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Ma l’ebreo non fa proseliti

 

di Giulio Busi

 

Il Sole-24 Ore” del 30 marzo 2008

 

In obbedienza ai principi della «mia religione, non devo cercare di convertire chi non sia nato nella

nostra Legge. Lo spirito di conversione, le cui origini qualcuno vorrebbe attribuire al giudaismo, è

in realtà del tutto contrario a esso». Moses Mendelssohn, il grande filosofo dell’ “illuminismo

ebraico”, a cui si deve quest’affermazione, amava la chiarezza. Certo, il suo rifiuto di ogni sforzo

missionario non avrebbe potuto essere più limpido e autorevole.

Correva il 1770 e Mendelssohn doveva difendersi da un tentativo, questo sì conversionistico, da

parte del teologo protestante Johann Kaspar Lavater, che lo aveva sfidato a dimostrare la superiorità

del giudaismo: se non vi fosse riuscito avrebbe dovuto convertirsi al cristianesimo.

Ai tempi di Mendelssohn era impossibile - e in fondo lo è ancor oggi - discutere dell’atteggiamento

ebraico verso la conversione senza addentrarsi nell’intricata questione dei rapporti tra cristianesimo

e giudaismo. Non c’è dubbio, infatti, che l’idea di un rifiuto ebraico di ogni forma missionaria sia

soprattutto il portato di una competizione teologica con la fede cristiana - e in certa misura anche

con l’Islam - durata secoli, in cui il giudaismo, tradizione più antica divenuta però “debole”

politicamente, e minoritaria, dovette rinunciare a qualsiasi slancio di espansione.

Nonostante l’opinione di Mendelssohn, molte testimonianze storiche ci inducono a pensare che, in

una fase cruciale del suo sviluppo, anche il giudaismo sia stato attraversato da fermenti

conversionistici, sebbene gli studiosi siano discordi sulle strategie e sulle dimensioni di questo

antico fenomeno. È un fatto che, tra il primo esilio e gli inizi dell’era volgare, si assiste a un grande

incremento della popolazione ebraica, che passa da alcune centinaia di migliaia a diversi milioni,

forse sei-otto. Non basta invocare tassi di natalità particolarmente alti: tutto fa credere che il

giudaismo fosse in grado di attrarre proseliti e godesse di particolare prestigio culturale, soprattutto

presso le élites intellettuali ed economiche del mondo pagano.

Certo, una cosa è attirare nella propria sfera religiosa potenziali seguaci, e un’altra è cercarli,

dandosi una strategia organica di apostolato. L’ebraismo tardoantico non è paragonabile a una

chiesa organizzata, con una rigida struttura dogmatica. Piuttosto, nella diaspora, le sinagoghe e le

diverse comunità ebraiche agivano come centri duttili, un mosaico variegato di alto profilo

culturale. Gli ebrei erano di solito consapevoli, e orgogliosi, dell’originalità del proprio monoteismo

ed eccellevano, a scopo innanzitutto difensivo, nell’arte dell’apologetica, ovvero nel mostrare i

pregi e la tenuta religiosa e intellettuale delle proprie convinzioni. Ecco perché, fino almeno allo

scontro frontale con chiesa cristiana in espansione, nel quarto secolo, il giudaismo esercitò un forte

richiamo. L’ebraismo sembra insomma avere praticato quasi esclusivamente strategie di

cooptazione per così dire morbide, e non conflittuali.

In questo senso, dunque, Mendelssohn aveva ragione, nel richiamarsi a una fede che non si dichiara

missionaria, ma semmai vive del prestigio della propria sfida spirituale.