Nazareno; con tutte le originalità di Gesù, di cui sono innamorato; non per questo penso che la sequela di Gesù mi abbia separato dall’ebraismo.  Questa è la posizione che oggi molti teologi, sia cattolici che protestanti, sostengono. Sono debitore a Sthendal, ma soprattutto al vecchissimo Rendtorff, per queste illuminazioni.  Questo mi pare possa contare molto perchè pone una premessa diversa nel dialogo religioso in quanto, stando alle conoscenze attuali, vi è una seria possibilità di non separare Gesù dall’ebraismo, e in un certo senso di non separarci in religioni diverse.

 

Franco Barbero

 

LE PAROLE DEL VIAGGIO

Cosa salvare della tradizione per una comunità cristiana adulta

 

Nel proseguire la ricerca iniziata nel numero di novembre con l'articolo sull'essenziale della nostra

fede, proseguita con l’'intervento di Marco Chiauzza, la comunità di Torino ha invitato il 2 marzo

scorso Franco Barbero, presbitero della comunità di Pinerolo ponendogli in particolare alcune

domande circa il valore della tradizione cristiana.

Di una tradizione che pesa come un macigno con tutti i suoi dogmi e la sua dottrina, ed alla quale

tuttavia siamo riconoscenti per averci trasmesso la poca fede che abbiamo, quanto rimane da salvare?

Come si è formata, e perche ha avuto un esito che tanto spesso ci sembra così lontano dallo spirito

evangelico di Gesù? e poi, riconciliarsi o rompere del tutto con la tradizione?

Queste alcune delle domande che gli abbiamo posto, alle quali Franco ha risposto mettendo in gioco, come sempre, tutta la sua appassionata ricerca di fede: ne riportiamo la sintesi degli elementi centrali.

 

Raccolgo 1‘invito a riflettere sulla tradizione riferendovi alcune tracce del percorso che sto compiendo. La domanda circa “una fede da reinventare”, che nella chiesa di base assume uno spazio enorme, mi pare sempre più un’istanza essenziale, poiché riguarda la dimensione adulta della nostra fede.  Già sul livello terminologico bisognerebbe intenderci. La Lettera agli Ebrei dice, in un bellissimo linguaggio letterario col quale ci racconta il vissuto storico dei credenti, che noi viviamo dentro una grande nube di testimoni: questa mi è sembrata l’immagine più bella per parlare della tradizione.

La tradizione in origine trasmetteva la testimonianza di fede vissuta e detta. Nel testo greco i termini sono molto diversi: originariamente e la paràdosis, il tradurre, il portare avanti, mentre molto presto, già nei tardivi scritti del Secondo Testamento (lettere a Timoteo ), si parla si para-theke, il deposito: già qui c’è una concezione di verità “certe” depositate da qualche parte.  Leggendo i testi biblici diventa invece subito evidente che i soggetti portatori di questa testimo-nianza sono molti: molte vite, molti modi di vivere la fede, molte voci. La tradizione era originaria-mente questo voluminoso insieme diversificato, spesso sintetizzato in poche parole, ma sempre in un intreccio nel quale le persone coinvolte annunciavano ciò che vivevano: prima di tutto, confor-memente allo spirito ed alla prassi ebraica, viene il vivere, e poi il dire ciò che si vive.

Ma non dimentichiamo che le tradizioni a volte si perdono, a volte vengono cancellate, a volte vengono dimenticate, oppure denigrate, o esaltate, riferite dagli avversari, o fatte sparire: il mo-mento della narrazione tradizionale è variegato, ma non solo, è anche un po’ caotico. Anche nella storia dei credenti, come in ogni relazione umana, spesso il pensiero di un altro o di un’altra viene filtrato attraverso un ‘interpretazione: per questo la tradizione che è giunta fino a noi non può essere considerata un percorso lineare, angelico, ma è anch’ essa il prodotto di persone e comunità che stavano all’interno di relazioni umane e storiche, con tutti i limiti che ciò comporta.

Per fare qualche esempio: come mai non troviamo più il Vangelo dei Nazirei, degli Ebrei o quello degli Ebioniti? Come mai non troviamo più gli scritti di decine e decine di donne dei tanti secoli nei quali la tradizione si è costruita? Semplicemente perche nel corso del tempo alcuni materiali sono stati privilegiati, e quindi trasmessi, ed altri manipolati, o nascosti del tutto.  La domanda su che cosa conservare e che cosa buttare, così come ce la poniamo noi oggi, ha attraversato le generazioni; e ciò innanzitutto è dipeso da motivi concreti, la qualità ed il contesto di lavoro dei copisti, i materiali usati e la loro conservazione. Molta tradizione insomma si è anche venuta formando in base ai concreti ritrovamenti effettuati ed alla qualità dei testi che realmente abbiamo potuto recuperare.

 

Dall’ortodossia al magistero

Un ulteriore passaggio avvenne poi quando dalla tradizione come testimonianza di vita si passò, progressivamente, alla tradizione come dottrina.  Qui cominciò ad affermarsi la priorità del logos, della riflessione e del pensiero, rispetto alla vita vissuta.

Le parole hanno così cominciato a diventare più importanti della vita, dimenticando che esse spesso abitano lontano dall’esistenza dei credenti e non ne rispecchiano la vita.

Perdendo un elemento costitutivo della tradizione, che è la vita dei credenti, è avvenuto uno spostamento importante, che ha portato dalla centralità dell’ esperienza ad una concezione della tradizione come dottrina, didachè, quindi come deposito; un passaggio molto impoverente!  Tutto questo cresce in modo parossistico nel secondo e terzo secolo, con l’Adversus haereses di Ireneo, testo con il quale nasce ormai, negli anni dal 110 al 180 d.C., la divisione tra ortodossia ed eresia. L’elemento centrale non è più la vita dei credenti, ma l’esame di una dottrina, tagliando quindi con il coltello la retta dottrina dall’errore.

In realtà anche noi oggi consideriamo di essee un felice miscuglio di tante cose, e l’unica possibilità che abbiamo per convertirci è di sapere che in noi, per dirla con Agostino, grazia e peccato abitano, o per dirla in modo paolino, luce e tenebra, questo noi siamo. Questo rappresenta l’essenza della nostra creaturalità! Invece, iniziare a distinguere la ricerca di fede in ortodossia ed eresia significa creare un dualismo sempre più lontano dalla realtà, dove I’ eresia - come sappiamo - spesso non è altro che la dottrina della parte perdente.

