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LEGGERE IL VANGELO CON OCCHI NUOVI. GESÙ DI NAZARETH NEL PARADIGMA DI UNA RELIGIONE SENZA MAGIA

ADISTA n° 62 del 13.9.2008

DOC-2031. MADRID-ADISTA. Incontra comprensibili resistenze il paradigma di una religione senza magia messo a punto dal teologo spagnolo Juan Luis Herrero del Pozo: è l’intero impianto dogmatico della Chiesa, infatti, che frana rovinosamente al venir meno del concetto di intervento divino nella storia e nella coscienza, concetto ricondotto dal teologo ad un approccio magico alla questione del rapporto tra Dio e creatura. Secondo Herrero del Pozo – così come viene illustrato nel suo libro Religión sin Magia, e poi in diversi articoli successivi, pubblicati sul sito spagnolo Atrio (uno dei quali tradotto in italiano da Adista sul n. 76/07 ) – credere che Dio intervenga nella storia al di fuori delle leggi naturali significherebbe sottrarre alla creazione l’autonomia di cui questa è stata dotata, come se, cioè, Dio non si fosse già donato completamente nell’atto creatore e questa creazione avesse dunque bisogno di successivi ritocchi e perfezionamenti.

Di fronte alle reazioni suscitate dai suoi articoli, il teologo ha voluto offrire una presentazione più ampia e sistematica della sua ricerca, pubblicando, capitolo per capitolo, su Atrio (www.atrio.org), nella sezione del sito chiamata “Laboratorio sulla Laicità e la Fede”, un testo più esteso, sotto il titolo El nuevo paradigma (il primo di questi capitoli, “Come nasce il mio nuovo paradigma”, è stato riportato da Adista sul n. 36/08). In esso, Herrero del Pozo sviluppa “la ragionevole scommessa” sull’esistenza di Dio, operando il salto verso la trascendenza con il solo ausilio della ragione anziché sulla base dei dogmi imposti dalle autorità religiose. Emerge da qui la visione di un Dio che “si fa carne nella creazione”, in tutti gli esseri dell’universo, ciascuno secondo la propria capacità ricettiva, fino al vertice dell’evoluzione cosmica costituito dall’essere umano, “massima incarnazione di Dio”, e in quei grandi esseri umani fra i quali il teologo pone Gesù di Nazareth.

Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, alcuni stralci del lungo capitolo IV, dal titolo “Dio si è fatto carne in Gesù di Nazareth”, e del capitolo successivo su “‘La conquista della pienezza alla portata di tutti”. (c. f.)

IL NUOVO PARADIGMA


 di Juan Luis Herrero del Pozo

DIO SI È FATTO CARNE IN GESÙ DI NAZARETH

Il Gesù storico offre di sé più garanzie del Cristo (della fede)

Per non lasciare adito ad alcun fraintendimento sul contenuto di questo capitolo, premetto di condividere le seguenti tesi di J. Hick in La metafora de Dios Encarnado (Abya Yala, quito 2004) e di J. M. Vigil in Teologìa del pluralismo religioso (El Almendro e Abya Yala, 2005):

- (…)“Esiste un ampio accordo tra gli esegeti sul fatto che Gesù non rivendicò per sé l’attributo della divinità, né ebbe assolutamente la pretesa di essere Dio incarnato” (Vigil p. 167);

- “Un figlio di Dio metaforico si trasformò nel Dio Figlio metafisico, seconda persona della Trinità” (Hick, p. 71);

- “Il dogma dell’incarnazione è messo in discussione da un grande numero di teologi tenuti in alta considerazione” (Hick, p. 25);

- “Il cristianesimo del Cristo dogmatico è un altro cristianesimo, ossia un cristianesimo diverso dal cristianesimo del Vangelo del Regno di Dio e della sequela di Gesù” (Vigil, p. 171).

