L'odio per lo straniero nasce dalla paura
di Zygmunt Bauman
in “la Repubblica” del 29 settembre 2008
L'odio e la paura dell'odio sono antichi quando il genere umano (forse ancora più antichi...), e le
probabilità che la loro eterna familiarità con la condizione umana possa essere interrotta in un
prossimo futuro appaiono alquanto scarse, sempreché ve ne siano. Odiamo perché abbiamo paura;
ma abbiamo paura a causa dell'odio che avvelena la nostra coabitazione sul pianeta che
condividiamo. Così ci sono sempre motivi più che sufficienti per avere paura; e sempre motivi più
che sufficienti per odiare. Sembra che l'odio e la paura siano prigionieri di un circolo vizioso, che si
alimentino vicendevolmente e traggano l'uno dall'altra l'animosità e l'impeto che li infiammano. (...)
L'odio è sempre stato con noi, lo è adesso e lo sarà per sempre - qualunque cosa facciamo, e per
quanto impegno mettiamo per cercare di rimpiazzare ciascuna delle sue numerose e variegate
manifestazioni con la mutua compassione, la comprensione, la solidarietà. È vero? Sì, ma non del
tutto. Come ha fatto notare Albert Camus, c'è una novità impressionante nella vecchia storia che
abbiamo riportato. Nei tempi moderni - i tempi in cui viviamo, e soltanto nei tempi moderni - ci
accade di diffondere e coltivare la paura e l'odio, e di commettere atti di violenza che tendono a
esserne conseguenza, in nome di una vita migliore e pacifica, della felicità, dell'umanità, dell'amore.
Di usare il male per promuovere il bene. (...)
Abbiamo bisogno di qualcuno da odiare per sbarazzarci del senso devastante della nostra indegnità,
sperando così di sentirci meglio, ma affinché questa operazione riesca, essa deve svolgersi celando
tutte le tracce di una vendetta personale. Il legame tra la percezione della ripugnanza e dell'odiosità
del bersaglio prescelto e la nostra frustrazione alla ricerca di uno sbocco deve restare segreto. In
qualunque modo l'odio sia nato, preferiremmo spiegarlo, agli altri e a noi stessi, adducendo la nostra
volontà di difendere cose buone e nobili che essi, quegli individui odiosi, denigrano e contro le
quali cospirano, sostenendo che la ragione per la quale li odiamo e la nostra determinazione a
liberarci di loro siano causate (e giustificate) dal desiderio di assicurarci la sopravvivenza di una
società ordinata e civile. Insistiamo a dire che odiamo perché vogliamo che il mondo sia libero
dall'odio. (...)
Recentemente la Suprema Corte di Cassazione italiana ha deliberato che sia legittimo discriminare i
rom sulla base della motivazione che «gli zingari sono ladri». E quando i delinquenti di Napoli,
brandendo mazze, spranghe di ferro e bottiglie incendiarie, si precipitarono sui campi dei rom e dei
sinti situati nella periferia est della città a causa della diceria che una bambina fosse stata rapita da
una zingara, la reazione del ministro dell'Interno [Roberto Maroni, ndt] del governo
democraticamente eletto di Silvio Berlusconi, fu l'affermazione che «questo è ciò che accade
quando gli zingari rubano i bambini», mentre il leader della Lega Nord e ministro dello stesso
governo [Umberto Bossi, ndt], dichiarò (benedicendo «la gente» che mette i campi nomadi a ferro e
a fuoco e manifestando uno sprezzante sarcasmo per la «classe politica» reticente) che «se lo Stato
non fa il suo dovere, lo fa la gente». Fatti analoghi - benché meno pubblicizzati perché annunciati
meno esplicitamente e spudoratamente - erano avvenuti in precedenza nella Slovacchia, nella
Repubblica Ceca e in Ungheria. L'editorialista del
Guardian Seuman Milne riflette che, dato ilclima europeo caratterizzato da un acuto senso di incertezza e ansia, «la degenerazione sociale e
democratica raggiunta ora in Italia» potrebbe verificarsi dovunque. «La persecuzione degli zingari è
la vergogna dell'Italia», conclude, «e un monito per tutti noi». (...)
A differenza delle paure del passato, le paure contemporanee sono aspecifiche, disancorate, elusive,
fluttuanti e mutevoli - difficili da identificare e localizzare esattamente. Abbiamo paura senza sapere
da dove venga la nostra ansia e quali siano esattamente i pericoli che causano la nostra ansia e la
nostra inquietudine. Potremmo dire che le nostre paure vagano alla ricerca della loro causa;
cerchiamo disperatamente di trovarne le cause, per essere capaci di «fare qualcosa in proposito» o
per chiedere che «qualcosa venga fatto». Le radici più profonde della paura contemporanea - la
graduale ma inesorabile perdita di sicurezza esistenziale e la fragilità della propria posizione sociale
- non possono essere affrontate direttamente, poiché le agenzie ancora esistenti di azione politica
non hanno potere sufficiente per sradicarle in un mondo che si sta rapidamente globalizzando. E
così le paure tendono a spostarsi dalle cause reali di malessere per scaricarsi su bersagli che sono
solo remotamente, sempreché lo siano, connesse alle fonti di ansia, ma che presentano il vantaggio
di essere prossimi, visibili, a portata di mano e per ciò stesso possibili da gestire. Tali battaglie
sostitutive, intraprese contro un nemico sostitutivo, non cancelleranno l'ansia, poiché le sue radici
reali resteranno dov'erano, assolutamente intatte - ma perlomeno trarremo qualche consolazione
dalla consapevolezza di non essere restati inerti, di aver fatto qualcosa per cercare di vendicare la
nostra infelicità e di esserci visti mentre lo facevamo - la tormentosa consapevolezza della nostra
umiliante impotenza ne sarà forse lenita - per qualche tempo, almeno.