Un caso importante di cui abbiamo documentazione precisa è la breve storia del dogma trinitario e cristologico: rispetto alla figura di Gesù, ciò che era verità ortodossa nel 325 diventa eresia nel 328!                                                                                                                                                                                                                                                                             In un processo che diventa quindi sempre più rigido, all’interno della dualità ortodossia/eresia nasce l’apologetica: essa rappresenta un’ altra sensibilità, un codice letterario e  storico per il quale diventa importante difendere le proprie idee dalle accuse, e promuoverne una superiorità.  L’apologetica viene progressivamente vissuta come difesa dalle accuse dei pagani, e degli ebrei, ma rimanendo finalizzata alla promozione di una superiorità, in seguito designa una esclusiva priorità rispetto al progetto di salvezza.                                                                                                                                                                                                                                             

L’ assunzione progressiva del diritto romano ed anche l’osmosi con il mondo e la cultura ellenistica hanno forgiato un linguaggio ed un immaginario, una cultura, una strutturazione dei gruppi sul modello patriarcale e monocratico. In tal modo si è progressivamente stabilito un modello, che nella teoria è l’ortodossia ma che poi è diventato anche un modello nella vita. E poiché la chiesa intanto si stava mondanizzando, e già ben prima di Costantino cominciava a fare alleanze sotterranee con il potere, nasce la corrente ebionita, poi quella dei padri del deserto. Essi forgiano l’origine del cristianesimo ascetico, ed accanto all’ortodossia della dottrina hanno dato la vita all’ortodossia della prassi ascetica.  Qui iniziò la discussione, in realtà ancora aperta oggi, sulla progressiva rottura e contrapposizione con l’ebraismo. Il cristianesimo nascerà con tutta probabilità negli anni che van-no intorno al 150 d.C.; i grandi studiosi documentano che l’individuazione di una nuova religione, separata dall’ebraismo, non possa esser concepita prima di questi anni. Ed è in questo tempo che fiorisce la dottrina del fuori della chiesa non c’ è salvezza con la quale arriveremo alla svolta di Nicea.

Osserviamo allora le basi di quella che poi nel Concilio di Trento diventerà la grande discussione - a sua volta ripresa dal Concilio Vaticano Il nella Dei Verbum - sulla dottrina delle due fonti: il cammino della fede è fatto dalla scrittura e dalla tradizione, dicono i padri del Concilio di Trento nel sedicesimo secolo; il protestantesimo aveva annunciato che c’è invece il sola scriptura, un ‘unica fonte legittimante. Questa grande discussione, se i riferimenti per il credente devono essere le due fonti o soltanto la scrittura, era presente già in altri termini fin dalle origini del cristianesimo; ma  l‘accentuazione della dottrina delle due fonti da parte del Concilio Vaticano I, in opposizione alla Riforma, ha rappresentato un momento tragico, perche in queste semplificazioni polemiche si contrae la riflessione. E la tradizione si è identificata così soprattutto con l’elemento più autoritario, il magistero.

Questa non è più la concezione della traditio dei viventi, fatta di vita vissuta e di parole dette lungo il cammino, ma è invece l’insegnamento autorevole di coloro che sono stati a ciò designati: nasce così una strutturazione rigida, che vedrà il suo culmine nel 1870 con la definizione dell’infallibilità del romano pontefice.

Il Concilio Vaticano II nella Dei Verbum non entrerà volutamente in questa questione, ma al numero 10 dirà che scrittura e tradizione convergono, tentando di non scegliere fra una o due fonti,

ma di fare in modo che scrittura e tradizione si richiamino a vicenda; una dinamica che aveva

l’esigenza di non rompere l’unità conciliare ed entrare almeno inizialmente nella discussione teologica ed ecumenica del tempo, ed anche nella ricerca positiva di quel tempo.

 

Verso una dottrina sempre più pesante

Ma la vera svolta era accaduta molto tempo prima, quando l’impero e la cristianità si sono saldati. La data mitica che ricordiamo è il 325 ma le radici sono ben anteriori. Dando vita alla cristianitas avviene la cascata dogmatica, devozionale e liturgica, in una serie infinita di dogmi.

Mentre il dokei era l’opinare, le parole dette lungo il viaggio, ta dogmata diventano le parole forti, le pietre di riferimento assoluto, macigni irremovibili; e chi non aveva questi passaggi                                                                                                                                   veniva escluso dall’abitare la fede.  Questo comporta anche una traslazione dei significati: non c’ è più la concezione narrativa della ricerca della verità, ciò che noi nel cammino siamo riusciti a capire indicando un fin qua, che non è mai definitivo, ma c’ è una condizione tassativa e normativa: queste sono le parole e queste formulazioni sono perentorie, irremovibili ed immodificabili - come dirà poi il Concilio di Trento e ripeterà il Vaticano I.  La cascata è incredibile, ne ricordiamo soltanto alcuni passaggi: nel 325 il Concilio di Nicea, nel 381 Costantinopoli, poi nel 431 Efeso, nel 451 Calcedonia, e potremmo continuare: ciascuno con le sue infallibili e definitive certezze!  Nello stesso tempo, mentre si pongono le dogmatiche cristologiche, nasce anche il quadruplice dogma mariano: nel Concilio di Efeso si proclama la divina maternità; nel 649 il Concilio Lateranense I dichiara che Maria è vergine prima, durante, e dopo il parto; nel 1854 Pio IX stabilisce l‘Immacolata concezione; nel 1950 infine viene proclamata l’assunzione in cielo in corpo ed anima.

Cinque cardinali hanno recentemente avanzato l’idea di un quinto dogma mariano, il suo essere corredentrice, riprendendo l’antica teologia del collo: se Cristo è il capo, e noi siamo il corpo, tra il capo e il corpo c’è un collo, e questo è rappresentato da Maria. La teologia del collo ha avuto uno sviluppo incredibile, è diventata una teologia totalizzante, anche se a noi oggi fa piuttosto sorridere.