È chiaro che, specialmente in questo capitolo, continuo a seguire il metodo di indagare tutto ciò che una ragione aperta può dare modestamente di sé nella conoscenza del personaggio di Gesù senza ricorrere ad autorità ecclesiali o bibliche che si presumono avallate dall’autorità divina. Il che non impedisce di trattare i testi biblici come testimonianze cristiane riguardanti il personaggio Gesù. Testi che non possono essere presi alla lettera ma, come in qualunque caso, sono ermeneuticamente soggetti al metodo scientifico della critica storica. Non è una precauzione superflua, considerando l’ingenuo vizio nel mondo cristiano di interpretarli così come suonano. (...).

Così come, non essendoci confronti fra gli specialisti sulle “ipsissima verba Iesu”, disponiamo con piena garanzia solo di affermazioni interposte: il modo in cui gli autori di tali testi o le persone all’origine delle traduzioni orali anteriori a questi scritti hanno compreso e interpretato con ardore e con indubitabile buona fede i fatti e le parole di un personaggio tanto fuori dal comune. Formulare ciò come “quello che dicono che ha detto e fatto Gesù” in nessun modo invalida un nucleo duro di massima importanza, malgrado i contorni un po’ confusi dei fatti e detti del Maestro. Non sarebbe arrischiato procedere rispetto ai vangeli con due affermazioni contrapposte: né si esaurisce con essi ovviamente la complessità del Gesù storico, né esiste piena garanzia dell’ine-sistenza di qualche deformazione interpretativa in ragione della stessa soggettività umana. (...).

 

Contorni ambigui del Cristo tradizionale

Devo riconoscere con semplicità il senso di oppressione che le antiche credenze mi causavano. Una confusione considerevole: (...) come poteva Gesù crescere umanamente in saggezza se sapeva tutto in quanto Dio? La sua psicologia umana e la sua saggezza divina dimoravano in comparti-menti-stagno? O in che relazioni erano? E per i teologi medievali il tema delle volontà deve essere stato un rompicapo ancora maggiore. La sua volontà umana non poteva intaccare il suo essere divino e, per questo, non poteva peccare. Ma, allora, dato che non c’era da preoccuparsi di alcuno sbaglio, le tentazioni andavano prese sul serio? Se la sua intelligenza godeva della visione beatifica (...), questa massima felicità come gli aveva permesso di soffrire sulla croce? (...).

Con la maggiore sincerità ed onestà possibile, devo confessare che solo con l’aiuto del nuovo paradigma ho cominciato a scoprire Gesù: solo nella misura in cui, rileggendo i vangeli, mi è apparsa con inusitata novità l’umanissima umanità del Maestro galileo. E solo allora ha acquistato senso e si è intravista l’umanissima divinità di Yavhé.

 

Gesù non è Dio né uguale a Dio

Dunque Gesù non rompe l’evoluzione naturale della storia, non è un caso unico ma uno fra altri. Il più grande? È una domanda oziosa perché non disponiamo di un metro di misura. In ogni caso, la competitività in questo campo sarebbe un brutto inizio per il dialogo interreligioso. Gesù non è stato geloso, come lo erano i suoi amici, di quanti facevano anch’essi miracoli. È normale che nel nostro contesto culturale il più accessibile fra i grandi uomini di Dio sia Gesù, ma niente impedisce di rivolgersi ad altre fonti, Budda, Lao Tse, Maometto...

Abbiamo intravisto un Dio che si nasconde e si rivela in tutte le sue creature nella misura in cui esse partecipano della sua bontà nel corso dell’evoluzione cosmica. (...). Gesù è un vertice dell’evoluzione, sebbene non l’unico. È fatto della stessa pasta creaturale, però che umanissima bellezza quella di questa immagine di Dio al cui seguito ci vorrebbe tutta una vita per imparare ad essere ‘figli di Dio’ e fratelli di tutti!