L'afflusso dei migranti, e specialmente di quelli fuggiti da vittimizzazioni, persecuzioni e
umiliazioni, o la minaccia del loro arrivo, dà ai nativi dei Paesi a cui approdano un profondo disagio
poiché ricorda loro sgradevolmente la fragilità dell'esistenza umana - la loro stessa debolezza che i
nativi preferirebbero decisamente nascondere e dimenticare ma che nondimeno li tormenta per la
maggior parte del tempo. Quei migranti hanno lasciato le loro case e hanno dovuto separarsi dagli
affetti più cari perché non avevano più mezzi di sostentamento e avevano perso il lavoro all'impatto
con il «progresso economico» e il «libero mercato», o perché le loro case erano state bruciate,
sventrate e rase al suolo a causa del corto circuito dell'ordine sociale, di sommosse e tumulti, o
perché vi erano stati costretti dal fatto di essere in esubero, incapaci ormai di guadagnarsi da vivere
e segnati a dito come un «fardello della società». Essi perciò rappresentano - o, meglio, incarnano -
tutte le cose che i nativi temono; rappresentano quelle terrificanti e misteriose «forze globali» che
decidono le regole del gioco in cui tutti noi, i migranti al pari dei nativi, siamo non già giocatori
bensì pedine o gettoni. Quando respingono i migranti e li costringono a fare i bagagli per tornarsene
da dove sono venuti, i nativi possono almeno bruciare quelle forze odiose e spaventose in effigie;
possono conseguire una specie di «vittoria simbolica» in una guerra che sanno (o sospettano, per
quanto ne neghino la consapevolezza) di non poter vincere «sul serio».
Prendere i migranti per le cause delle proprie difficoltà e paure può sembrare illogico, ma tutto ciò
riposa su una sorta di logica perversa: c'era la sicurezza del lavoro e la certezza di buone prospettive
di vita, prima - ma lo scenario è cambiato sostituendovi la flessibilità del mercato del lavoro e
assunzioni incerte e a breve termine, accompagnate da uno sgradevole allentamento dei legami fra
le persone, e tutte queste novità si sono verificate proprio quando arrivavano i migranti. È dunque
«ragionevole» presupporre che l'arrivo di questi stranieri e l'insicurezza che prima non esisteva
siano connessi, e che se si obbligano i nuovi arrivati ad andarsene, tutto tornerà nuovamente
agevole e sicuro come ci si ricorda che fosse (indipendentemente dal grado di correttezza del
ricordo) prima del loro arrivo. (...)
Le paure di oggigiorno sono generate in larga parte dalla globalizzazione (in altre parole, la nuova
extraterritorialità) di forze che decidono delle questioni fondamentali riguardo alla qualità della
nostra vita e alle possibilità di vita dei nostri figli. Il primo nesso causale collaterale riguarda il
senso di sicurezza esistenziale. (...) La questione della sicurezza esistenziale è scivolata via dalle
mani dei partiti che per forza d'inerzia vengono ancora chiamati «la Sinistra», che potevano contare
in passato, ma non più nel tempo presente, su uno Stato intraprendente che risolvesse il problema.
La questione perciò giace, letteralmente, in mezzo alla strada - da cui è stata lestamente raccolta da
forze che, anch'esse erroneamente, vengono chiamate «la Destra». Il partito italiano di destra, la
Lega, promette adesso di ripristinare la sicurezza esistenziale - che il Partito Democratico, l'erede
della Sinistra, promette di minare ulteriormente con una maggiore deregolamentazione dei capitali e
dei mercati, un sovrappiù di flessibilità nel mercato del lavoro e un'apertura ancora più larga delle
porte del Paese alle misteriose, imprevedibili e incontrollabili forze globali (porte che, come sa dalle
sue amare esperienze, non si possono chiudere comunque).
Soltanto la Lega intercetta l'insicurezza esistenziale, ma la interpreta, ingannevolmente, non come il
tipico prodotto del capitalismo senza regole (che significa in pratica libertà per i potenti e impotenza
per chi è a corto di risorse), bensì come la conseguenza, per i ricchi lombardi, di dover condividere
il loro benessere con i pigri calabresi o siciliani, e come la disgrazia di dover condividere, gli
italiani tutti, i loro mezzi di sussistenza con gli zingari ladri e con tutti gli altri stranieri
(dimenticando che la migrazione di milioni di loro antenati italiani negli Stati Uniti e nell'America
Latina ha contribuito enormemente all'attuale ricchezza di quei Paesi).
Traduzione di Riccardo Mazzeo