Ma - tornando alla storia - nel V secolo nasce quello che nell’ebraismo sarebbe stato impossibile, il concetto di peccato originale, con Agostino e soprattutto con l’agostinianesimo che verrà dopo; la cosiddetta macula originalis. Ma nell’ebraismo il testo di Genesi al cap. 3 voleva rappresentare tutt’altro, la conditio creaturalis, il fatto che noi siamo delle creature, e che quindi portiamo lo stigma della nostra fragilità; e noi pensiamo che la fragilità vada vissuta senza angoscia, riconoscendoci in questa condizione di creatura; questo preserva molto la nostra serenità.  Leggendolo invece come peccato originale, nelle varie versioni, ciò ha portato all’elaborazione del battesimo dei bambini per cancellare il peccato originale, e poi, nel XII secolo, alla triade compatta inferno/purgatorio/paradiso. Così si è perso il valore dell’affidarci a Dio e sapere che possiamo avere un’estrema fiducia in Lui, rispetto al perdono ed all’accoglienza, consegnando il giorno della nostra morte la nostra vita nelle Sue mani; ed è nata invece la estensio potestatis, il potere della chiesa e la sua potestà di intercedere, dopo la morte, con la dottrina - ed anche l’industria - del suffragio. Nel XII secolo nasce anche l’Ave Maria; poco dopo il vincolo di credere che nell’eucaristia c’è la presenza reale - fisica di Gesù (solo reale non era sufficiente, perche poteva significare della fede!). Poi nel XV secolo nasce il Corpus Domini, e via dicendo, fino alle apparizioni, le guarigioni, Medjiugorie, Padre Pio: guardate che carico!  C’è qui un processo di ingigantimento, una escrescenza che ormai ha il sentore di una patologia, di una perdita di equilibrio che pone nel’ecumene cristiana la domanda sul rapporto di tutto questo con la nostra fede e con la scrittura.  Ma che intanto, nei processi di progressiva perdita di sicurezza psicologica delle persone, nella sofferenza e nella disperazione, definisce ormai un rapporto di potere, e di dominio sulle coscienze. Aspetti che in questi anni le comunità di base hanno molto bene esplorato.

 

Ritorno a Gesù di Nazareth

Nella ricerca sull’essenziale della fede per me, invece, la domanda centrale è quella sul significato del sentirmi discepolo del Nazareno.  Questo mi ha portato all’interesse per conoscere ancora meglio il Gesù di Nazareth, in una grande ricerca, nella quale ho un’enorme gratitudine per i tanti teologi che ci hanno preceduto, dove è stato interessante scoprire che su questi aspetti negli ultimi tre secoli c’è stata una grande ricerca, anche se poco conosciuta e poco fatta conoscere.  Il fatto è che, constatata la grande distanza che c’è fra il Gesù storico e quello annunciato dalla Chiesa, la domanda - sofferta - rimane quella relativa alla parentela che ancora rimane tra ciò che dice il Catechismo della chiesa cattolica e ciò che la ricerca di fede e teologica tenta di esprimere.

Lentamente, come sempre nelle ricerche, il tentativo di capire meglio ci ha portato a comprendere che ciò che era sbagliato non erano le formulazioni di Nicea e Calcedonia, quanto la loro ripetizione monotona ed ossessiva. Compito dei credenti non è quello di ripetere le formule apprese, ma quello di rinnovare il rischio di quelle donne e quegli uomini che a Nicea, ad Efeso, a Costantinopoli hanno tentato di dire la loro fede vissuta, in bene o in male, come sempre. Quindi non seppellire quelle formule, ma entrare invece nella dinamica che le ha prodotte, una dinamica di ricerca, di tentativi.

Per me il nodo rimane quello dell’approfondimento di Gesù, l’Ebreo. Oggi mi sembra paradossale che nel mondo cristiano, cattolico in particolare, da molti, Gesù è considerato il primo cristiano! E quasi quasi viene detto cristiano anche Dio!

La prima scoperta è quella che Dio non è assolutamente cristiano, che nemmeno Gesù è cristiano! O Kristos è “il Cristo”, un attributo, che aver trasformato in nome e cognome ci ha messo fuori strada. Sappiamo che Gesù non ha mai pensato di essere Dio; non gli è venuto nemmeno in mente di essere il messia; lui invece, credeva in Dio, e da credente lo pregava. Non ha mai fondato nessuna chiesa (la parola ecclesia significa assemblea, non designa la chiesa come viene intesa oggi). Certo che è detto Figlio di Dio: ma nell’ebraico Figlio di Dio vuol dire tutt’altro, si riferisce a colui sul quale Dio ha posto una benedizione, un investimento di missione.

Dunque, bisognava svestire questo Gesù dei panni... cristiani, e riscoprirne la dimensione autentica.

Alcuni si chiedono: ma se Gesù non è Dio, dov’è la nostra salvezza? Allora, finisce tutto?  Anche nel nostro cammino comunitario abbiamo avuto molte incertezze nel dirci queste cose, forse per il timore che Gesù sembrasse poi uno qualunque, e non significasse invece il portatore di un messaggio speciale, come se Dio non avesse investito in lui una missione particolare.

In realtà Gesù non è stato affatto un profeta qualunque, ma il profeta in cui Dio ha promosso il massimo della profezia e dell’amore. Ma tutto questo lo si vede davvero solo partendo dalla scoperta di Gesù come ebreo.

 

Pregare Dio,  compiere la giustizia

Questo in che cosa mi aiuta a cercare l’ essenziale? Mi aiuta perchè per me l’essenziale della tradizione, del tradere fidem, del portare avanti questo cammino, sta dove dice il Levitico, come i vangeli sempre riprendono: Ama il signore Dio tuo con tutto il cuore e tutta la tua anima, e il prossimo tuo come te stesso. Amplificando questo concetto, come oggi la cultura cosmica ecologica ci stimola a fare, amare adorare Dio e vivere la solidarietà universale con le creature. Questi secondo me sono i due pilastri. Come scriveva Bonhoeffer in Resistenza e resa: tempo verrà in cui due cose saranno essenziali: adorare e pregare Dio, e fare la giustizia tra gli uomini.  Oggi abbiamo ampliato gli orizzonti, e tutta la creatura ha bisogno di giustizia, di solidarietà e di tenerezza: per me questo rimane l’essenziale.  Che va naturalmente declinato secondo le contingenze storiche; la responsabilità creativa di dire cosa vuol dire amare oggi appartiene a ciascuno di noi nel mondo in cui siamo.  Sottolineo che i comandamenti sono due, non uno, perche Dio non è una realtà teoretica ma una realtà di cui io sento l’amore che ci dà; amore verso il quale sento di dover rispondere, sapendo bene 1‘indefinibilità di Dio. Però non voglio avere con Dio un rapporto di sola conoscenza, ma un rapporto di adorazione. Adorare è pregare presso, un rapporto fiduciale.

Questi i due comandamenti dai quali, dice il Vangelo, dipendono la legge ed i profeti. Per me  l’essenziale tutto da declinare e coniugare nella storicità è questo messaggio del Levitico, reso espanso, portato alle estreme conseguenze; ciò era tipico della tradizione ebraica, che doveva sempre spingere in avanti le scritture, e Gesù rimane il maestro di questo dilatare in profondità ed espansione il messaggio ebraico della scrittura.

 

E infine: alcune avvertenze circa l’uso della tradizione

La tradizione va proprio assunta in modo plurale, non resa arrogante, ricordando che ogni percorso è debitore a tanti altri; invece, in ciascuno di noi persistono sempre tracce di visioni dogmatiche.