(...) Dio, inteso nella creazione come dono, non è limitato da se stesso ma dal suo ricettore, come succede all’acqua con il recipiente. Dio si dona all’essere umano, ma la misura della ricettività di questo è costituita da ciò che vi è di più specifico e costitutivo della realtà personale, la libertà. Allora, come s’è già detto, la realtà della persona è sostanzialmente (non accidentalmente) evolutiva. Evoluzione che è un processo che va dall’inizio embrionale (in questo caso converrebbe parlare piuttosto di organismo di essere umano che di persona) fino alla pienezza della persona nella quale questa ‘si definisce definitivamente’ in funzione della sua relazione o unione con Dio, in quella massima misura raggiungibile che costituisce la sua pienezza. Non diverso è il caso di Gesù. (...).

Se questa riflessione che ricorre alla ricezione del dono di Dio nel recipiente umano dice ancora poco, possiamo ricorrere a qualche altra formulazione.

Si potrebbe dire, per esempio, che Dio è in Gesù, abita la realtà di Gesù. O che Gesù è il simbolo nel quale si manifesta e si riversa l’intera realtà di Dio Altissimo. (...).

 

Rimaniamo destabilizzati o liberati?

(...) L’ossatura dogmatica che ha modellato la nostra mente per secoli non va in pezzi senza produrre l’impres-sione di restare tremanti di freddo alle intemperie. E questo in un primo momento sembra destabilizzarci. Tuttavia, non c’è ragione di temere una catastrofe spirituale, niente di essenziale del nostro essere cristiani si perde (...): resta pulita e intatta la costruzione del regno che è ciò cui lui ci ha invitato. Quello che viene sacrificato è solo magia e mitologia.

Il fatto però di concentrarci sul progetto di costruzione del regno implica relativizzare l’ortodossia. L’ortodossia non è essenziale, ma anzi pericolosa, perché nella storia è stata fonte di conflitti (eresie e scismi) e strumento di potere mediante la sottomissione delle coscienze. Solo l’ortoprassi è definitiva e definitoria dell’identità cristiana: “non colui che dice ‘Signore, Signore...’” e “quello che avrete fatto ad ognuno di questi miei fratelli più piccoli l’avrete fatto a me” (Mt 25). Questo è il cuore dell’essere cristiani. Invece, affermare o negare che Gesù è Dio è molto aleatorio, dato che il relativo supporto dottrinale è andato sfumando: non è esistito il peccato originale, offesa infinita a Dio e schiavitù di tutti gli esseri umani che sarebbero rimasti privi di lui... Il peccato originale, quello dei ‘primi genitori’, è solo un mito. Non è necessario alcun redentore che ci liberi da tanto triste eredità. I mali che ci affliggono sono parte inesorabile della condizione umana limitata, ma il Creatore l’ha dotata del necessario per superarsi e camminare verso la pienezza. (...). Dio continua ad abitare le profondità di ogni realtà creata e questo basta per considerarla ‘salvata’.

Negli anni spesi su questo paradigma non ho incontrato un solo caso di persona che, avendolo capito correttamente, abbia manifestato turbamento o frustrazione per questa nuova prospettiva nella sua vita religiosa o spirituale. Al contrario, dopo un iniziale senso di abbandono (i vecchi schemi mentali sono tenaci), queste persone si sono sentite liberate e hanno iniziato un nuovo tipo di approccio a Gesù di Nazareth. Si apre naturalmente una nuova tappa in cui si percepisce la necessità – perché, malgrado le deformazioni, Gesù non ha mai cessato di attrarre – di domandarsi come era realmente Gesù, come ha vissuto la sua relazione con Dio e con la gente e quale significato può avere oggi nella nostra vita. (...).