Dobbiamo quindi anche fra noi rispettare le nostre affezioni e le diverse culture, in un dialogo che persiste anche nelle chiese di base. Bisogna che restiamo nel mondo, assumendone i limiti, e sapere che i linguaggi sono quelli che sono.  Poi dobbiamo ricordare che non possiamo saltare i secoli: certo devo tener conto della storia, ma devo guardare avanti; il rispetto del presente non deve inibire lo sguardo in avanti: guardare lontano ma nella nostra libertà e responsabilità di credenti.

Ricordo ancora la priorità della prassi, perche quello che conta è ciò che si vive davanti aDio.  Perchè le parole - come in una pagina bellissima di Enrico Peyretti - nascondono, le parole occultano, le parole negano, le parole dicono, le parole sono foglie, le parole sono siepi. Ma tutto ha senso se mettiamo al centro la prassi.

Il che non significa sminuire la rilevanza dell’immaginario teologico. Da una parte è importante la centralità della prassi e dall’altra il lavoro teologico, perche liberare l’immaginario è liberatorio (e doveroso).

Resta l’esigenza che l’essenzializzazione della nostra fede non diventi uno svuotamento, un impoverimento. Nel movimento delle comunità di base già Mario Cuminetti, trent’anni fa, ci metteva in guardia da un taglio alle radici: guardate bene che nella selezione della tradizione non vi capiti di tagliare le radici, perche altrimenti, dopo, l’albero ve lo ritroverete secco -.ci diceva.

Non si tratta quindi solo di un percorso verso una , essenzializzazione, ma anche di una acquisizione, perchè essenzializzare non vuol dire perdere: per esempio vuol dire anche ampliare il dialogo con le grandi religioni, relativizzare la nostra esperienza, sapere che Dio è più grande del cristianesimo, che Dio ha amato il mondo prima di Gesù, che Dio ha un mappamondo della salvezza completamente diverso dal nostro! Ricordiamo insomma che Dio è più grande del cri-stianesimo; ed in tal modo questa essenzializzazione diventa un allargamento degli orizzonti. Come per Adamo ed Eva l’Eden era piccolo, invece il mondo era più grande; dopo la caduta della Torre di Babele, la Terra è diventata più spaziosa, bisognava che cadesse la torre per rivedere la terra spaziosa. Qualche volta nel percorso di essenzialità è necessario proprio l’allargamento; non c’è solo il dimagrimento dogmatico o devozionalistico, ma anche un’acquisizione di nuovi orizzonti.

La fede che si essenzializza non diventa così una fede astenica, non nutrita, ma può diventare una fede molto ossigenata, molto aperta.

Certo è più difficile vivere da adulti e da adulte nella libertà: può sorprenderci la paura e credere che finita la nostra infallibilità svanisca la indefettibilità di Dio! Noi tutti siamo creature abitate dalla paura!  Guardate invece come Dio ci porta avanti, nonostante noi. Dio ci porta sulle spalle, ci vuole bene, ci fa maturare; il guaio è ripetere in modo rigido le acquisizioni dei credenti e dei teologi prima di noi. Da essi abbiamo molto da imparare, a partire dalla loro vita, che è stata una vita di fede.

Il tempo rende caduche le nostre parole, le rende impermanenti, le rende transitorie, e crea in noi la responsabilità e la gioia, l’audacia e l’umiltà - sembrano diverse ma sono parenti - di poter dire nuove pratiche di vita, nuove parole. Ecco la fiducia che voglio dare a Dio che ci aiuterà, ci accompagnerà a cercare i nuovi sentieri e a dire altre parole, non come verità da custodire in un mausoleo, ma come parole in attesa di altre parole; come parole del viaggio.

Le parole del viaggio tramontano come le nostre giornate per lasciare spazio ad altre parole ad altri percorsi, ad altri che continueranno questa strada dopo di noi meglio di noi.

 

DAL DIBATTITO:

“All’inizio qualcosa andò storto ...”

Il grande teologo svedese e americano Krister Sthendal, esploratore e maestro della prima ora per quanto riguarda i rapporti cristiano/ebraici, già nel 1967 scriveva: “All’inizio qualcosa andò storto, perche non sono persuaso che ciò che accadde alla rottura dei rapporti fra ebraismo e cristianesimo fosse davvero il volere di Dio. Non ci è possibile riconoscere che le nostre strade non si sono separate in conformità al volere di Dio, ma forse contro il volere di Dio?  So che questo è uno strano modo di parlare, so che può essere tacciato di romanticismo storico, un tentativo di far retrocedere le lancette della storia.

Ma perche dovremmo definirlo così, e non dire piuttosto che è giunto per noi il tempo di ritrovare le alternative che in quel tempo remoto andarono perdute, alternative che sono l’espressione teologica del nostro pentimento e delle nostre convinzioni, così come oggi si impongono alla nostra coscienza? “.

Queste frasi mi colpirono molto e da allora mi sono sempre state impresse: all’inizio qualcosa andò storto, che cosa?  Sthendal domanda se la separazione di ebraismo e cristianesimo fu necessaria e se corrispondeva al volere di Dio. Un tentativo di risposta - secondo Rolf Rendtorff - è che il cristianesimo nascente avrebbe dovuto mantenere la consapevolezza di essere parte dell’ebraismo. Questo può essere il punto di partenza decisivo della nostra ricerca delle alternative che sono andate perdute.  Anch’io oggi, come tanti teologi, mi sento ebreo discepolo del Nazareno: non ho mai creduto, da quando ho fatto questo passo, di appartenere ad un’altra religione; mi sento totalmente discepolo del Nazazeno, nella pluriformità delle appartenenze.  E con Eugen Drewermann sono  d’accordo che bisogna lavorare perche si stabilisca il rispetto delle diversità dei discepolati, ma che si arrivi a pensare, un giorno, a lavorare perche ebraismo, cristianesimo ed islamismo siano tre quartieri della stessa città.

Questo è importante perchè se Gesù il Nazareno non ha fondato un’ altra religione, io non mi sento di appartenere ad una religione che non è stata nelle sue intenzioni.  So di lavorare nello spazio in cui sono, nella nostra storia, ma il mio orientamento e appartenenza che sento è quella di essere un ebreo discepolo del Nazareno; con tutte le originalità di Gesù, di cui sono innamorato; non per questo penso che la sequela di Gesù mi abbia separato dall’ebraismo.  Questa è la posizione che oggi molti teologi, sia cattolici che protestanti, sostengono. Sono debitore a Sthendal, ma soprattutto al vecchissimo Rendtorff, per queste illuminazioni.  Questo mi pare possa contare molto perchè pone una premessa diversa nel dialogo religioso in quanto, stando alle conoscenze attuali, vi è una seria possibilità di non separare Gesù dall’ebraismo, e in un certo senso di non separarci in religioni diverse.

 

Franco Barbero

LE PAROLE DEL VIAGGIO

Cosa salvare della tradizione per una comunità cristiana adulta

 

Nel proseguire la ricerca iniziata nel numero di novembre con l'articolo sull'essenziale della nostra

fede, proseguita con l’'intervento di Marco Chiauzza, la comunità di Torino ha invitato il 2 marzo

scorso Franco Barbero, presbitero della comunità di Pinerolo ponendogli in particolare alcune

domande circa il valore della tradizione cristiana.

Di una tradizione che pesa come un macigno con tutti i suoi dogmi e la sua dottrina, ed alla quale

tuttavia siamo riconoscenti per averci trasmesso la poca fede che abbiamo, quanto rimane da salvare?

Come si è formata, e perche ha avuto un esito che tanto spesso ci sembra così lontano dallo spirito

evangelico di Gesù? e poi, riconciliarsi o rompere del tutto con la tradizione?

Queste alcune delle domande che gli abbiamo posto, alle quali Franco ha risposto mettendo in gioco, come sempre, tutta la sua appassionata ricerca di fede: ne riportiamo la sintesi degli elementi centrali.

 

Raccolgo 1‘invito a riflettere sulla tradizione riferendovi alcune tracce del percorso che sto compiendo. La domanda circa “una fede da reinventare”, che nella chiesa di base assume uno spazio enorme, mi pare sempre più un’istanza essenziale, poiché riguarda la dimensione adulta della nostra fede.  Già sul livello terminologico bisognerebbe intenderci. La Lettera agli Ebrei dice, in un bellissimo linguaggio letterario col quale ci racconta il vissuto storico dei credenti, che noi viviamo dentro una grande nube di testimoni: questa mi è sembrata l’immagine più bella per parlare della tradizione.

La tradizione in origine trasmetteva la testimonianza di fede vissuta e detta. Nel testo greco i termini sono molto diversi: originariamente e la paràdosis, il tradurre, il portare avanti, mentre molto presto, già nei tardivi scritti del Secondo Testamento (lettere a Timoteo ), si parla si para-theke, il deposito: già qui c’è una concezione di verità “certe” depositate da qualche parte.  Leggendo i testi biblici diventa invece subito evidente che i soggetti portatori di questa testimo-nianza sono molti: molte vite, molti modi di vivere la fede, molte voci. La tradizione era originaria-mente questo voluminoso insieme diversificato, spesso sintetizzato in poche parole, ma sempre in un intreccio nel quale le persone coinvolte annunciavano ciò che vivevano: prima di tutto, confor-memente allo spirito ed alla prassi ebraica, viene il vivere, e poi il dire ciò che si vive.

Ma non dimentichiamo che le tradizioni a volte si perdono, a volte vengono cancellate, a volte vengono dimenticate, oppure denigrate, o esaltate, riferite dagli avversari, o fatte sparire: il mo-mento della narrazione tradizionale è variegato, ma non solo, è anche un po’ caotico. Anche nella storia dei credenti, come in ogni relazione umana, spesso il pensiero di un altro o di un’altra viene filtrato attraverso un ‘interpretazione: per questo la tradizione che è giunta fino a noi non può essere considerata un percorso lineare, angelico, ma è anch’ essa il prodotto di persone e comunità che stavano all’interno di relazioni umane e storiche, con tutti i limiti che ciò comporta.

Per fare qualche esempio: come mai non troviamo più il Vangelo dei Nazirei, degli Ebrei o quello degli Ebioniti? Come mai non troviamo più gli scritti di decine e decine di donne dei tanti secoli nei quali la tradizione si è costruita? Semplicemente perche nel corso del tempo alcuni materiali sono stati privilegiati, e quindi trasmessi, ed altri manipolati, o nascosti del tutto.  La domanda su che cosa conservare e che cosa buttare, così come ce la poniamo noi oggi, ha attraversato le generazioni; e ciò innanzitutto è dipeso da motivi concreti, la qualità ed il contesto di lavoro dei copisti, i materiali usati e la loro conservazione. Molta tradizione insomma si è anche venuta formando in base ai concreti ritrovamenti effettuati ed alla qualità dei testi che realmente abbiamo potuto recuperare.

 

Dall’ortodossia al magistero

Un ulteriore passaggio avvenne poi quando dalla tradizione come testimonianza di vita si passò, progressivamente, alla tradizione come dottrina.  Qui cominciò ad affermarsi la priorità del logos, della riflessione e del pensiero, rispetto alla vita vissuta.

Le parole hanno così cominciato a diventare più importanti della vita, dimenticando che esse spesso abitano lontano dall’esistenza dei credenti e non ne rispecchiano la vita.

Perdendo un elemento costitutivo della tradizione, che è la vita dei credenti, è avvenuto uno spostamento importante, che ha portato dalla centralità dell’ esperienza ad una concezione della tradizione come dottrina, didachè, quindi come deposito; un passaggio molto impoverente!  Tutto questo cresce in modo parossistico nel secondo e terzo secolo, con l’Adversus haereses di Ireneo, testo con il quale nasce ormai, negli anni dal 110 al 180 d.C., la divisione tra ortodossia ed eresia. L’elemento centrale non è più la vita dei credenti, ma l’esame di una dottrina, tagliando quindi con il coltello la retta dottrina dall’errore.

In realtà anche noi oggi consideriamo di essee un felice miscuglio di tante cose, e l’unica possibilità che abbiamo per convertirci è di sapere che in noi, per dirla con Agostino, grazia e peccato abitano, o per dirla in modo paolino, luce e tenebra, questo noi siamo. Questo rappresenta l’essenza della nostra creaturalità! Invece, iniziare a distinguere la ricerca di fede in ortodossia ed eresia significa creare un dualismo sempre più lontano dalla realtà, dove I’ eresia - come sappiamo - spesso non è altro che la dottrina della parte perdente.