 

La realtà di Dio avrebbe annullato la coscienza autonoma di Gesù Uomo e il suo divenire personale

(...) Mi soffermo su un interrogativo apparentemente secondario per giustificare la rottura con la mia precedente visione di Gesù di Nazareth (...): la coscienza di Gesù ha percepito o no la sua realtà divina? (...). Se Gesù non avesse avuto coscienza del suo essere divino a cosa sarebbe servita l’ipotesi della sua divinità? Che senso avrebbe assicurare che ci ha potuti “salvare” solo per il fatto di essere Dio se non avesse avuto la consapevolezza di farlo? (...). Diamo per legittima la coscienza di Gesù della propria divinità. Ma in tal caso sorge una difficoltà più grande: (...) lo specifico della persona – nell’antropologia moderna – è il suo carattere evolutivo, il suo costruirsi attraverso l’incertezza, la lotta, la verifica, l’affetto e il disamore esistenziali in uno status costitutivo di relazionalità interpersonale. L’essere umano è una realtà “in fieri”, in divenire. Cosa che in Gesù sarebbe stata scartata. Per quanto poco potesse esser stato cosciente della propria identità con Yahvé, ciò gli avrebbe risparmiato ogni tentazione, gli avrebbe reso impossibile ogni dolore e lo avrebbe posto direttamente (in che momento?) nello status di “beato” o beneficiario della “visione beatifica” celeste. Non sono forse incompatibili il godimento della pienezza finale e il divenire di una biografia incerta? Gesù sarebbe stato un essere umano stranissimo più che misterioso, certamente in nulla simile a noi. (...).

 

Il triangolo esistenziale di Gesù: il suo Io, gli altri, l’Altro

(...) Spogliato il personaggio storico di Gesù degli orpelli posticci - secondo il mio criterio - della divinità, penetriamo in un panorama realmente sconosciuto. Sconosciuto perché durante tutta la mia vita si sono sovrapposte le due “trasparenze”, le due diapositive, quella divina e quella umana di Gesù. E allora:

1. Tutto cambia se ne rimane una sola e se riparte il compito della conoscenza di Gesù. Dissipata la nebbia in cui si muoveva il personaggio nel mio immaginario mentale, devo rifare tutta la ricerca dei tratti della diapositiva umana restante. E avverto che non è facile ricominciare a leggere tutto il vangelo con occhi nuovi. (...).

2. Sento che l’infinito rispetto in cui merita di essere avvolto qualunque incontro profondo con un altro essere umano cresce in maniera smisurata di fronte a Gesù. (...). Al di là dello specifico di Gesù che è, per il suo alto grado di unione mistica con lui, quello di rendere trasparente il Padre, Gesù è il miglior pedagogo per l’incontro con se stessi. Anche solo nella sua globalità, la figura del Maestro nei racconti evangelici rimuove tutti i parametri mentali, destabilizza tutte le sicurezze e apre orizzonti che sembra non possano mai essere raggiunti. (...). Gesù sviluppa la sua avventura di costruzione personale all’interno del triangolo comune a chiunque per quanto ovviamente in modo piuttosto singolare nel suo caso: il suo Io adulto, quelli che lo circondano e lo toccano maggiormente (“gli altri”) e Yahvé, l’Altro ineffabile. In tale triangolo è difficile assegnare subito non tanto una centralità teorica quanto una certa priorità ad uno degli angoli. Ritengo che fra i tre si produca un movimento di autocostruzione a spirale ascendente, non lineare ma circolare e retroattivo fra i tre angoli esistenziali menzionati. (...).

 

Gesù scopre il suo “abbà” Dio nei fratelli

(...) Non mi resta il minimo dubbio: i feriti lungo il cammino della vita con i quali si incontrava Gesù gli “rendevano trasparente” il suo abbà. E questa fu la ragione dell’intuizione sconcertante che è raccolta in Matteo 25 e che quasi 50 anni dopo fu una delle linee di forza della mistica giovannea: il Dio che non vediamo lo amiamo nel fratello che vediamo. Tanto per Gesù come per noi, il fratello è il sacramento di Dio, la diafania, la trasparenza, l’incarnazione di Dio.