Un caso importante di cui abbiamo documentazione precisa è la breve storia del dogma trinitario e cristologico: rispetto alla figura di Gesù, ciò che era verità ortodossa nel 325 diventa eresia nel 328!                                                                                                                                                                                                                                                                             In un processo che diventa quindi sempre più rigido, all’interno della dualità ortodossia/eresia nasce l’apologetica: essa rappresenta un’ altra sensibilità, un codice letterario e  storico per il quale diventa importante difendere le proprie idee dalle accuse, e promuoverne una superiorità.  L’apologetica viene progressivamente vissuta come difesa dalle accuse dei pagani, e degli ebrei, ma rimanendo finalizzata alla promozione di una superiorità, in seguito designa una esclusiva priorità rispetto al progetto di salvezza.                                                                                                                                                                                                                                             

L’ assunzione progressiva del diritto romano ed anche l’osmosi con il mondo e la cultura ellenistica hanno forgiato un linguaggio ed un immaginario, una cultura, una strutturazione dei gruppi sul modello patriarcale e monocratico. In tal modo si è progressivamente stabilito un modello, che nella teoria è l’ortodossia ma che poi è diventato anche un modello nella vita. E poiché la chiesa intanto si stava mondanizzando, e già ben prima di Costantino cominciava a fare alleanze sotterranee con il potere, nasce la corrente ebionita, poi quella dei padri del deserto. Essi forgiano l’origine del cristianesimo ascetico, ed accanto all’ortodossia della dottrina hanno dato la vita all’ortodossia della prassi ascetica.  Qui iniziò la discussione, in realtà ancora aperta oggi, sulla progressiva rottura e contrapposizione con l’ebraismo. Il cristianesimo nascerà con tutta probabilità negli anni che van-no intorno al 150 d.C.; i grandi studiosi documentano che l’individuazione di una nuova religione, separata dall’ebraismo, non possa esser concepita prima di questi anni. Ed è in questo tempo che fiorisce la dottrina del fuori della chiesa non c’ è salvezza con la quale arriveremo alla svolta di Nicea.

Osserviamo allora le basi di quella che poi nel Concilio di Trento diventerà la grande discussione - a sua volta ripresa dal Concilio Vaticano Il nella Dei Verbum - sulla dottrina delle due fonti: il cammino della fede è fatto dalla scrittura e dalla tradizione, dicono i padri del Concilio di Trento nel sedicesimo secolo; il protestantesimo aveva annunciato che c’è invece il sola scriptura, un ‘unica fonte legittimante. Questa grande discussione, se i riferimenti per il credente devono essere le due fonti o soltanto la scrittura, era presente già in altri termini fin dalle origini del cristianesimo; ma  l‘accentuazione della dottrina delle due fonti da parte del Concilio Vaticano I, in opposizione alla Riforma, ha rappresentato un momento tragico, perche in queste semplificazioni polemiche si contrae la riflessione. E la tradizione si è identificata così soprattutto con l’elemento più autoritario, il magistero.

Questa non è più la concezione della traditio dei viventi, fatta di vita vissuta e di parole dette lungo il cammino, ma è invece l’insegnamento autorevole di coloro che sono stati a ciò designati: nasce così una strutturazione rigida, che vedrà il suo culmine nel 1870 con la definizione dell’infallibilità del romano pontefice.

Il Concilio Vaticano II nella Dei Verbum non entrerà volutamente in questa questione, ma al numero 10 dirà che scrittura e tradizione convergono, tentando di non scegliere fra una o due fonti,

ma di fare in modo che scrittura e tradizione si richiamino a vicenda; una dinamica che aveva

l’esigenza di non rompere l’unità conciliare ed entrare almeno inizialmente nella discussione teologica ed ecumenica del tempo, ed anche nella ricerca positiva di quel tempo.

 

Verso una dottrina sempre più pesante

Ma la vera svolta era accaduta molto tempo prima, quando l’impero e la cristianità si sono saldati. La data mitica che ricordiamo è il 325 ma le radici sono ben anteriori. Dando vita alla cristianitas avviene la cascata dogmatica, devozionale e liturgica, in una serie infinita di dogmi.

Mentre il dokei era l’opinare, le parole dette lungo il viaggio, ta dogmata diventano le parole forti, le pietre di riferimento assoluto, macigni irremovibili; e chi non aveva questi passaggi                                                                                                                                   veniva escluso dall’abitare la fede.  Questo comporta anche una traslazione dei significati: non c’ è più la concezione narrativa della ricerca della verità, ciò che noi nel cammino siamo riusciti a capire indicando un fin qua, che non è mai definitivo, ma c’ è una condizione tassativa e normativa: queste sono le parole e queste formulazioni sono perentorie, irremovibili ed immodificabili - come dirà poi il Concilio di Trento e ripeterà il Vaticano I.  La cascata è incredibile, ne ricordiamo soltanto alcuni passaggi: nel 325 il Concilio di Nicea, nel 381 Costantinopoli, poi nel 431 Efeso, nel 451 Calcedonia, e potremmo continuare: ciascuno con le sue infallibili e definitive certezze!  Nello stesso tempo, mentre si pongono le dogmatiche cristologiche, nasce anche il quadruplice dogma mariano: nel Concilio di Efeso si proclama la divina maternità; nel 649 il Concilio Lateranense I dichiara che Maria è vergine prima, durante, e dopo il parto; nel 1854 Pio IX stabilisce l‘Immacolata concezione; nel 1950 infine viene proclamata l’assunzione in cielo in corpo ed anima.

Cinque cardinali hanno recentemente avanzato l’idea di un quinto dogma mariano, il suo essere corredentrice, riprendendo l’antica teologia del collo: se Cristo è il capo, e noi siamo il corpo, tra il capo e il corpo c’è un collo, e questo è rappresentato da Maria. La teologia del collo ha avuto uno sviluppo incredibile, è diventata una teologia totalizzante, anche se a noi oggi fa piuttosto sorridere.

Ma - tornando alla storia - nel V secolo nasce quello che nell’ebraismo sarebbe stato impossibile, il concetto di peccato originale, con Agostino e soprattutto con l’agostinianesimo che verrà dopo; la cosiddetta macula originalis. Ma nell’ebraismo il testo di Genesi al cap. 3 voleva rappresentare tutt’altro, la conditio creaturalis, il fatto che noi siamo delle creature, e che quindi portiamo lo stigma della nostra fragilità; e noi pensiamo che la fragilità vada vissuta senza angoscia, riconoscendoci in questa condizione di creatura; questo preserva molto la nostra serenità.  Leggendolo invece come peccato originale, nelle varie versioni, ciò ha portato all’elaborazione del battesimo dei bambini per cancellare il peccato originale, e poi, nel XII secolo, alla triade compatta inferno/purgatorio/paradiso. Così si è perso il valore dell’affidarci a Dio e sapere che possiamo avere un’estrema fiducia in Lui, rispetto al perdono ed all’accoglienza, consegnando il giorno della nostra morte la nostra vita nelle Sue mani; ed è nata invece la estensio potestatis, il potere della chiesa e la sua potestà di intercedere, dopo la morte, con la dottrina - ed anche l’industria - del suffragio. Nel XII secolo nasce anche l’Ave Maria; poco dopo il vincolo di credere che nell’eucaristia c’è la presenza reale - fisica di Gesù (solo reale non era sufficiente, perche poteva significare della fede!). Poi nel XV secolo nasce il Corpus Domini, e via dicendo, fino alle apparizioni, le guarigioni, Medjiugorie, Padre Pio: guardate che carico!  C’è qui un processo di ingigantimento, una escrescenza che ormai ha il sentore di una patologia, di una perdita di equilibrio che pone nel’ecumene cristiana la domanda sul rapporto di tutto questo con la nostra fede e con la scrittura.  Ma che intanto, nei processi di progressiva perdita di sicurezza psicologica delle persone, nella sofferenza e nella disperazione, definisce ormai un rapporto di potere, e di dominio sulle coscienze. Aspetti che in questi anni le comunità di base hanno molto bene esplorato.

 

Ritorno a Gesù di Nazareth

Nella ricerca sull’essenziale della fede per me, invece, la domanda centrale è quella sul significato del sentirmi discepolo del Nazareno.  Questo mi ha portato all’interesse per conoscere ancora meglio il Gesù di Nazareth, in una grande ricerca, nella quale ho un’enorme gratitudine per i tanti teologi che ci hanno preceduto, dove è stato interessante scoprire che su questi aspetti negli ultimi tre secoli c’è stata una grande ricerca, anche se poco conosciuta e poco fatta conoscere.  Il fatto è che, constatata la grande distanza che c’è fra il Gesù storico e quello annunciato dalla Chiesa, la domanda - sofferta - rimane quella relativa alla parentela che ancora rimane tra ciò che dice il Catechismo della chiesa cattolica e ciò che la ricerca di fede e teologica tenta di esprimere.

Lentamente, come sempre nelle ricerche, il tentativo di capire meglio ci ha portato a comprendere che ciò che era sbagliato non erano le formulazioni di Nicea e Calcedonia, quanto la loro ripetizione monotona ed ossessiva. Compito dei credenti non è quello di ripetere le formule apprese, ma quello di rinnovare il rischio di quelle donne e quegli uomini che a Nicea, ad Efeso, a Costantinopoli hanno tentato di dire la loro fede vissuta, in bene o in male, come sempre. Quindi non seppellire quelle formule, ma entrare invece nella dinamica che le ha prodotte, una dinamica di ricerca, di tentativi.

Per me il nodo rimane quello dell’approfondimento di Gesù, l’Ebreo. Oggi mi sembra paradossale che nel mondo cristiano, cattolico in particolare, da molti, Gesù è considerato il primo cristiano! E quasi quasi viene detto cristiano anche Dio!

La prima scoperta è quella che Dio non è assolutamente cristiano, che nemmeno Gesù è cristiano! O Kristos è “il Cristo”, un attributo, che aver trasformato in nome e cognome ci ha messo fuori strada. Sappiamo che Gesù non ha mai pensato di essere Dio; non gli è venuto nemmeno in mente di essere il messia; lui invece, credeva in Dio, e da credente lo pregava. Non ha mai fondato nessuna chiesa (la parola ecclesia significa assemblea, non designa la chiesa come viene intesa oggi). Certo che è detto Figlio di Dio: ma nell’ebraico Figlio di Dio vuol dire tutt’altro, si riferisce a colui sul quale Dio ha posto una benedizione, un investimento di missione.

Dunque, bisognava svestire questo Gesù dei panni... cristiani, e riscoprirne la dimensione autentica.

Alcuni si chiedono: ma se Gesù non è Dio, dov’è la nostra salvezza? Allora, finisce tutto?  Anche nel nostro cammino comunitario abbiamo avuto molte incertezze nel dirci queste cose, forse per il timore che Gesù sembrasse poi uno qualunque, e non significasse invece il portatore di un messaggio speciale, come se Dio non avesse investito in lui una missione particolare.

In realtà Gesù non è stato affatto un profeta qualunque, ma il profeta in cui Dio ha promosso il massimo della profezia e dell’amore. Ma tutto questo lo si vede davvero solo partendo dalla scoperta di Gesù come ebreo.

 

Pregare Dio,  compiere la giustizia

Questo in che cosa mi aiuta a cercare l’ essenziale? Mi aiuta perchè per me l’essenziale della tradizione, del tradere fidem, del portare avanti questo cammino, sta dove dice il Levitico, come i vangeli sempre riprendono: Ama il signore Dio tuo con tutto il cuore e tutta la tua anima, e il prossimo tuo come te stesso. Amplificando questo concetto, come oggi la cultura cosmica ecologica ci stimola a fare, amare adorare Dio e vivere la solidarietà universale con le creature. Questi secondo me sono i due pilastri. Come scriveva Bonhoeffer in Resistenza e resa: tempo verrà in cui due cose saranno essenziali: adorare e pregare Dio, e fare la giustizia tra gli uomini.  Oggi abbiamo ampliato gli orizzonti, e tutta la creatura ha bisogno di giustizia, di solidarietà e di tenerezza: per me questo rimane l’essenziale.  Che va naturalmente declinato secondo le contingenze storiche; la responsabilità creativa di dire cosa vuol dire amare oggi appartiene a ciascuno di noi nel mondo in cui siamo.  Sottolineo che i comandamenti sono due, non uno, perche Dio non è una realtà teoretica ma una realtà di cui io sento l’amore che ci dà; amore verso il quale sento di dover rispondere, sapendo bene 1‘indefinibilità di Dio. Però non voglio avere con Dio un rapporto di sola conoscenza, ma un rapporto di adorazione. Adorare è pregare presso, un rapporto fiduciale.

Questi i due comandamenti dai quali, dice il Vangelo, dipendono la legge ed i profeti. Per me  l’essenziale tutto da declinare e coniugare nella storicità è questo messaggio del Levitico, reso espanso, portato alle estreme conseguenze; ciò era tipico della tradizione ebraica, che doveva sempre spingere in avanti le scritture, e Gesù rimane il maestro di questo dilatare in profondità ed espansione il messaggio ebraico della scrittura.

 

E infine: alcune avvertenze circa l’uso della tradizione

La tradizione va proprio assunta in modo plurale, non resa arrogante, ricordando che ogni percorso è debitore a tanti altri; invece, in ciascuno di noi persistono sempre tracce di visioni dogmatiche.