In altri luoghi mi sono chiesto, partendo anche dall’ap-parentemente irrazionale innamoramento, cosa mai avvenga affinché la persona, che si percepisce come un assoluto e che dovrebbe dunque farsi racchiudere dal suo egocentrismo in un solipsismo radicale, si apra all’altro con un amore disinteressato e veda in quest’altro un simile, qualcuno ugualmente assoluto, mai suscettibile di essere compreso e trattato come semplice strumento e mezzo per un fine altro. Perché questa capacità di decentramento dell’ego? Ho creduto sempre che in questo superamento del proprio ego  - che lungi dal negarsi si realizza – traspare la chiamata misteriosa dell’Assoluto di Dio. (...).

 

Profeta in una società disintegrata

Tutti gli autori concordano nell’attribuire a Gesù, come punto di partenza dell’esperienza religiosa vissuta accanto a lui dai suoi primi discepoli, il sentimento di essere l’“unto” di Dio, destinato a colmare le aspettative di Israele, mediante lo stabilimento del Regno di Yahvé. Missione altamente rischiosa per il suo carattere rivoluzionario, considerando il contesto di destrutturazione e scomposizione sociale aggravato dalla sottomissione a una potenza straniera. Se questa missione non fu la convinzione primaria di Gesù, non tardò però a farsi strada nella sua coscienza umana. Si sentì il “profeta escatologico” venuto a portare al presente e al futuro di Israele la buona notizia di una liberazione integrale soprattutto dei piccoli, emarginati e diseredati di Israele, nella linea più pura del profetismo ebraico. (...).

Quando uscì di casa, sapeva quello che voleva e probabilmente sospettava quello che lo attendeva. Non era difficile per uno spirito lucido prevedere a cosa si sarebbe esposto sfidando tanto l’autorità religiosa quanto quella civile. I primi contatti furono con la gente semplice che viveva intorno al lago di Tiberiade, tra cui vari pescatori (...). La sua vita interiore era così ricca e intensa in sentimenti, idee, conoscenze delle pieghe del cuore umano; la sua libertà e il suo coraggio di fronte ai capi del popolo così decisi; i suoi criteri sulla realtà così sorprendenti, il suo linguaggio così semplice; la sua tenerezza nei riguardi dei più indifesi così smisurata che quei rudi galilei ne rimasero letteralmente conquistati. Presto lo chiamarono “rabbi”, maestro. La sua fama si estese in un lampo ed egli venne sommerso dalle richieste di quella immensa massa di diseredati, tanto avidi di amore come di pane, convinti dal suo magnetismo risanatore, pacificati nello spirito da quell’aria di familiarità con Dio che emanava da Gesù. (...).

 

Esplode il conflitto finale

(...) I suoi stessi amici e seguaci riflettevano nei loro dubbi e nei loro commenti le immense speranze che riponevano in lui. Ed egli lo sentiva chiaro nella sua coscienza: il progetto di Yahvé per Israele di maggiore giustizia e bontà (“il regno”) era cominciato con lui. Di modo che Gesù accentuò le sue denunce. Il conflitto era inarrestabile. Gesù si scontrò con l’opposizione serrata dei suoi avversari, ormai del tutto esplicita, violenta nelle parole e nel furore dei volti. Invece di arretrare, Gesù lanciò loro la sua sfida decisiva: di fronte allo spavento dei suoi, intraprese dal ritiro della Galilea il lungo camino e infine l’aspra salita a Gerusalemme. Gesù, pienamente cosciente delle conseguenze, sfidò i suoi avversari con un sonoro gesto di autorità, rovesciando a terra i banchi dell’indecoroso commercio all’interno del Tempio. La sorte era segnata. In qualunque momento poteva sopraggiungere l’arresto. Gesù andava a morire per aver vissuto come era vissuto, e non c’è necessità di ricorrere ad alcuna strana teoria sacrificale e redentrice.

Blasfemi i teologi che fecero dell’“abbà”, il buon papà Yahvé, il carnefice per non so quale offesa mitica dell’inizio dei tempi… A offesa infinita, riparazione giusta e infinita. Non è questo un inimmaginabile affronto e tradimento allo spirito di Gesù da parte della razza di vipere, la gerarchia di tutti i tempi (...)? (...).