Dobbiamo quindi anche fra noi rispettare le nostre affezioni e le diverse culture, in un dialogo che persiste anche nelle chiese di base. Bisogna che restiamo nel mondo, assumendone i limiti, e sapere che i linguaggi sono quelli che sono.  Poi dobbiamo ricordare che non possiamo saltare i secoli: certo devo tener conto della storia, ma devo guardare avanti; il rispetto del presente non deve inibire lo sguardo in avanti: guardare lontano ma nella nostra libertà e responsabilità di credenti.

Ricordo ancora la priorità della prassi, perche quello che conta è ciò che si vive davanti aDio.  Perchè le parole - come in una pagina bellissima di Enrico Peyretti - nascondono, le parole occultano, le parole negano, le parole dicono, le parole sono foglie, le parole sono siepi. Ma tutto ha senso se mettiamo al centro la prassi.

Il che non significa sminuire la rilevanza dell’immaginario teologico. Da una parte è importante la centralità della prassi e dall’altra il lavoro teologico, perche liberare l’immaginario è liberatorio (e doveroso).

Resta l’esigenza che l’essenzializzazione della nostra fede non diventi uno svuotamento, un impoverimento. Nel movimento delle comunità di base già Mario Cuminetti, trent’anni fa, ci metteva in guardia da un taglio alle radici: guardate bene che nella selezione della tradizione non vi capiti di tagliare le radici, perche altrimenti, dopo, l’albero ve lo ritroverete secco -.ci diceva.

Non si tratta quindi solo di un percorso verso una , essenzializzazione, ma anche di una acquisizione, perchè essenzializzare non vuol dire perdere: per esempio vuol dire anche ampliare il dialogo con le grandi religioni, relativizzare la nostra esperienza, sapere che Dio è più grande del cristianesimo, che Dio ha amato il mondo prima di Gesù, che Dio ha un mappamondo della salvezza completamente diverso dal nostro! Ricordiamo insomma che Dio è più grande del cri-stianesimo; ed in tal modo questa essenzializzazione diventa un allargamento degli orizzonti. Come per Adamo ed Eva l’Eden era piccolo, invece il mondo era più grande; dopo la caduta della Torre di Babele, la Terra è diventata più spaziosa, bisognava che cadesse la torre per rivedere la terra spaziosa. Qualche volta nel percorso di essenzialità è necessario proprio l’allargamento; non c’è solo il dimagrimento dogmatico o devozionalistico, ma anche un’acquisizione di nuovi orizzonti.

La fede che si essenzializza non diventa così una fede astenica, non nutrita, ma può diventare una fede molto ossigenata, molto aperta.

Certo è più difficile vivere da adulti e da adulte nella libertà: può sorprenderci la paura e credere che finita la nostra infallibilità svanisca la indefettibilità di Dio! Noi tutti siamo creature abitate dalla paura!  Guardate invece come Dio ci porta avanti, nonostante noi. Dio ci porta sulle spalle, ci vuole bene, ci fa maturare; il guaio è ripetere in modo rigido le acquisizioni dei credenti e dei teologi prima di noi. Da essi abbiamo molto da imparare, a partire dalla loro vita, che è stata una vita di fede.

Il tempo rende caduche le nostre parole, le rende impermanenti, le rende transitorie, e crea in noi la responsabilità e la gioia, l’audacia e l’umiltà - sembrano diverse ma sono parenti - di poter dire nuove pratiche di vita, nuove parole. Ecco la fiducia che voglio dare a Dio che ci aiuterà, ci accompagnerà a cercare i nuovi sentieri e a dire altre parole, non come verità da custodire in un mausoleo, ma come parole in attesa di altre parole; come parole del viaggio.

Le parole del viaggio tramontano come le nostre giornate per lasciare spazio ad altre parole ad altri percorsi, ad altri che continueranno questa strada dopo di noi meglio di noi.

 

DAL DIBATTITO:

“All’inizio qualcosa andò storto ...”

Il grande teologo svedese e americano Krister Sthendal, esploratore e maestro della prima ora per quanto riguarda i rapporti cristiano/ebraici, già nel 1967 scriveva: “All’inizio qualcosa andò storto, perche non sono persuaso che ciò che accadde alla rottura dei rapporti fra ebraismo e cristianesimo fosse davvero il volere di Dio. Non ci è possibile riconoscere che le nostre strade non si sono separate in conformità al volere di Dio, ma forse contro il volere di Dio?  So che questo è uno strano modo di parlare, so che può essere tacciato di romanticismo storico, un tentativo di far retrocedere le lancette della storia.

Ma perche dovremmo definirlo così, e non dire piuttosto che è giunto per noi il tempo di ritrovare le alternative che in quel tempo remoto andarono perdute, alternative che sono l’espressione teologica del nostro pentimento e delle nostre convinzioni, così come oggi si impongono alla nostra coscienza? “.

Queste frasi mi colpirono molto e da allora mi sono sempre state impresse: all’inizio qualcosa andò storto, che cosa?  Sthendal domanda se la separazione di ebraismo e cristianesimo fu necessaria e se corrispondeva al volere di Dio. Un tentativo di risposta - secondo Rolf Rendtorff - è che il cristianesimo nascente avrebbe dovuto mantenere la consapevolezza di essere parte dell’ebraismo. Questo può essere il punto di partenza decisivo della nostra ricerca delle alternative che sono andate perdute.  Anch’io oggi, come tanti teologi, mi sento ebreo discepolo del Nazareno: non ho mai creduto, da quando ho fatto questo passo, di appartenere ad un’altra religione; mi sento totalmente discepolo del Nazazeno, nella pluriformità delle appartenenze.  E con Eugen Drewermann sono  d’accordo che bisogna lavorare perche si stabilisca il rispetto delle diversità dei discepolati, ma che si arrivi a pensare, un giorno, a lavorare perche ebraismo, cristianesimo ed islamismo siano tre quartieri della stessa città.

Questo è importante perchè se Gesù il Nazareno non ha fondato un’ altra religione, io non mi sento di appartenere ad una religione che non è stata nelle sue intenzioni.  So di lavorare nello spazio in cui sono, nella nostra storia, ma il mio orientamento e appartenenza che sento è quella di essere un ebreo discepolo del Nazareno; con tutte le originalità di Gesù, di cui sono innamorato; non per questo penso che la sequela di Gesù mi abbia separato dall’ebraismo.  Questa è la posizione che oggi molti teologi, sia cattolici che protestanti, sostengono. Sono debitore a Sthendal, ma soprattutto al vecchissimo Rendtorff, per queste illuminazioni.  Questo mi pare possa contare molto perchè pone una premessa diversa nel dialogo religioso in quanto, stando alle conoscenze attuali, vi è una seria possibilità di non separare Gesù dall’ebraismo, e in un certo senso di non separarci in religioni diverse.

 

Franco Barbero