La situazione precipitò in maniera inevitabile. In pochi secondi Gesù si trovò agli arresti. La sua missione di cambiare la società e rendere giustizia ai poveri era fallita. (...).  Che turbine di sentimenti si agitava nella sua testa? Era stato frustrato il progetto di Yahvé di un mondo migliore (il regno) appena iniziato? Qualcuno avrebbe continuato a confidare nell’“abbà”? Gesù non aveva le chiavi del futuro e non si aspettava una legione di angeli dal cielo per permettergli di proseguire la sua missione (...).

“Abbà, perché mi hai abbandonato?”. E poco dopo: “Abbà, mi abbandono nelle tue braccia”.

In poche ore Gesù, dopo aver subito accuse e torture, venne condotto nel luogo in cui erano giustiziati schiavi e banditi. I ricordi ci giungono sfumati, filtrati, interpretati non da testimoni diretti ma attraverso flash multipli trasmessi dagli uni agli altri. Ma le parole e i gesti del Maestro di maggior impatto godono di maggiore garanzia di storicità (...).

Mi fermo su due frasi di Gesù, a poca distanza l’una dall’altra, che racchiudono il suo particolare “purgatorio”. Il tempo può essere un istante e un istante può contenere la densità di molti anni. Dipende da come si vive. A Gesù restava molto poco tempo ed ogni istante di indicibile dolore era un’eternità. Due frasi struggenti che racchiudono un breve ma densissimo processo di “conversione” (detto con tutte le virgolette che si vogliono): “Papà, perché mi hai abbandonato?”; “Mio buon papà, nelle tue braccia mi abbandono”. Due estremi di un combattimento mortale, lo strappo di una blasfemia e l’affermazione della fiducia totale.

Il grido d’abbandono era la peggiore accusa a Dio nella bocca di un credente israelita: Dio, non sei fedele alle tue promesse! Mi hai abbandonato! Non lo capisco! Perché questo disastro? (chi non ha ripetuto lo stesso in qualche momento della propria vita?). (...).

Gesù bevve fino all’ultima goccia il calice del fallimento definitivo: nessuna prospettiva di costruzione del regno, il Padre lo aveva abbandonato. (...). Tutti lo avevano abbandonato (per quanto il redattore biblico abbia poi edulcorato la scena), Gesù rimase solo. Lo assediavano volti e nomi di centinaia di poveri, emarginati, sofferenti. A cosa gli serviva la consapevolezza che tutto era derivato dalla sua difesa della giustizia e dell’amore? (...).

A differenza dei sadducei, sacerdoti del tempio (che incoerenza, no?), Gesù credeva nella resurrezione come la maggior parte del popolo dal tempo dei maccabei. Ma che poteva intendere Gesù per resurrezione? Un’altra delle parole più ambigue della storia, inclusa quella cristiana. Gesù, che, a dire dei suoi, aveva annunciato la sua resurrezione (profezia ex eventu probabilmente), chissà se aveva le idee teologiche più chiare dei comuni credenti ebrei! Qualcosa, tuttavia, pare che si mosse con una certa rapidità nella sua mente dopo quel suo lamento disperato e blasfemo per l’abbandono del Padre. Forse ebbe un peso l’opinione generalizzata sull’immortalità. Ma più probabilmente gli si andò imponendo nel cuore la convinzione più pura della fede ebraica che non era venuta meno del tutto neppure durante l’esilio: Dio era fedele alle sue promesse. In piena “notte oscura”, lo spirito di Gesù si andò pacificando… e credette. Dalla disperazione tornò alla speranza: “Nelle tue braccia mi abbandono, mio fedele papà”. Nelle braccia in cui sempre aveva vissuto avrebbe continuato a stare anche dopo il tormento. La sua conversione lo aveva condotto alla più alta unione mistica con Yahvé. Consumatum est!

Intanto, finito tutto, seppellito Gesù da un amico o, più probabilmente, gettato nella fossa comune dei giustiziati, i suoi seguaci ed amici, che si erano dispersi, avevano iniziato un cammino simile all’itinerario interiore del Maestro. Cominciando – non ci sono dubbi – dalle donne che più lo avevano amato. Funzionò in loro la stessa chiave della fede ebraica: Dio è fedele. (...). Dato che Dio non si pente delle sue promesse e che Gesù non aveva portato a termine la sua missione profetica, egli doveva tornare! Gesù continuava ad essere vivo. (...). Se Dio era fedele, il maligno non poteva avere l’ultima parola su Gesù. Ciascuno espresse alla sua maniera qualcosa che era indicibile: Gesù viveva. Gesù era vivo e contava su di loro! “Andate e proclamate ai poveri la buona notizia della loro liberazione!”.

Prospettive e conclusioni

(...) 1. La cosa realmente importante per la confessione cristiana non è l’affermazione che resusciteremo perché Gesù resuscitò e fu l’unico a farlo. L’importante è che l’esperienza vissuta dagli apostoli che Gesù continuava ad essere vivo ha confermato qualcosa a cui l’intuizione di tutti i popoli è giunta in qualche maniera e con assai diversi modi di espressione: che la morte inesorabile è un’evidenza ma che esiste un qualche prolungamento dell’essere, in qualunque modo lo si chiami. E questa continuazione dell’essere è una spiegazione migliore, rispetto alla caduta nel nulla, di quest’ansia irrefrenabile in ogni essere umano di sopravvivenza e di piena felicità.

2. (...). L’esultante esperienza interiore degli apostoli sull’indiscutibile fedeltà di Dio alle sue promesse è un avvenimento, per quanto non empirico, di speciale importanza nel cammino della storia. Essi, come tutti coloro che vivono un’esperienza interiore forte, quella dell’unione con Dio mediante l’amore (cosciente o incosciente, esplicito o implicito nelle opere), rappresentano una più ragionevole e dinamica percezione del destino dell’umanità. (...).

3. (...) L’esperienza interiore dei primi cristiani (...) si rafforza con la testimonianza di qualunque persona spirituale impegnata di qualunque religione (o ateismo onesto), cioè di un’esperienza interiore forte che trova riscontro nella dedizione agli altri. Qualunque esperienza spirituale legata alla speranza incrementa la voglia di vivere. “Ogni anima che si eleva, eleva il mondo”, diceva qualcuno. Cosa possiamo intendere per resurrezione è allora qualcosa di secondario: mai verrà sciolto il suo mistero per i mortali (...).

LA CONQUISTA DELLA PIENEZZA ALLA PORTATA DI TUTTI

Ogni essere cosciente è precario per natura ma dotato di capacità di recupero

(...) Fino a non molto tempo fa prevaleva la percezione di un cosmo statico e lineare. La scoperta scientifica dell’e-voluzione in tutti gli ambiti, dagli astri alla persona, ha rivoluzionato tutto, malgrado ogni conservatorismo, compreso quello delle Chiese, che per natura diffidano delle novità. All’evoluzione dell’individuo umano do il nome di “pienificazione”, perché la persona si costruisce sempre nella ricerca di più essere. Il più essere della persona cosciente culmina solo nella felicità piena.

(...) La storia drammatica del genere umano non ha nulla a che vedere con un “paradiso perduto” originario. (...) Qual è l’origine? Non il castigo divino: Dio non vuole mai il male, perché, come insiste T. Queiruga, Dio è l’anti-Male. La natura è imperfetta, limitata e precaria per la sua intrinseca finitezza. (...).

Se ci soffermiamo in particolare sull’essere cosciente e libero, non è difficile intendere il perché dell’errore morale: finché la persona non è richiamata, al termine del suo cammino evolutivo, dalla grazia assoluta di Dio, cioè inondata dalla Luce totale e dal Bene “pienificante” che è la fruizione di Dio, finché ciò non avviene, può lasciarsi obnubilare da beni minori contro i dettami della sua coscienza. Cresciamo procedendo a tentoni, maturiamo superando l’autoinganno, ci disorienta il buio fitto, avanziamo sempre in bilico… in una parola, viviamo l’esperienza dell’innata indigenza e debolezza per via dell’errore e della mancanza morale. Ma sarebbe un enorme nonsenso pensare che questo essere sia talmente difettoso all’origine, che la sua capacità di peccato sia a tal punto distruttiva, da ferirlo mortalmente ad ogni sbaglio e paralizzarne la capacità naturale di recupero. (...).

È chiaro a qualunque lettore che la storia della salvezza, nel senso forte del concetto di salvezza, ha adottato una versione mitologica dell’avventura umana (...) per un vizio metafisico inerente alla mentalità religiosa, cioè per la forma antropomorfa e magica di intendere l’interazione Dio-creatura (secondo cui è possibile alterare le decisioni divine o, al contrario, Dio può intervenire nelle leggi naturali senza rispettare l’autonomia di cui ha dotato la creazione).

(...) Riassumendo, la creatura esce dalle mani del creatore tesa verso di lui, verso il suo intimo e segreto “Fondamento”, con la naturale capacità di dire “No” come di dire “Sì”: è padrona del suo destino senza necessità (perché dovrebbe averla?) di una salvezza esogena. (...).

La persona è pura apertura alla pienezza e possiede, senza dubbio, la capacità di realizzarla. Dio non ci avrebbe reso aperti all’Infinito e desiderosi di raggiungerlo se non ci avesse dotati dei mezzi per arrivare all’unione con lui. (...).

Dalla necessità di Dio all’“immortalità” della persona

(...) Tutte le culture accettavano una qualche sopravvivenza della persona ma non che questa significasse la conquista della pienezza e, soprattutto, fosse la chiave del senso della vita, riconoscendo che la morte, il male, non ha l’ultima parola sul bene. (...). Gesù ha mostrato con la sua vita l’impegno radicale contro l’ingiustizia e, con la sua morte-resurrezione, la felicità definitiva in Dio. Sopravvivenza felice per tutti ma più significativa per quanti hanno fallito nella propria avventura vitale.

(...) Ciononostante, l’ansia di positività non deve offuscarci sulla ‘logica’ del male: in un modo o nell’altro, il male è globale e transitoriamente inevitabile e continuerà a interpellarci con forza. Ma solo globalmente inevitabile. Perché molti dei mali siamo in grado di evitarli. Finché siamo attori della storia, prima della morte, dobbiamo vivere “come se Dio non esistesse”, perché Dio non verrà a sistemare quanto ha affidato alla nostra responsabilità. Va sul nostro conto che l’80% dell’umanità sopravviva a fatica con il 20% delle risorse disponibili (...). E non conviene dimenticare qualcosa di inseparabile e complementare alla solidarietà responsabile. Dopo aver rubato il pane a tanti, stiamo rubando la terra che lo produce ai nostri figli e nipoti. (...). Può concepirsi una più radicale mancanza di solidarietà dell’immoralità ecologica? I nostri discendenti ci giudicheranno a Norinberga, dice Pablo Osés.

La materia si trasforma in energia

(…) Che avviene ipoteticamente nella morte? Penso che rimanga la persona nella sua integrità sostanziale. Inondata, ora, di bontà e di bellezza nel tiepido utero della Dea, la fruizione che implica l’unione con la massima Bontà le rende impossibile aspirare al alcun altro bene. (...).

Rimane la bipolarità della persona all’interno dell’indis-solubile unità, mente e corpo fisico. Non abbiamo percepito nella vecchiaia l’evanescenza di questo e l’“ascensione” di quella? E perché non potrebbe trattarsi (...) della trasformazione della materia in mente (o nascita del corpo spirituale?) a immagine della trasformazione della materia in energia? Non sappiamo nulla di questa realtà nel punto di contatto del tempo e dello spazio con l’eternità di Dio. Ma quello che possiamo fare è scommettere sull’immortalità della persona nell’unione, senza identificazione, con Dio. (...).